Hillesum Etty: lettera pubblicata dalla resistenza olandese nel 1943

Etty Hillesum, Lettere
Etty Hillesum, Lettere

Questa è una delle due lettere che furono pubblicate dalla resistenza olandese nel 1943. Il Dr. K. citato all’inizio è probabilmente il Dr. Herbert Kruskal, un ebreo tedesco che già viveva e lavorava in Olanda prima di essere internato a WesterborkLink esternonel 1942. Qui Kruskal lavorava nell’Ufficio Petizioni, e sua moglie nel servizio medico del campo. Etty aveva fatto amicizia con lui e andava regolarmente a trovarlo. Nel 1944 i Kruskal furono deportati a Bergen-Belsen, e di lì, tramite scambio, arrivarono in Palestina. Non ci sono notizie sulle «due sorelle» a cui è indirizzata la lettera.

A due sorelle dell’Aia

Amsterdam, dicembre 1942

Anche questa volta, come al solito, sono ritornata dalla brughiera con diversi incarichi. Una ex soubrette malata di calcoli biliari desiderava avere la sua tintura per i capelli. C’era una ragazza che non poteva alzarsi perché non aveva scarpe. E altre piccolezze simili – sebbene la faccenda delle scarpe non fosse davvero una piccolezza. C’era poi un incarico a cui avevo acconsentito con molto piacere, ma che ha cominciato a pesarmi sempre di più. Nel frattempo, la soubrette ha potuto già da un pezzo ritoccare la tinta dei suoi capelli, e la ragazza-senza-scarpe può di nuovo alzarsi dal letto e sfidare coraggiosamente il fango – ma io non ho ancora esaudito la richiesta del Dr. K., e ciò non dipende solo dal fatto che sono stata malata per alcune settimane…
Una sera, pochi giorni prima della mia partenza, ero passata un momento nel piccolo e spoglio ufficio dove a volte lui restava a lavorare fino a notte fonda. Aveva un’aria stanca e un viso pallido e tirato. Dopo aver messo da parte uno spesso fascicolo – non senza avermene raccontato alcune curiosità col dovuto umorismo -, il Dr. K. si era guardato intorno con aria esitante, quasi cercasse qualcosa, e aveva trovato a stento poche parole: cominciava a sentirsi vecchio, in questi ultimi mesi. La guerra sarebbe pur finita un bel giorno… come prima cosa sarebbe stato bello poter sostare a lungo nel folto di un gran bosco e dimenticare molte cose… e poi visitare Siviglia e Malaga, perché al posto del loro desiderato ricordo erano rimaste due lacune. Si sarebbe anche voluto ritornare al lavoro… ci sarebbe pur stata una Società delle Nazioni… Come poi fossimo improvvisamente passati dalla Società delle Nazioni alle due sorelle dell’Aia, una bionda e l’altra bruna, non mi è più del tutto chiaro. Ma una volta ritornata in licenza a Amsterdam, chissà se sarei stata disposta a scrivervi qualcosa sulla vita a Westerbork – così, a modo mio?
«Sì, certo,» avevo risposto con molta comprensione «è importante rimanere in contatto col retroterra».
Il Vostro amico K. era quasi indignato : «Retroterra? Quelle due signore significano per noi molto di più, sono un vero pezzo di vita». E poi – in quell’ufficetto spoglio e a quell’ora tarda – aveva raccontato di Voi due in modo così trascinante che io avevo acconsentito volentieri alla sua richiesta. Ma, a esser sincera, ora mi trovo in un bell’impiccio: che cosa dovrei propriamente raccontare sulla vita al Westerbork?
Era estate quando vi giunsi. Fino a quel momento, del Drenthe io sapevo solo che c’erano molti dolmen e nient’altro: ora ci trovavo un villaggio di baracche di legno incorniciato da cielo e brughiera, con un campo di lupini straordinariamente gialli nel mezzo e tutt’intorno filo spinato. Laggiù si poteva trovare una grande abbondanza di vite umane. A dire la verità, io non avevo mai saputo che un certo numero di tedeschi fossero confinati già da quattro anni su quella brughiera del Drenthe,1 allora ero troppo occupata a raccoglier fondi per bambini spagnoli e cinesi.
