Holbein, Il Cristo morto

Il corpo di Cristo morto nella tomba è un dipinto di Hans Holbein il Giovane del 1521
Hans Holbein il Giovane, Il corpo di Cristo morto nella tomba, 1521, Basilea, Kunstmuseum.

La liturgia del venerdì santo   assume un significato particolare e si discosta nei gesti e nell’atmosfera dalle celebrazioni ordinarie. Il sacerdote e il diacono indossano le vesti di colore rosso, non si suonano le campane (verranno “sciolte” durante la veglia pasquale) né si accendono le candele, non ci celebra l’eucarestia (evento che accade solo in questo giorno). Siamo invitati al memoriale della crocifissione e morte di Gesù. L’autore della lettera ai Filippesi scrive nel celebre inno cristologico

Cristo Gesù,
6 il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
7 ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
8 umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.

Filippesi 2,5-8

Le parole del versetto 8 risuonano in tutta la loro drammaticità “obbediente fino alla morte e alla morte di croce“. Come pensare la morte di un Dio? Questo lo scandalo al quale la ragione si ribella. La morte ci provoca, ci tormenta. Tante sono le tentazioni per annullarla, per non pensarla. Nei primi secoli la chiesa ha dovuto ricordare ed affermare con autorevolezza che le sofferenze di Cristo non furono simboliche ma reali come reale fu la morte. Per l’Islam sulla croce non morì Gesù (Sura III,55 e Sura IV,157 ). Il dolore e la sofferenza sono insopportabili per un uomo, (come è possibile portare questo peso?) non si possono pensare per un Dio.

Il Cristo morto

Il quadro dipinto dal pittore Hans Holbein il Giovane, datato 1521, ci restituisce invece tutta la drammaticità della morte di Cristo. Non ci nasconde nulla. La leggenda vuole che l’artista abbia utilizzato come modello al quale ispirarsi il cadavere di un ebreo annegato. Ci viene mostrato infatti un cadavere allungato e abbandonato su di un basamento ricoperto da un telo appena drappeggiato. E’ un cadavere a grandezza d’uomo. Lo vediamo di profilo con la testa leggermente reclinata verso lo spettatore. I capelli sparsi sul telo. Il braccio destro, ben visibile, abbandonato, disteso lungo il corpo scarnificato, con i segni della tortura subita. Sul petto è impressa una ferita causata dalla lancia, la mano mostra le stimmate della crocifissione che irrigidiscono il medio disteso. Anche sui piedi vediamo i segni dei chiodi della crocifissione. E’ un volto martire, intriso di dolore, senza speranza, lo sguardo perso nel vuoto. Il colore cinereo è quello di un uomo realmente morto. Sembra ancora una volta lanciare verso il Padre il grido di abbandono. Il minimalismo di Holbein risulta in tutta la sua drammatica espressività se paragonato ad un’opera simile del giansenista Cristo morto di Philippe de Champaigne   ora al Louvre.

Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno!

Non è un caso che un dipinto del genere colpisca la fantasia di chi lo osserva e induca alla riflessione. Difficile rimanere apatici o distratti. Tra i tanti che si sono soffermati su quest’opera e ne hanno parlato ricordiamo lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij il quale lo ha visto con la moglie 1 durante un viaggio in Svizzera rimanendone molto impressionato. Riporto la descrizione che tratteggia, e successivamente approfondisce, nel suo romanzo l’Idiota. In prima battuta è il principe Myškin, il protagonista principale, a parlarne.

«Mi piace guardare quel quadro» mormorò Rogožin dopo un breve silenzio, come se avesse dimenticato nuovamente la sua domanda.
«Quel quadro!» esclamò d’un tratto il principe preso da un pensiero improvviso. «Quel quadro! Ma quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno!» […] Fëdor Dostoevskij,

L’Idiota, Parte II,4.

Poco oltre Ippolit, un personaggio secondario, che per certi versi rappresenta sia il narratore sia Myškin, ne offre una descrizione convincente.

