Card. Carlo Maria Martini, NOI E L’ISLAM

Card. Carlo Maria Martini, (Torino, 15 febbraio 1927 – Gallarate, 31 agosto 2012)

Noi e l’Islam. Un testo, prima ancora una riflessione, che il Cardinal Martini poneva all’attenzione della comunità cristiana e civile di Milano nel 1990. Visto quanto scrive e il modo in cui lo propone direi profetico. Un uomo e un pastore capace di farsi interrogare e interpellare da quanto sta accadendo nella società con grande lucidità e con grande coraggio, non eludendo le domande più difficili e spinose, e leggerlo alla luce della Parola. Profetico e dunque attuale perchè pone interrogativi e linee di riflessione su aspetti fondamentali che molto dicono anche a noi oggi.


Indice

  • Dal Libro della Genesi (21, 13-20
  • Premessa
  • Chi siamo “noi” e chi è “l’islam”
  • I valori storici dell’islam
  • L’islam in Europa
  • L’atteggiamento della Chiesa e il dialogo
  • Annunciare il Vangelo di Gesù
  • Conclusione


Dal Libro della Genesi (21, 13-20):

In quel tempo Dio disse ad Abramo: “Io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole”. Abramo si alzò di buon mattino, prese il pane e un otre di acqua e li diede ad Agar, caricandoli sulle sue spalle; le consegnò il fanciullo e la mandò via. Essa se ne andò e si smarrì per il deserto di Bersabea. Tutta  l’acqua dell’otre era venuta a mancare. Allora essa depose il fanciullo sotto un cespuglio e andò a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco, perché diceva: “Non voglio veder morire il fanciullo!”. Quando gli si fu seduta di fronte, egli alzò la voce e pianse. Ma Dio udì la voce del fanciullo e un angelo di Dio chiamò Agar dal cielo e le disse: “Che
hai Agar? Non temere, perché Dio ha udito la voce del fanciullo là dove di trova. Alzati, prendi il  fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande nazione”. Dio le aprì gli occhi ed essa vide un pozzo d’acqua. Allora andò a riempire l’otre e fece bere il fanciullo. E Dio fu con il fanciullo, che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco.


PREMESSA

Il racconto che abbiamo ascoltato, tratto dal più antico libro della Scrittura, il libro della Genesi, ci parla di un figlio di Abramo che non fu capostipite del popolo ebraico, come lo sarebbe stato Isacco, ma a cui ugualmente sono
state riservate alcune benedizioni di Dio. “Io farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua prole” promette Dio ad Abramo. E infine nel racconto si dice: “Dio fu con il fanciullo“.  Le reali vicende di questo Ismaele e dei suoi figli rimangono oscure nella storia del secondo e primo millennio avanti Cristo, ma è chiaro che il riferimento biblico va ad alcune tribù beduine abitanti intorno alla Penisola Arabica. Da tali tribù doveva nascere molti secoli dopo Maometto, il profeta dell’islam.
Oggi, in un momento in cui il mondo arabo ha assunto una straordinaria rilevanza sulla scena internazionale e in parte anche nel nostro paese, non possiamo dimenticare questa antica benedizione che mostra la paterna provvidenza di Dio per tutti i suoi figli. Ed è di questo che vorrei parlarvi oggi, festa di sant’Ambrogio, in quello spirito di attenzione agli eventi della città che hanno caratterizzato la vita del nostro patrono. Esprimerò qualche riflessione non sul fenomeno dell’islam in generale, ma su quanto ci tocca
oggi a Milano e nel contesto europeo, a seguito delle nuove forme di presenza dell’islam tra noi. Ho scelto come titolo preciso di questa conversazione Noi e l’islam.