In quei primi giorni giravo per il campo come se stessi sfogliando le pagine di un libro di storia. Incontrai persone che erano già state a Buchenwald e Dachau quando questi nomi erano ancora suoni lontani e minacciosi per noi.
Incontrai persone che avevano girato il mondo su quella nave che non aveva avuto il permesso di approdare in nessun porto2: ve ne ricorderete di certo, a quel tempo i nostri giornali erano pieni di quella storia.
Ho visto molte fotografie di bambini piccoli, che nel frattempo saranno cresciuti non poco in qualche luogo ignoto di questa terra: chissà se sapranno ancora riconoscere i propri genitori, se mai potranno rivederli.
In breve, era come trovarsi davanti a un pezzetto tangibile del «destino» ebraico degli ultimi dieci anni: e c’era chi aveva creduto che nel Drenthe esistessero soltanto dei dolmen. Era quasi da togliere il fiato.
In quell’estate del 1942 – sembra che siano trascorsi anni da allora, laggiù è successo in pochi mesi più di quanto si possa assorbire in un periodo così breve -, il piccolo insediamento fu radicalmente sconvolto, e i vecchi residenti assistettero sbalorditi alla deportazione in massa degli ebrei dall’Olanda all’Europa orientale. Anch’essi, in un primo tempo, avevano dovuto fornire il loro abbondante contributo in uomini, quando il totale dei «lavoratori volontari» non era risultato del tutto soddisfacente.
Una sera d’estate ero seduta a mangiare il mio cavolo rosso sul ciglio del campo giallo di lupini, che dalla nostra mensa si estendeva fino alla baracca di disinfestazione, e riflettevo con aria ispirata: «Si dovrebbe scrivere la cronaca di Westerbork». Un uomo anziano seduto alla mia sinistra – anche lui con il suo cavolo rosso – aveva replicato: «Sì, ma ci vorrebbe un poeta».
Quell’uomo ha ragione, ci vorrebbe proprio un grande poeta, le cronachine giornalistiche non bastano più.
Tutta l’Europa sta diventando pian piano un unico, grande campo di prigionia. Tutta l’Europa finirà per disporre di simili, amare esperienze. Sarà monotono se noi ci riferiremo scambievolmente i fatti nudi e crudi – le famiglie lacerate, le proprietà sottratte, le libertà perdute. E anche a proposito di filo spinato e di pasticcio di patate e verdure non si possono fare dei resoconti molto pittoreschi a coloro che sono rimasti fuori: mi domando del resto se ne rimarranno fuori molti, posto che la storia insista ancora a lungo a percorrere i sentieri intrapresi.
Ecco, io sapevo già che non sarebbe venuto fuori nulla da questo resoconto, al primo tentativo mi sono arenata in considerazioni generiche. Del resto, una persona dall’indole piuttosto contemplativa non è veramente adatta a spiegare le caratteristiche di un determinato luogo e di un determinato avvenimento. Si scopre insomma che quelle che potremmo chiamare le materie prime della vita sono dappertutto le stesse, che in ogni luogo di questa terra si può vivere la propria vita in modo ricco di significato o altrimenti morire, e che l’Orsa Maggiore brilla altrettanto veritiera sopra un paesino sperduto che sopra una grande città nel cuore di uno Stato – o anche sopra una miniera di carbone della Slesia, secondo le mie ardite supposizioni. E dunque, sembra che non manchi nulla all’universo…
Volevo solo dire questo: io non sono poeta, e a parte ciò mi sento piuttosto sprovveduta di fronte alla promessa fatta a K. Infatti, sebbene Westerbork sia per noi un nome carico di significato che continuerà a risuonare nella nostra vita futura, io non saprei ancora bene che cosa raccontare in proposito. La vita laggiù è così movimentata, anche se molti diranno che è invece di una mortale monotonia.
