Fotogramma del film di Steven Spielberg, Schindler's List.

Wiesel Elie, Un violino all’inferno

Chagall, Il violinista verde
Chagall, Il violinista verde

Durante la seconda guerra mondiale il quindicenne
Elie Wiesel viene deportato nei campi di concentramento nazisti. In queste pagine autobiografiche ricorda alcuni momenti della sua terribile esperienza.
La porta del capannone si aprì. Apparve un vecchio, i baffi coperti di brina, le labbra blu per il freddo. Era Rabbi Eliahu, il rabbino’ di una piccola comunità polacca. Un uomo molto buono, che tutti amavano al campo, anche i kapò e capiblocco. Malgrado le prove e le sofferenze il suo volto continuava a riflettere la sua purità interiore. Era il solo rabbino che non dimenticavamo mai di chiamare “rabbi” a Buna. Assomigliava a uno di quei profeti di un tempo, sempre in mezzo al popolo per consolarlo. E, fatto strano, le sue parole di consolazione non irritavano nessuno. Esse calmavano veramente.

Questo personaggio presenta molti punti in comune sia con il violinista dei lubki, tradizionali stampe utilizzate per illustrare favole e aneddoti o come insegne pubblicitarie, sia con il riquadro per il teatro ebraico, soprattutto nella posa adottata, ma anche nello sfondo con il villaggio di campagna