CHI SIAMO “NOI” E CHI E’ “L’ISLAM”

Per noi intendo anzitutto il noi della comunità ecclesiale, della diocesi di Milano e, in seconda istanza, anche il noi della comunità civile cittadina, provinciale e regionale. Certamente il problema posto dall’islam in Europa è molto più vasto. Abbiamo avuto occasione di dirlo l’anno scorso, in questa stessa sede, parlando dell’accoglienza ai terzomondiali. La presenza di numerosi gruppi etnici di fede musulmana nei nostri paesi europei  comporta anzitutto una serie di problemi riguardanti la prima accoglienza e assistenza, la casa, il lavoro. Uno sforzo che impegna tutti; e le comunità cristiane della nostra diocesi hanno dato prova questo anno di grande spirito di solidarietà. Tale compito di prima sistemazione in accordo con le leggi vigenti riguarda in primo luogo la comunità civile, sia pure in collaborazione con le forze di volontariato. Ma è evidente che tutti noi, comunità civile ed ecclesiale, non potremo limitarci in avvenire ai provvedimenti sopraindicati. Nasceranno via via nuovi problemi riguardanti la riunione delle famiglie, la situazione sociale e giuridica dei nuovi immigrati, la loro integrazione sociale mediante una conoscenza più approfondita della lingua, il problema scolastico dei figli, i problemi dei diritti civili, etc.
Non entro direttamente in tali temi perché ho avuto modo di parlarne in diverse occasioni. Vorrei solo richiamare qui, prima di abbordare il tema più specifico, un punto che mi è sembrato finora poco atteso e cioè la necessità di insistere su un processo di “integrazione“, che è ben diverso da una semplice accoglienza e da una qualunque sistemazione. Integrazione comporta l’educazione dei nuovi venuti a inserirsi armonicamente nel tessuto della nazione ospitante, ad accettare le leggi e gli usi fondamentali, a non esigere dal punto di vista legislativo trattamenti privilegiati che tenderebbero di fatto a ghettizzarli e a farne potenziali focolai di tensioni e violenze. Finora l’emergenza ha un po’ chiuso gli occhi su questo grave problema. In proposito, il recente documento della Commissione Giustizia e Pace della CEI dice: “Non va dimenticata la necessità di regole e tempi adeguati per l’assimilazione di questa nuova forma di convivenza, perché
l’accoglienza senza regole non si trasformi in dolorosi conflitti” (Uomini di culture diverse, dal conflitto alla solidarietà, 25 marzo 1990, n. 33). E’ necessario in particolare far comprendere a quei nuovi immigrati che provenissero da paesi dove le norme civili sono regolate dalla sola religione e dove religione e stato formano un’unità indissolubile, che nei nostri paesi i rapporti tra lo stato e le organizzazioni religiose sono profondamente diversi. Se le minoranze religiose hanno tra noi quelle libertà e diritti che spettano a tutti i cittadini, senza eccezione, non ci si può invece appellare, ad esempio, ai principi della legge islamica (sciariaa) per esigere spazi e prerogative giuridiche specifiche. Occorre perciò elaborare un cammino verso l’integrazione multirazziale che tenga conto di una reale integrabilità di diversi gruppi etnici. Perché si abbia una società integrata è necessario assicurare l’accettazione e la possibilità di assimilazione di almeno un nucleo minimo di valori che costituiscono la base di una cultura, come ad esempio i principi della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e il principio giuridico dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Ci sono infatti popoli ed etnie che hanno una storia e una cultura molto diverse dalle nostre e di cui ci si può domandare se intendano nello stesso senso i diritti umani e anche la nozione di legge. Ciò vale a fortiori dove si verificano fenomeni che genericamente chiamiamo col nome di integralismi o fondamentalismi, che tendono a creare comunità separate e che si ritengono superiori alle altre. Ma questo è un problema che nel suo insieme riguarda la comunità civile e la causa della pacifica convivenza tra
le etnie ed io mi limito a richiamarlo. Connesso a questo è però il problema della possibilità anche di un dialogo interreligioso senza il quale sembra difficile assicurare una tranquillità sociale. Ora questo dialogo è possibile? Vi sono pronti i musulmani? Vi siamo pronti noi cristiani? Come vedete, si passa a poco a poco dai problemi che toccano la comunità civile nel suo insieme a quelli più propriamente religiosi, che consistono sostanzialmente, per noi cristiani, nella necessità di valutare e capire a fondo l’islam oggi e nel disporci al massimo di accoglienza e di dialogo possibile, senza per questo rinunciare ad alcun valore autentico, anzi approfondendo il senso del Vangelo. Si tratta in sostanza di rispondere a domande come queste:

a. Che cosa dobbiamo pensare oggi noi cristiani dell’islam come religione?
b. L’islam in Europa sarà anch’esso secolarizzato, entrando quindi in una nuova fase della sua acculturazione europea?
c. Quale dialogo e in genere quale rapporto sul piano religioso è possibile oggi in Europa tra cristianesimo e islam?
d. La Chiesa dovrà rinunciare a offrire il Vangelo ai seguaci dell’islam?
Islam significa etimologicamente “sottomissione” e in special modo sottomissione a Dio e a quella rivelazione che egli ha fatto di sé. Noi intendiamo qui per islam l’insieme di tutte le credenze e pratiche che si richiamano a Maometto e al Corano, ben consci della complessità di un simile macrocosmo e delle sue molteplici ramificazioni nei secoli. In generale possiamo dire che i “pilastri” dell’islam, accettati da tutti i musulmani, sono: il riconoscere un Dio solo, creatore, misericordioso e giudice universale, e Maometto come suo profeta definitivo; la preghiera cinque volte al giorno; il digiuno di ramadàn; l’imposta per i poveri; il pellegrinaggio alla Mecca una volta in vita; il gihàd interiore, cioè lo sforzo e il combattimento per Dio, da intendersi anzitutto come mobilitazione contro le proprie passioni per una vita giusta e la lotta contro l’oppressione e l’ingiustizia; l’impegno a conformarsi nel privato e nel pubblico a quel modo di vivere chiamato sciariaa, basato sul Corano, seguendo il quale è possibile fare la volontà di Dio in ogni aspetto della vita: religioso, personale, familiare, economico, politico. Di qui si vede come l’islam è una religione in cui l’aspetto sociale e civile ha una fondamentale importanza. Anche se i musulmani nel mondo sono oggi diversi per origine etnica e correnti religiose interne e sono cittadini di diversi stati indipendenti, rimane però vero che la fede musulmana è di per se stessa un universalismo che oltrepassa le frontiere e rimane sensibile a grandi appelli al ritorno alle origini, così come avviene oggi nei movimenti fondamentalisti. Se non è facile parlare di islam in generale, in conseguenza della storia molto complessa e ricca di questa religione; più difficile ancora è definire il fenomeno dell’islam tra noi, dell’islam in Europa. Troppo recente infatti è il suo nuovo tipo di presenza nell’Europa occidentale ed è difficile persino stabilirne le misure quantitative. I musulmani nella grande Europa sono circa 23 milioni. Il paese che ne ha la più alta percentuale è senza dubbio l’Unione delle Repubbliche Sovietiche. Seguono la Francia con 2 milioni e mezzo, la Germania ex Federale con 1.700.000, l’Inghilterra
con 1 milione. Per l’Italia si parla di cifre, tra regolari e clandestini, che vanno da 180.000 a 300.000 unità, ma probabilmente il numero è oggi più alto. Paesi molto più piccoli di noi rilevano una presenza proporzionalmente assai più elevata, come l’Olanda che ne ha 300.000 o il Belgio che ne ha 250.000. La presenza tra noi non è quindi numericamente molto rilevante, ma si è fatta vistosa negli ultimi anni, anche perché il loro arrivo in Italia ha coinciso con una ripresa delle correnti più integraliste. E’ forse la percezione di questo aspetto che sta creando tra noi un certo disagio e malessere, suscitando alcune delle domande alle quali tenterò di rispondere.

