Quel popolo a piedi verso una promessa

Centinaia di migranti camminano lungo l’autostrada M1 nei pressi di Budapest: vogliono raggiungere la frontiera austriaca a piedi, 170 km di marcia
Migrants march along the highway for the border with Austria, out of Budapest, Hungary, September 4, 2015. REUTERS/Laszlo Balogh

Quel popolo a piedi verso una promessa

di Elena Loewenthal External link

in “La Stampa” del 5 settembre 2015

È una scena che scuote perché sembra contraddire il presente, anzi spazzarlo via con quel suo ritmo atavico fatto di passi tutti diversi l’uno dall’altro anche se la meta è la stessa per tutti, unico è il cammino. Pensare che, oggi, quanto ci si può mettere, per andare da un capo all’altro del mondo? Qualche ora, un giro d’orologio, due scali in uno di quei «non luoghi» che sono gli aeroporti, dove tutto è sempre uguale e a suo modo rassicurante. Noto fino allo spasimo. E invece i profughi siriani camminano. Hanno deciso di varcare a piedi quella insormontabile distanza che li separa da un lembo all’altro dell’Europa. No, non l’hanno deciso. Non avevano altro modo per arrivarci, se non le loro gambe. E così hanno invaso un altro «non luogo» emblematico del nostro presente: l’autostrada. Chissà che effetto fa, percorrerla a piedi. Chissà che effetto farebbe a noi europei, guardare il mondo da un’autostrada per cercare di arrivare a una specie di salvezza. O quanto meno, per uscire dalla guerra e dalla paura. Per noi europei le autostrade sono tutte uguali: cerniere d’asfalto che non hanno senso se non perché connettono un luogo di partenza a uno di arrivo. Chissà che effetto deve fare sentirla sotto i piedi, un’autostrada. Ma forse non è questo che conta, per la massa di profughi in lento cammino sull’autostrada, un chilometro dopo l’altro. E sono tanti. Conta solo la meta, e conta arrivarci tutti insieme. Come tante altre volte è capitato, sulle strade della storia. Strade di terra e deserto, di disperazione e sogno. Strade che erano un mare apertosi sotto il bastone di Mosè per far passare i figli d’Israele all’asciutto e condurli verso una libertà fatta di fatica e privazioni, prima di toccare con mano il latte e miele della Terra Promessa. Strade che, in tempi più recenti, erano la breccia di un muro, a Berlino, divenuta fiumana di vite che andavano incontro ad altre vite. È vero che la scena di masse umane in cammino è una costante della storia. Proprio per questo continua a commuovere: perché conosciamo la storia che c’è dietro, che in fondo è sempre quella, anche se diversa ogni volta. La meta è un desiderio di destino. «Vai nel luogo che ti dirò», dice il Signore ad Abramo quando gli ingiunge di abbandonare la casa dove è nato per andare incontro a un futuro che né lui né Dio ancora conoscono. Abramo, che vuol dire «Padre Grande», è uno solo ma è come se fossero tanti. Sono lui le moltitudini di uomini, donne, bambini, giovani e anziani, sani e infermi, che nella storia si sono messe in cammino per raggiungere qualcosa di ancora sconosciuto ma carico di quella luce incerta che è la speranza. E il cammino a piedi è fatto di una lentezza il cui sapore noi che viaggiamo dentro la cabina di un aereo o sopra morbide ruote di gomma non conosciamo più. Per questo ci scuote, il lento flusso di quei migranti dentro i nostri confini. Zaini in spalla, mani nelle mani, passeggini e fazzoletti in testa. Bandiere. Voci che s’incontrano. Colori che cangiano sotto la luce e l’ombra. È una scena antica eppure a ben guardare sempre presente, in un angolo o nell’altro della nostra storia. Loro sono stranieri, vengono da luoghi lontani che non conosciamo e di cui sappiamo o facciamo finta di sapere molto poco. Eppure in questo loro lento cammino sull’impeccabile asfalto di un’autostrada, verso una specie di salvezza che è forse soltanto promessa di sopravvivenza – ma tanto è bastato loro per mettersi in marcia – non resta difficile immedesimarsi. Basta un tuffo nella nostra memoria.

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