Quando mi alzai per chiudere a chiave la porta dietro di lui, mi venne in mente all’improvviso il quadro che avevo visto da Rogožin quel giorno, in una delle sale più tetre della casa, appeso in cima a una porta. Me l’aveva mostrato egli stesso quando eravamo passati di lì, io mi ero soffermato a osservarlo per cinque minuti circa. In esso non c’era nulla di ammirevole dal punto di vista artistico, ma suscitò in me una strana inquietudine. Il quadro rappresentava il Cristo appena deposto dalla croce. Mi sembra che i pittori abbiano tuttora l’abitudine di rappresentare Cristo sulla croce, oppure nella deposizione, con un viso di bellezza straordinaria; essi cercano di conferirgli questa bellezza anche fra le torture più atroci. Nel quadro di Rogožin di bellezza non ce n’è neanche l’ombra, c’è solo il cadavere di un uomo che ha subito indescrivibili torture prima di finire sulla croce. È stato ferito, battuto dalle guardie, percosso dal popolo mentre portava la croce sulle spalle, è caduto sotto il peso della croce e ha subito per sei ore il supplizio sulla croce (così per lo meno ho calcolato io). È il viso di un uomo che è stato tolto or ora dalla croce, che ha ancora in sé qualche barlume di vita, di calore, non si è ancora irrigidito nella morte. Dal suo viso dunque traspare la sofferenza come se ancora soffrisse (questo l’artista lo ha colto molto bene). Quel viso non è stato affatto risparmiato, esso è esattamente come quello di un cadavere che ha subito tali torture. So che la chiesa cristiana ha stabilito sin dai primi secoli che Cristo non soffrì metaforicamente ma realmente e che il suo corpo fu sottoposto sulla croce alle leggi della natura in tutto e per tutto. Nel quadro questo viso è tumefatto dai colpi, gonfio, ricoperto di lividi terribili, sanguinanti, gli occhi sono spalancati, le pupille sono storte, il bianco degli occhi luccica di un riflesso vitreo, cadaverico. Lo strano è che quando guardi quel corpo straziato, ti viene una domanda curiosa e particolare: se era quello il corpo (e doveva essere proprio così) che videro i suoi discepoli, soprattutto i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano seguito e assistito vicino alla croce, che credevano in lui e lo adoravano, come potevano essi credere, guardando un cadavere ridotto così, che quel martire sarebbe risorto? Viene spontaneo pensare che se la morte è così terribile e se sono così potenti le leggi della natura, come è possibile sconfiggerle? Come fare a sconfiggerle se non ci è riuscito neanche colui che aveva superato le leggi della natura durante la sua vita, l’aveva piegata a sé, colui che aveva pronunciato “Talitha cumi!   ” e la fanciulla si era alzata; “Lazzaro, alzati!   ” e il morto era risorto? Contemplando quel quadro la natura appare come una belva enorme, implacabile e cieca, oppure, per usare una espressione più esatta, anche se strana, come una macchina gigantesca nuovissima, che senza pensarci ha afferrato, dilaniato e inghiottito, senza provare alcuna compassione, un essere sublime e inestimabile, lo stesso essere che da solo valeva più della natura e di tutte le sue leggi, più della terra che era stata creata forse solo per consentire la manifestazione di quell’essere! In quel quadro si esprime il concetto di una forza oscura, nuda, eterna e inconsapevole alla quale tutto è assoggettato e concesso malgrado il proprio volere. Le persone che circondavano il morto, che non appaiono nel quadro, quella sera dovevano essere in un terribile stato di ansia e turbamento che aveva distrutto tutte le loro speranze e la loro fede in un colpo solo. Forse si separarono oltremodo impauriti anche se portavano dentro di sé un pensiero grandioso che mai niente avrebbe strappato loro. E se il Maestro avesse visto l’immagine del suo cadavere alla vigilia dell’esecuzione, sarebbe salito sulla croce e sarebbe morto così? È una domanda che ti viene spontanea, quando contempli quel quadro.

Fëdor Dostoevskij, L’Idiota, Parte III,6

Una composizione dell’isolamento

Rispetto a tanti altri quadri che mostrano la deposizione, la crocifissione, con tratti di profondo e incensurato realismo, pensiamo alla crocifissione di Grünewald) nell’opera di Holbein colpisce la solitudine e l’isolamento di Cristo. Julia Kristeva  all’interno del suo saggio Sole nero così commenta e analizza queste condizioni dell’opera di Holbein.