In quanto comunità cristiana, quali sono i principi a cui ci richiamiamo in questa materia? Possiamo rifarci per brevità a due tipi di testi. Anzitutto a quelli del Concilio Vaticano II, che ha parlato dei musulmani soprattutto in due luoghi. Al n.16 della Lumen Gentium si dice che “il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore e, tra questi, in particolare i musulmani, i quali professano di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giudizio finale“. Nel decreto Nostra Ætate sulle relazioni della Chiesa cattolica con le religioni non cristiane si dice in generale che “la Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni” e “considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere quei precetti e quelle dottrine che non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini“. In particolare afferma di guardare con stima ai musulmani che “cercano di sottomettersi con tutto il core ai decreti di Dio anche nascosti, come si è sottomesso anche Abramo, a cui la fede islamica volentieri si riferisce” (n.2). E a proposito dei “dissensi e inimicizie che sono sorti nel corso dei secoli tra cristiani e musulmani“, il Concilio “esorta tutti a dimenticare il passato e ad esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (n. 3). Il Concilio ha avuto dunque cura di richiamare elementi comuni a cristiani e musulmani. Per questo è anche significativo che esso abbia omesso altri temi importanti per l’islam. Non vengono menzionati dai testi conciliari né Maometto, né il Corano, né l’islam inteso come essenziale nesso comunitario tra i credenti, né il pellegrinaggio alla Mecca, né la sciariaa. Viene menzionata la comune ascendenza abramitica, ma non Gesù, che nell’islam è presente e però è assai lontano da come lo vede il cristianesimo. Per i musulmani Gesù, il figlio di Maria Vergine – e la figura di Maria è venerata presso i musulmani -, non è né profeta definitivo, né il Figlio di Dio e neppure è morto realmente sulla croce. Manca così la dimensione vera e propria della redenzione. Ai testi conciliari che già indicano, malgrado le omissioni sopra notate, con quale rispetto, con quale apertura di spirito e prontezza di dialogo deve procedere un cristiano nel riflettere sull’islam, possiamo ancora aggiungere un testo di Giovanni Paolo II che potrà fugare anche i dubbi di quanti temono che mediante la frequentazione e il dialogo con l’islam venga meno la chiarezza della fede cattolica. Dice Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor Hominis al n. 11: “Il Concilio ecumenico [Vaticano II] ha dato un impulso fondamentale per formare l’autocoscienza della Chiesa, offrendoci in modo tanto adeguato e competente la visione dell’orbe terrestre come di una “mappa” di varie religioni”. Il Concilio “è pieno di profonda stima per i grandi valori spirituali, anzi, per il primato di ciò che è spirituale e trova nella vita dell’umanità la sua espressione nella religione e, inoltre, nella moralità, con diretti riflessi su tutta la cultura. Per l’apertura data dal Concilio Vaticano II, la Chiesa e tutti i cristiani hanno potuto raggiungere una coscienza più completa del mistero di Cristo, “mistero nascosto da secoli” in Dio, per essere rivelato nel tempo, nell’uomo Gesù Cristo e per rivelarsi continuamente in ogni tempo”. Giovanni Paolo II non vede dunque opposizione, anzi convergenza, tra l’attenzione al dialogo interreligioso e l’accresciuta coscienza della propria fede. E’ con questo spirito e con questa fiducia che cerchiamo di rispondere alle domande che ci siamo posti all’inizio.