Ma la mattina successiva a quella sera, in cui il vostro amico K. aveva pronunciato i nomi di Siviglia e Malaga con tanto fanatico desiderio, lo incontrai sul sentierino lastricato di mattonelle tra le baracche 14 e 15. Portava il suo caratteristico cappello di feltro, che lo fa sembrare così smarrito in mezzo a tutte quelle assi di legno e porticine basse. Camminava svelto perché aveva fame – ma passandomi accanto trovò ancora il tempo di raccomandarmi a calda voce : «Allora si ricorderà di quanto Le ho chiesto? E certo, conoscere quelle due sorelle sarà un grande arricchimento anche per Lei».
Così eccomi qui, a un’ora inaspettatamente tarda, davanti ad alcuni fogli bianchi…

Già – Westerbork.
Se capisco bene, quello che è ora un centro del dolore ebraico era un luogo deserto e incolto appena quattro anni fa, e lo spirito del Dipartimento di Giustizia aleggiava nel ciclo di questa brughiera.
«Qui non si poteva vedere neanche una farfalla o un fiorellino, e neppure un verme», mi assicurano con foga i primissimi «residenti del campo». E ora?
Proverò a scegliere a caso per Voi dall’inventario.
C’è un orfanotrofio, una sinagoga, una piccola cappella mortuaria e una manifattura di solette appena agli inizi. Ho sentito parlare della costruzione di un manicomio, e a quanto mi consta le baracche dell’ospedale, sempre più numerose, contano già un migliaio di letti.
La prigione per due persone – un piccolo edificio da operetta che si trova in un angolo del campo – pare che non offra più spazio sufficiente, si sta progettando la costruzione di un edificio più grande. Forse suonerà un po’ strano alle Vostre orecchie: una prigione dentro una prigione.
Ci sono crisi di gabinetto in miniatura, con tutte le gomitate che appaiono indispensabili in casi del genere.
C’è un comandante olandese e c’è un comandante tedesco, il primo è qui da più tempo ma il secondo ha più voce in capitolo. Di lui si dice tra l’altro che ami la musica e che sia un gentleman. Io non posso proprio giudicare, ma devo dire che per essere un gentleman ricopre un ufficio un tantino singolare…
C’è una sala teatrale dove in un glorioso passato, quando il termine «deportazione» doveva ancora nascere, un invalido portò una volta Shakespeare sul palcoscenico. Ora su quello stesso palcoscenico ci sono persone sedute alle macchine da scrivere.
C’è fango, talmente tanto fango che da qualche parte fra le costole si deve proprio possedere un gran sole interiore se non se ne vuoi diventare la vittima psicologica (scarpe rotte e piedi bagnati ve li immaginerete da sole).
Sebbene gli edifici del campo siano tutti a un piano solo, vi si sente parlare con una molteplicità di accenti, come se la torre di Babele fosse stata innalzata in mezzo a noi: bavarese e dialetto di Groningen, sassone e dialetto del Limburgo3, olandese dell’Aia e olandese della Frisia orientale, tedesco con accento polacco o russo, olandese con accento tedesco e tedesco con accento olandese, fiammingo di Waterloo e berlinese – e faccio presente che si tratta di un’area di poco più di mezzo chilometro quadrato.
Il filo spinato è una pura questione di opinioni. «Noi dietro il filo spinato!!» diceva un vecchio signore indistruttibile accennando malinconicamente con la mano «sono piuttosto loro a vivere dietro il filo spinato» – e intanto indicava le alte ville, che stanno come guardiani dall’altra parte della recinzione.
Se il filo spinato circondasse semplicemente il campo, si saprebbe almeno dove si sta: ma anche nel campo stesso, intorno e fra le baracche, si snodano questi fili del ventesimo secolo e formano una rete labirintica e impenetrabile. Di tanto in tanto s’incontrano persone con graffi sul viso e sulle mani.