Entrò nel capannone e i suoi occhi, più brillanti che mai, sembravano cercare qualcuno:
– Forse avete visto mio figlio da qualche parte?
Aveva perso il figlio nella ressa. Lo aveva cercato invano fra gli agonizzanti, poi aveva grattato via la neve per ritrovare il suo cadavere, ma senza risultato. Per tre anni avevano resistito insieme: sempre l’uno accanto all’altro, per le sofferenze, per i colpi, per la razione di pane e per la preghiera.
Tre anni, di campo in campo, di selezione in selezione. E adesso, quando la fine sembrava vicina, il destino li separava. Arrivatomi vicino Rabbi Eliahu mormorò:
– E accaduto sulla strada. Ci siamo persi di vista durante il cammino. Io ero rimasto un po’ indietro: non avevo più la forza di correre. E mio figlio non se n’era accorto. Non so altro. Dov’è andato a finire? Dove posso ritrovarlo? Forse l’avete visto da qualche parte?
– No, Rabbi Eliahu, non l’ho visto.
Allora se ne è andato come era venuto, come un’ombra spazzata dal vento. Aveva già varcato la porta quando improvvisamente mi ricordai che avevo visto suo figlio correre accanto a me. L’avevo dimenticato e non l’avevo detto a Rabbi Eliahu!
Poi però mi ricordai un’altra cosa: il figlio aveva visto il padre perdere terreno, finire zoppicando in fondo alla colonna. L’aveva visto e aveva continuato a correre in testa, lasciando che la distanza fra di loro aumentasse.
Un pensiero terribile mi venne in mente: aveva voluto sbarazzarsi di suo padre! Lo aveva visto in difficoltà, aveva creduto che ormai fosse la fine e aveva cercato quella separazione per togliersi di dosso quel peso, per liberarsi di un fardello che poteva diminuire le sue proprie possibilità di salvezza.
Avevo fatto bene a dimenticarmelo, ed ero felice che Rabbi Eliahu continuasse a cercare il suo adorato figlio.
Allora, mio malgrado, una preghiera si è risvegliata nel mio cuore, verso quel Dio a cui non credevo più.
– Dio mio, Signore dell’Universo, dammi la forza di non fare mai quello che ha fatto il figlio di Rabbi Eliahu.
Delle grida si levarono da fuori, nella corte, dove era scesa la notte. Le SS ordinavano di riformare i ranghi.
Riprendemmo la marcia.
[…]
Marciammo ancora parecchie ore prima di arrivare. Scorgemmo il campo solo quando ci trovammo davanti alla porta. Dei kapò ci installarono rapidamente nelle baracche. Ci si spingeva, ci si urtava, come se si fosse trattato del rifugio supremo, della porta che dà sulla vita. Si camminava su corpi doloranti, si pestavano volti straziati. Non un grido; qualche gemito. Anche noi, io e mio padre, fummo gettati a terra da quella marea dilagante. Sotto i nostri passi qualcuno emetteva un rantolo:
– Mi state schiacciando… pietà!
Una voce che non mi era sconosciuta.
– Mi state schiacciando… pietà! Pietà.
La stessa voce spenta, lo stesso rantolo già sentito da qualche altra parte. Quella voce mi aveva parlato un giorno. Dove? Quando? Anni fa? No, non poteva essere che nel campo.
– Pietà!
Sentivo che lo stavo schiacciando. Gli impedivo di respirare. Volevo togliermi, cercavo di allontanarmi per permettergli di respirare, ma anch’io ero schiacciato sotto il peso di altri corpi. Respiravo a fatica, conficcavo le mie unghie in volti sconosciuti. Mordevo intorno a me per cercare un accesso all’aria. Nessuno gridava.
Improvvisamente mi rammentai: Juliek! Quel ragazzo di Varsavia che suonava il violino nell’orchestra di Buna…
– Juliek, sei tu?
– Eliezer… Si… Mi ricordo.
Tacque. Trascorse un lungo momento.
– Juliek! Mi senti, Juliek?
– Sì… – disse con voce debole. – Che vuoi?
Non era morto.
– Come stai, Juliek? – domandai, più per sentirlo parlare, per sentirlo vivere che per conoscere la sua risposta.
– Bene, Eliezer… Va bene… Poca aria… Stanco. Ho i piedi gonfi. E bello riposarsi, ma il mio violino…
Pensavo che avesse perduto la ragione: cosa c’entrava il violino?
– Cosa, il tuo violino?
Ansimava:
– Ho… Ho paura… che si rompa… il violino… L’ho… l’ho portato con me.
Non potei rispondergli. Qualcuno si era sdraiato tutto su di me, mi aveva coperto il volto. Non potevo più respirare, né dalla bocca né dal naso. Il sudore mi imperlava la fronte e la schiena: era la fine, la fine della strada. Una morte silenziosa, il soffocamento. Nessuna possibilità di gridare, di chiedere aiuto.
Cercavo di sbarazzarmi del mio invisibile assassino. Tutto il mio desiderio di vivere si era concentrato nelle mie unghie. Graffiavo, lottavo per una boccata d’aria. Laceravo una carne marcia che non rispondeva. Non potevo svincolarmi da quella massa che mi pesava sul petto. Chissà, forse lottavo con un morto?
Non lo saprò mai. Tutto ciò che posso dire è che ne ebbi ragione. Riuscii a scavarmi un buco in quella muraglia di agonizzanti, un piccolo buco attraverso il quale potei bere un po’ d’aria.
– Papà, come ti senti? – domandai, appena potei pronunciare una parola.
Sapevo che non doveva essere lontano.
– Bene! – rispose una voce lontana, come se venisse da un altro mondo. – Cerco di dormire.
Cercava di dormire. Aveva torto o ragione? Si poteva dormire lì? Non era pericoloso allentare la propria vigilanza, anche solo per un istante, quando la morte in ogni momento poteva abbattersi su di noi?
Riflettevo così quando sentii il suono di un violino. Il suono di un violino nell’oscura baracca dove dei morti si ammucchiavano sui vivi. Chi era quel pazzo che suonava il violino qui, sull’orlo della propria tomba? O era solo un’allucinazione?
Doveva essere Juliek.
Suonava un frammento di un concerto di Beethoven. Non avevo mai ascoltato suoni così puri. In un tale silenzio.
Com’era riuscito a svincolarsi, a estrarsi di sotto al mio corpo senza che lo sentissi?
L’oscurità era totale. Sentivo soltanto quel violino ed era come se l’anima di Juliek gli servisse da archetto. Suonava la sua vita. Tutta la sua vita’scivolava sulle corde. Le sue speranze perdute, il suo passato bruciato, il suo avvenire spento. Suonava quello che non avrebbe mai più suonato.
Non potrò mai scordare Juliek. Come potrei scordare quel concerto dato per un pubblico di agonizzanti e di morti! Ancora oggi, quando sento suonare Beethoven, i miei occhi si chiudono e, dall’oscurità, sorge il volto pallido e triste del mio compagno polacco che dava l’addio col suo violino a un uditorio di moribondi.
Da E. Wiesel, La notte, trad. di D. Vogelman, Editrice La Giuntina.

Inserisci un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Un commento su “Wiesel Elie, Un violino all’inferno”