3. I VALORI STORICI DELL’ISLAM

Che cosa pensare dell’islam in quanto cristiani? Che cosa significa esso per  un cristiano dal punto di vista della storia della salvezza e  dell’adempimento del disegno divino nel mondo? Perché Dio ha permesso che l’islam, unica tra le grandi religioni storiche, sorgesse sei secoli dopo l’evento cristiano, tanto che alcuni tra i primi testimoni lo ritennero un’eresia cristiana, un ramo staccato dall’unico e identico albero? Che senso può avere nel piano divino il sorgere di una religione in certo modo così vicina al cristianesimo come mai nessun’altra religione storica e insieme così combattiva, così capace di conquista, tanto che alcuni temono che essa possa, con la forza della sua testimonianza, fare molti proseliti in un’Europa infiacchita e senza valori?
A questa domanda così complessa non è facile dare una risposta semplice che, tuttavia, è in parte anticipata da quanto abbiamo riferito del Vaticano II. Si tratta di una fede che, avendo grandi valori religiosi e morali, ha certamente aiutato centinaia di milioni di uomini a rendere a Dio un culto onesto e sincero e, insieme, a praticare la giustizia. Quello della giustizia è infatti uno dei valori più fortemente affermati dall’islam: “O voi che  credete, praticate la giustizia – dice il Corano nella Sura IV – praticatela con costanza, in testimonianza di fedeltà a Dio, anche a scapito vostro, o di  vostro padre, o di vostra madre, o dei vostri parenti, sia che si tratti di un ricco o di un povero perché Dio ha priorità su ambedue” (versetto 135). In un mondo occidentale che perde il senso dei valori assoluti e non riesce più in particolare ad agganciarli a un Dio Signore di tutto, la testimonianza del primato di Dio su ogni cosa e della sua esigenza di giustizia ci fa comprendere i valori storici che l’islam ha portato con sé e che ancora può testimoniare nella nostra società.

4. L’ISLAM IN EUROPA

Una seconda domanda: ci sarà una secolarizzazione per l’islam in Europa? La domanda è legittima se si pensa al difficile percorso del cristianesimo nell’alveo della modernità negli ultimi tre secoli. Il confronto tra pensiero moderno razionale, scientifico e tecnico, tendente all’analisi e alla  distinzione dei ruoli e delle competenze e la tradizione cristiana uscita dal mondo unitario medievale, ha segnato un cammino faticoso di cui solo il  Concilio Vaticano II ha potuto consacrare alcuni risultati armonicamente  raggiunti, pur se non ancora del tutto recepiti. Va emergendo però sempre  più chiaramente che la fede in un Dio fatto uomo ed entrato nelle vicende  umane è una forza che permette di cogliere anche nel divenire economico,  sociale e culturale, i segni della presenza di Dio e quindi il senso positivo di  un cammino di fede nell’ambito della modernità. Non è pensabile che  l’islam in Europa non si trovi prima o poi ad affrontare una simile sfida.  Sappiamo anzi che, dalla fine della prima guerra mondiale fino ad oggi, vi  sono state molte proposte, tendenze, partiti, soluzioni secondo le quali il  mondo musulmano, nelle sue diverse ramificazioni, etnie e territori, ha  preso coscienza dell’avvento dell’era della tecnica e delle esigenze di  razionalità che essa comporta. Bisogna dire però che fino ad ora la fede nei  grandi “pilastri” dell’islam non sembra aver avvertito in maniera preoccupante la scossa derivante dai principi della modernità. Prevalgono  in questo momento le tendenze fondamentaliste, che cercano di appropriarsi dei risultati tecnici, ma staccandoli dalle loro premesse  culturali occidentali con la volontà di risolvere, nella linea della tradizione  antica, tutti i problemi politici e sociali per mezzo della religione. Non si  ammette quindi separazione tra religione e stato, tra religione e politica, e nell’interpretazione letterale del Corano vengono cercati tutti i principî per la risposta agli interrogativi contemporanei, anche sociali ed economici. E’ difficile prevedere che cosa potrà avvenire in un futuro più remoto e non è  il caso di indulgere a ipotesi azzardate. Sembra corretto, nel quadro dell’atteggiamento di rispetto che prima abbiamo richiamato, auspicare e aiutare affinché il trapasso necessario ad una assunzione non puramente materiale delle agevolazioni tecniche che vengono dall’occidente sia  accompagnato da uno sforzo serio di riflessione storico-critica sulle proprie  fonti religiose e teologiche cercando “quell’armonia tra la visione filosofica  del mondo e la legge rivelata” (cf. L. Gardet, L’islam e i cristiani, Roma 1988,  p. 114), che era già presente in alcuni dei filosofi arabi conosciuti e utilizzati  a san Tommaso. Dobbiamo adoperarci affinché i musulmani  riescano a chiarire e a cogliere il significato e il valore della distinzione tra  religione e società, fede e civiltà, islam politico e fede musulmana,  mostrando che si possano vivere le esigenze di una religiosità personale e  comunitaria in una società democratica e laica dove il pluralismo religioso  viene rispettato e dove si stabilisce un clima di mutuo rispetto, di accoglienza e di dialogo.