Ai quattro angoli estremi del nostro villaggio di legno ci sono delle torrette di vedetta, piattaforme battute dal vento che poggiano ognuna su quattro alti pali. Lassù, un uomo con elmo e fucile si staglia contro i cieli mutevoli. Alla sera si sente talvolta sparare nella brughiera, come quando quel cieco si smarrì in un luogo troppo vicino al filo spinato

Parlare di Westerbork è già difficile per il suo carattere tanto ambivalente. Da un lato vi si sta formando una comunità stabile – certo che è una convivenza forzata, ma ha tutte le caratteristiche di una società umana; dall’altro lato è un campo destinato a un popolo in transito, e ci sono sempre forti sommovimenti quando le folle vi si riversano dalle grandi città e dalla provincia, da case di cura, prigioni e campi di punizione, da tutti gli angoli dell’Olanda, per essere deportate pochi giorni più tardi verso il loro destino sconosciuto.
Immaginerete la ressa su quel mezzo chilometro quadrato. Infatti, non tutti sono come quell’uomo che aveva riempito il suo zaino ed era spontaneamente partito con un convoglio, e alla domanda «Perché? » aveva risposto di voler essere libero di partire quando piaceva a lui. Mi aveva fatto pensare a quel giudice romano che aveva detto a un martire : «Sai che io ho il potere di ucciderti?», al che il martire aveva risposto: «Ma sai che io ho il potere di essere ucciso?». Nell’insieme però c’è una gran ressa, a Westerbork, quasi come attorno all’ultimo relitto di una nave a cui si aggrappano troppi naufraghi sul punto di annegare.
Tutto sommato, si preferisce svernare nella provincia più povera dell’Olanda e dietro un filo spinato, piuttosto che essere trascinati fino nel cuore dell’Europa, verso regioni e destinazioni sconosciute da cui solo pochissime e oscure voci sono trapelate a chi è rimasto indietro. Ma il numero dei deportati dev’essere quello stabilito e bisogna riempire il treno, che con regolarità quasi matematica viene a prendersi il suo carico; né si può trattenere tutti quanti come indispensabili per il campo o troppo malati per esser trasportati, anche se si tenta di farlo con molti. A volte si pensa che sarebbe più semplice essere finalmente deportati, che dover sempre assistere alle paure e alla disperazione di quelle migliaia e migliaia, uomini, donne, bambini, invalidi, mentecatti, neonati, malati, anziani, che in una processione quasi ininterrotta sfilano lungo le nostre mani soccorrevoli.
La mia penna stilografica non possiede accenti così efficaci da saper descrivere – sia pur nel modo più approssimativo – queste deportazioni. Alla lunga, viste dall’esterno, esse sembravano di una sconsolante monotonia, eppure ogni convoglio era diverso dagli altri e aveva per così dire una propria atmosfera.
La prima volta che uno di questi convogli passò per le nostre mani, ci accadde di pensare che mai più avremmo potuto ridere e essere lieti, che ci eravamo trasformati in persone diverse, improvvisamente invecchiate e estraniate da tutti gli amici di prima.
Ma se poi si va fra la gente, ci si rende conto che là dove ci sono uomini c’è anche vita, e che questa vita si ripresenta nelle sue mille sfumature – «con un sorriso e con una lacrima», per dirla con un’espressione popolare.
Faceva molta differenza se si arrivava già preparati e muniti di uno zaino ben fornito, o se si era inaspettatamente trascinati fuori dalle case, o falciati via dalle strade. Alla lunga si verificò solo più il secondo caso.