Holbein lascia il cadavere stranamente solo. Ed è forse questo isolamento – un fatto di composizione – che conferisce al quadro la maggior carica melanconica, più di quanto non facciano il disegno e il colorito. […] questo realismo lancinante per la sua stessa parsimonia è accentuato al massimo dalla composizione e dalla posizione del quadro: solo un corpo allungato posto al di sopra degli spettatori e separato da essi. Separato da noi dal basamento, ma senza alcuna linea di fuga verso il cielo perchè il soffitto della nicchia incombe basso, il Cristo di Hobein è un morto inacessibile, lontano, ma senza alcun aldilà. Un modo di vedere l’umanità a distanza, persino nella morte. […] La derelizione   del Cristo raggiunge qui l ‘acme: abbandonato dal Padre, è separato da tutti noi. A meno che Hobein, spirito corrosivo ma che non sembra aver superato mai la soglia dell’ateismo, non abbia voluto inlcuderci direttamente, includere proprio noi – umani, estranei, spettatori –  in questo momento cruciale della vita del Cristo. Avendo come solo intermediario, come sola suggestione e indottrinamento pittorico e teologico la nostra stessa capacità di immaginare la morte siamo indotti a immergerci nell’orrore di quella cesura che è il trapasso o a sognare un aldilà invisibile. […]

L’originalità di Holbein consiste quindi in una visione della morte di Cristo priva di patetismo e intimista per la sua stessa banalità. L’umanizzazione raggiunge così il suo punto più alto: il punto della cancellazione della gloria nell’immagine. Quando il lugubre sfiora il qualsiasi, il segno più conturbante è quello più ordinario. Di fronte all’entusiasmo gotico, la melanconia si trasforma in umaniesimo e  in parsimonia.

Julia Kristeva, Sole nero, Depressione e malinconia, Donzelli editore , 2013, p.95-97.  I grassetti sono miei.

Lumen fidei

Di questo dipinto ne parla anche Papa Francesco nell’Enciclica Lumen fidei  , riferendosi pure lui alla frase del romanzo di Dostoevskij.  Nella durezza e nel modo crudo di raffigurare la morte la fede viene rafforzata in relazione all’amore per l’uomo mostrato da Gesù Cristo. Al n. 16 afferma che

La prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella sua morte per l’uomo. Se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr Gv 15,13), Gesù ha offerto la sua per tutti, anche per coloro che erano nemici, per trasformare il cuore. Ecco perché gli evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino. San Giovanni collocherà qui la sua testimonianza solenne quando, insieme alla Madre di Gesù, contemplò Colui che hanno trafitto (cfr Gv 19,37): « Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate » (Gv 19,35). F. M. Dostoevskij, nella sua opera L’Idiota, fa dire al protagonista, il principe Myskin, alla vista del dipinto di Cristo morto nel sepolcro, opera di Hans Holbein il Giovane: «Quel quadro potrebbe anche far perdere la fede a qualcuno». Il dipinto rappresenta infatti, in modo molto crudo, gli effetti distruttivi della morte sul corpo di Cristo. E tuttavia, è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo.


1

«Lo spettacolo di questo volto tumefatto, coperto di ferite sanguinanti è terribile», scrive Anna Grigor’evna Dostoevskaja [seconda e ultima moglie di Fëdor Dostoevskij, quindi come memorialista e curatrice delle opere del marito] nei suoi ricordi, «così non avendo la forza di guardarlo più oltre, nella situazione in cui mi trovavo in quel momento, me ne andai in un’altra sala. Ma mio marito sembrava distrutto. Si può trovare nell’Idiota un riflesso dell’impressione assai forte che il quadro fece su di lui. Quando ritornai dopo una ventina di minuti era ancora là allo stesso posto, incatenato. Sul suo volto commosso era impressa quell’espressione di terrore che avevo già notato assai spesso all’inizio delle sue crisi di epilessia. Lo presi dolcemente per un braccio, lo portai fuori della sala e lo feci sedere su una panca, aspettandomi da un momento all’altro la crisi [epilettica] che per fortuna non ebbe luogo. Poco a poco si calmò, ma uscendo dal museo non insistette per vedere una seconda volta il quadro.»

Citato in Julia Kristeva, Sole nero, Depressione e malinconia, Donzelli editore , 2013, p.157.

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