5. L’ATTEGGIAMENTO DELLA CHIESA E IL DIALOGO

Alla luce di quanto fin qui detto, quale dialogo è possibile oggi e quale deve  essere l’atteggiamento della nostra Chiesa a questo proposito? Mi pare  opportuna una distinzione tra dialogo interreligioso in generale e dialogo  tra singoli credenti. Il primo è quello che si svolge a livelli più ufficiali, tra  rappresentanti religiosi di ambo le parti. Esso ha le sue regole indicate nel  Vaticano II e poi in documenti come le norme edite dal Segretariato per il  Dialogo Interreligioso (in particolare L’atteggiamento della Chiesa di fronte  ai seguaci di altre religioni, 1984). Da noi a Milano esiste la Commissione  diocesana per l’Ecumenismo e il Dialogo; in questo senso lavora anche la Segreteria per gli Esteri ed è stato creato recentemente un Centro Ambrosiano di Documentazione per le Religioni, con attenzione speciale  per il mondo musulmano. Sono pure da menzionare le presenze di istituti  missionari come il PIME che hanno ormai una lunga tradizione di  conoscenza e di dialogo con queste realtà. Tale dialogo è riservato piuttosto  ai competenti.

Vorrei spendere una parola per quel dialogo che si svolge a  livello quotidiano a contatto con i musulmani che incontriamo oggi sempre  più frequentemente. Va tenuto presente il fatto che non sempre la singola  persona incarna e rappresenta tutte le caratteristiche che astrattamente  designano un credente di quella religione. Come avviene per i cristiani, così anche per i musulmani non tutti aderiscono in pratica e con piena  coscienza ai precetti e alle dottrine prescritte e ciò probabilmente anche a causa dello scarso retroterra culturale di molti immigrati di recente. Il  problema non è tanto di fare grandi discussioni teologiche, ma anzitutto di cercare di capire quali sono i valori che realmente una persona incarna nel suo vissuto per considerarli con attenzione e rispetto. Si potranno trovare,  non di rado, molte più consonanze pratiche di quanto non avvenga in una  disputa teologica. Ciò vale soprattutto per i valori vissuti della giustizia e della solidarietà. Tuttavia questa considerazione individuale deve sempre  tener conto delle dinamiche di gruppo. Infatti l’islam non è solo fede personale, bensì realtà comunitaria molto compatta e una parola d’ordine  lanciata da qualche voce autorevole al momento opportuno può  ricompattare e ricondurre a unità serrata anche i soggettivismi o i  sincretismi religiosi vissuti da un singolo individuo. Per quanto riguarda  più in generale l’atteggiamento della nostra Chiesa e le attitudini che si  raccomandano a tutti i nostri cristiani, vorrei richiamare brevemente  l’attenzione su alcuni punti che derivano dai principi sopra esposti:

  1. Occorre accogliere motivando cristianamente il perché della nostra accoglienza, dicendolo in una lingua “comprensibile“, che è più spesso quella dei fatti e della carità, dando ai musulmani il senso dello  spessore religioso che pervade la nostra accoglienza.
  2. Occorre ricercare insieme un obiettivo comune di tolleranza e di  mutua accettazione. Non mancano per questo testi anche nel Corano.  Dobbiamo sfatare a poco a poco il pregiudizio in essi radicato che i  non musulmani sono di fatto non credenti. Solo quando ci  riconosceremo nel comune solco della fede di Abramo potremo  parlarci con più distensione, superando i pregiudizi.
  3. Dobbiamo far cogliere loro che anche noi cristiani siamo critici verso  il consumismo europeo, l’indifferentismo e il degrado morale che c’è  tra noi; far vedere che prendiamo le distanze da tutto ciò. Data la loro  abitudine a veder legate religione e società e anche in forza delle  esperienze storiche delle crociate, essi tendono a identificare l’occidente col cristianesimo e a comprendere sotto una sola condanna i vizi dell’occidente e le colpe dei cristiani. Bisogna far comprendere che siamo solidali con loro nella proclamazione di un Dio Signore dell’universo, nella condanna del male e nella promozione della giustizia.
  4. Il dialogo con i musulmani sarà in particolare per noi un’occasione per riflettere sulla loro forte esperienza religiosa che tutto finalizza  alla riconsegna a Dio di un mondo a lui sottomesso. In questo, il nostro giusto senso della laicità dovrà guardarsi dall’essere vissuto come una  separazione o addirittura opposizione tra il cammino dell’uomo e  quello del cristiano.