Dopo i primi rastrellamenti, quando ci arrivarono persone vestite di sola biancheria e pantofole, tutta Westerbork si spogliò fino alla camicia, in un unico gesto di orrore e di eroismo. E grazie anche alla stretta collaborazione di chi stava fuori, abbiamo cercato di equipaggiare i partenti nel modo migliore. Ma se si pensa ai molti che hanno affrontato l’inverno dell’Europa orientale sprovvisti di abiti, se si pensa a quell’unica, sottile coperta che talvolta eravamo in grado di distribuire di notte, poche ore prima della partenza…
Arrivò il proletariato dalle grandi città e esibì nelle nude baracche la sua povertà e trascuratezza, e molti rimasero a bocca aperta e si chiesero come quella democrazia avesse effettivamente funzionato, a suo tempo…
La gente di Rotterdam era una categoria a sé, temprata dai bombardamenti della guerra : «Noi non ci spaventiamo più tanto facilmente,» si sentiva dire da molti «se ce la siamo cavata allora ce la caveremo anche adesso», e alcuni giorni dopo si avviarono al treno cantando; ma era piena estate, e ancora non si erano visti gli anziani e gli invalidi, che dovevano esser trasportati sulle barelle dietro alla processione dei partenti…
Gli ebrei di Heerlen, di Maastricht, e di tutte quelle altre città, avevano da raccontare delle storie che quasi rimbombavano della simpatia dimostrata dal Limburgo alla loro partenza, si sentiva che moralmente avrebbero potuto viverne a lungo.3
«E i cattolici hanno promesso di pregare per noi, e di sicuro se ne intendono meglio di noi» diceva uno di loro.
Gli ebrei di Haarlem osservavano un po’ acidi e distanti : «Quelli di Amsterdam hanno un umorismo così macabro».
C’erano bambini che non volevano mangiare un panino finché i genitori non ne avessero ricevuto uno anche loro.
Fu uno strano giorno quando arrivarono degli ebrei cattolici – o se si preferisce dei cattolici ebrei -, suore e preti con la stella gialla sui loro abiti religiosi.4 Ricordo due giovani gemelli dagli identici, bei visi scuri del ghetto e dagli occhi calmi e fanciulleschi sotto i loro zuccotti, che raccontavano con cortesia e stupore di essere stati portati via dalla messa alle quattro e mezzo di mattina, e di aver mangiato cavolo rosso a Amersfoort.
C’era un monaco ancora abbastanza giovane che per quindici anni non era uscito dal proprio convento e ora si ritrovava per la prima volta nel «mondo». Mi ero fermata un poco accanto a lui e avevo seguito il suo sguardo, che vagava tranquillo per la grande baracca dove si accoglievano i nuovi arrivati.
I rapati a zero, i picchiati e maltrattati, che quello stesso giorno si erano riversati a Westerbork insieme con i cattolici, incespicavano e si muovevano con gesti ancora incerti per quel grande locale di assi, e tendevano le mani verso il pane che non bastava.
Un giovane ebreo aveva sostato per un momento accanto a noi, la sua giacchetta troppo larga gli ballava addosso, ma un risolino indistruttibile gli era spuntato sotto la barba rada e nerissima quando aveva detto : «Hanno provato a rompere il muro della prigione con la mia testa, ma la mia testa era più dura di quel muro!».
Tra le molte teste rapate a zero spiccavano stranamente i bianchi turbanti delle donne che erano state sottoposte a un trattamento igienico nella baracca di disinfestazione, e che ora si aggiravano con aria afflitta e umiliata.
C’erano bambini che cadevano addormentati sull’assito5 polveroso o giocavano ad acchiapparsi in mezzo agli adulti. Due bambinetti svolazzano smarriti intorno al corpo pesante di una donna che giace priva di sensi in un angolo, proprio non capiscono perché la loro mamma se ne stia così immobile e non risponda.
Un anziano signore dai capelli grigi, diritto come una candela e con un marcato profilo aristocratico, fissa questa grande scena infernale e ripete fra sé: «Un giorno terribile! Un giorno terribile!».
E frammischiato a tutto ciò, lo scoppiettio ininterrotto di molte macchine da scrivere: il fuoco a mitraglia della burocrazia.