    Vi sarebbe da dire una parola più specifica per le nostre comunità e in particolare per i presbiteri che le presiedono. Vi  sono due posizioni errate da evitare e una posizione corretta da  promuovere. Prima posizione errata: la noncuranza del fenomeno. Il limitarsi a pensare all’islam come a una costellazione remota che ci sfiora soltanto di passaggio o che ci tocca per problemi di assistenza, ma che non avrà impatto culturale e religioso nelle nostre comunità.  Da tale posizione si scivola facilmente a sentimenti di disagio e quasi  di rifiuto o di intolleranza. Seconda posizione errata: lo zelo  disinformato. Si fa di ogni erba un fascio, si propugna l’uguaglianza di  tutte le fedi senza rispettarle nella loro specificità, si offrono  indiscriminatamente spazi di preghiera o addirittura luoghi di culto senza aver prima ponderato che cosa significhi questo per un corretto  rapporto interreligioso. Al riguardo saranno necessarie norme precise e rigorose, anche per evitare di essere fraintesi. La posizione corretta  è lo sforzo serio di conoscenza, la ricerca di strumenti e l’interrogazione di persone competenti. Penso, in particolare, ai casi molto difficili e spesso fallimentari dei matrimoni misti. Esistono  ormai nell’ambito della diocesi persone di riferimento, corsi e  specialisti che sono a disposizione. Un supplemento di cultura e di conoscenza in questo campo sarà necessario in avvenire, in  particolare per i preti. Come è chiaro in quanto abbiamo detto, pensiamo fermamente che il tempo delle lotte di conquista da una  parte e delle crociate dall’altra debba considerarsi come finito. Noi  auspichiamo rapporti di uguaglianza e fraternità e insistiamo e  insisteremo perché a tali rapporti si conformi anche il costume e il  diritto vigente nei paesi musulmani riguardo ai cristiani, perché si  abbia una giusta reciprocità. Conosciamo i problemi giuridici e teologici che i nostri fratelli dell’islam hanno nei loro paesi per  riconoscere alle comunità cristiane minoritarie i diritti che da noi  sono riconosciuti alle minoranze, ma non possiamo pensare che tali problemi non possano essere risolti affidandosi a quella conduzione  divina della storia che è vanto dell’islam aver sempre accettato in  mezzo a tante dolorose vicissitudini. Il nostro atteggiamento vuole in  ogni caso ispirarsi a quello di san Francesco d’Assisi che scriveva nella sua Regola, al capitolo XVI: Di coloro che vanno tra i saraceni: “I frati che vanno tra i saraceni col permesso del loro ministro e servo possono ordinare i rapporti spirituali in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti e dispute, ma siano soggetti ad ogni  creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la Parola di Dio e tutti i frati, ovunque sono, si ricordino che hanno consegnato e abbandonato il loro corpo al Signore nostro Gesù Cristo e  che per suo amore devono esporsi ai nemici sia visibili che invisibili“. Nessuna contesa dunque, nessun uso della forza;  esposizione sincera e a tempo opportuno di ciò che credono;  accettazione anche di disagi e sofferenze per amore di Cristo.

6. ANNUNCIARE IL VANGELO DI GESU’

Una quarta e ultima domanda: può la Chiesa rinunciare ad annunciare il  Vangelo ai musulmani? Occorre fare anzitutto una distinzione. Altro è infatti l’annuncio, altro è il dialogo. Il dialogo parte dai punti comuni, si sforza di allargarli cercando ulteriori consonanze, tende all’azione comune sui campi in cui è possibile subito una collaborazione, come sui temi della pace, della solidarietà e della giustizia. L’annuncio è la proposta semplice e disarmata di ciò che appare più caro ai propri occhi, di ciò che non si può  imporre né barattare con alcunché, di ciò che costituisce il tesoro a cui si vorrebbe che tutti attingessero per la loro gioia. Per il cristiano il tesoro più caro è la croce, è il mistero di un Dio che si dona nel suo Figlio fino ad assumere su di sé il nostro male e quello del mondo perché noi ne usciamo  fuori. Non sempre questo annuncio può essere fatto in modo esplicito,  soprattutto nelle società chiuse e intolleranti. E’ un caso oggi non infrequente in alcuni paesi. Ma pure nei paesi cosiddetti liberi ci si scontra  talora con chiusure mentali così forti da costituire quasi una barriera.  Allora la proposta assume la forma della testimonianza quotidiana,  semplice e spontanea, e quella della carità e anche del dono della vita, fino  al martirio. E’ il principio sopra ricordato di san Francesco. Con questa  distinzione riprendiamo dunque la nostra ultima domanda: può la Chiesa  cattolica rinunciare a proporre il Vangelo a chi ancora non lo possiede? Certamente no, come ai musulmani non viene chiesto di rinunciare al loro  desiderio di allargare la umma, la comunità dei credenti. Ciò che conterà  sarà lo stile, il modo, cioè quelle caratteristiche di rispetto e di amore, quello stile di attenzione e di desiderio di comunicare la gioia nella pace che è proprio di chi accetta le Beatitudini. Questo stile non è senza riscontri anche nel mondo dell’islam. Si legge infatti nel Corano: “Chiama gli uomini alla Via del Signore, con saggi ammonimenti e buoni, e discuti con loro nel modo migliore… pazienta e sappi che il tuo pazientare è solo possibile in Dio… perciocché Dio è con coloro che lo temono, con coloro che fanno del bene” (XVI, 125-127). Raggiungeremo così tutti anche quell’atteggiamento  missionario che ha caratterizzato il ministero di Ambrogio in mezzo ai  pagani del suo tempo. 

Francesco d’Assisi e il Sultano

7. CONCLUSIONE

Maometto nasce due secoli dopo il tempo di sant’Ambrogio e non vi è quindi nell’opera del santo nulla che si riferisca direttamente al nostro tema, ma è interessante notare che la comunità di Ambrogio era una comunità religiosamente minoritaria. Due terzi della popolazione che in quel tempo abitava nella zona di Milano non era cristiana. Eppure “sembra che a Milano non esistesse un ministero organizzato per l’evangelizzazione dei pagani. Nel De officiis ministrorum Ambrogio non dà alcuna istruzione ai chierici per il lavoro di conversione dei pagani” (cf. V. Monachino, S. Ambrogio e la cura pastoralea Milano nel secolo IV, Milano 1973, p. 48). La via ordinaria per la quale essi venivano a conoscenza del cristianesimo era la frequenza libera alla predicazione, aperta a tutti, i colloqui con il vescovo, come nel caso di Agostino, e specialmente il contatto con i cristiani  e la loro condotta esemplare. Ambrogio poneva la sua cura nel far progredire la comunità cristiana come tale; per mezzo di essa, e non con un ministero organizzato, avveniva l’influsso sui pagani. Non dunque un proselitismo invadente, bensì l’immagine di una comunità plasmata dal Vangelo e dall’Eucaristia, zelante nella carità, libera e serena nel suo impegno civile quotidiano, coraggiosa nelle prove, sempre piena di  speranza. E’ questa la nostra forza principale oggi, in un mondo secolarizzato, e questa forza è quella delle origini, quella della Chiesa di  sant’Ambrogio e della Chiesa dei giorni nostri.


Card. Carlo Maria Martini
Milano – 6 dicembre 1990

(tratto da Fondazione Carlo Maria Martini)


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