Attraverso i molti piccoli vetri delle finestre si vedono baracche di legno, filo spinato e arida brughiera.
Io fisso il monaco che dopo quindici anni si ritrova nel «mondo» e gli chiedo: «E allora, che cosa ne dice del mondo?».
Ma il suo sguardo rimane tranquillo e amichevole sopra la tonaca marrone, come se ciò che lo circonda gli fosse noto e familiare già da molto tempo.
Più tardi qualcuno mi raccontò che quello stesso giorno aveva visto alcuni monaci camminare in fila tra due baracche scure nel crepuscolo, mentre dicevano il rosario con la stessa calma con cui avrebbero recitato le preghiere nei corridoi del loro convento.
E non è forse vero che sì può pregare dappertutto, in una baracca di legno come in un convento di pietra – come pure in ogni luogo di questa terra, su cui Dio pensa bene di scaraventare i suoi simili in tempi agitati?

Coloro a cui è toccato lo snervante privilegio di poter rimanere a Westerbork «fino a nuovo ordine», corrono un grave rischio morale: quello di diventare apatici e insensibili.
Il dolore umano che abbiamo visto laggiù nel corso di quest’ultimo mezzo anno, e che vi si può ancora vedere ogni giorno, è più di quanto un individuo sia in grado di assorbire in un periodo così limitato. Del resto, lo sentiamo dire ogni giorno e in tutti i toni: «Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, vogliamo dimenticare il più possibile». E questo mi sembra molto pericoloso.
Certo, accadono cose che un tempo la nostra ragione non avrebbe creduto possibili. Ma forse possediamo altri organi oltre alla ragione, organi che allora non conoscevamo, e che potrebbero farci capire questa realtà sconcertante.
Io credo che per ogni evento l’uomo possieda un organo che gli consente di superarlo.
Se, noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una generazione vitale.
Certo che non è cosi semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione -, allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena, e in circostanze che diventano quasi altrettanto difficili. E forse allora, sulla base di una comune e onesta ricerca di chiarezza su questi oscuri avvenimenti, la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti.
Per questo mi sembrava così pericoloso sentir ripetere: «Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa miseria».
Come se il dolore – in qualunque forma ci tocchi incontrarlo – non facesse veramente parte dell’esistenza umana.

Mi accorgo di aver divagato molto rispetto all’innocente richiesta del Vostro amico K.: dovevo raccontar qualcosa sulla vita a Westerbork, non sulle mie opinioni personali. Non posso farci niente, mi è sfuggito…

Ma gli anziani? Tutte queste persone vecchissime e invalide? Come posso mettermi a filosofare davanti a loro?
Il capitolo più triste della storia di Westerbork sarà certamente quello dedicato agli anziani. Forse sarà ancora più toccante del capitolo sui malmenati e mutilati provenienti da Ellecom, la cui vista fece correre un brivido di orrore per tutto il campo.
Alle persone giovani e sane potevi dire le cose in cui tu stesso credevi, e che ti sentivi in grado di mettere in pratica: la storia aveva messo sulle nostre spalle un destino di dimensioni davvero straordinarie, e noi dovevamo trovare la grandezza di stile commisurata al peso eccezionale di questo destino.
Potevi dire che eravamo come dei soldati al fronte, sebbene i fronti a cui eravamo mandati fossero alquanto singolari. È vero che sembravamo condannati a una totale passività – però chi ci poteva impedire di mobilitare le nostre forze interiori?
Ma avete mai sentito parlare di soldati ottuagenari mandati al fronte con il bastone rosso e bianco dei ciechi per arma?
Una mattina presto dell’estate scorsa mi imbattei in un uomo turbato che borbottava fra sé: «Per amor del ciclo, che razza di lavoratori per la Germania ci hanno spedito questa volta!». Ero accorsa all’ingresso del campo mentre autocarri malconci li scaricavano sulla nostra brughiera: tanti vecchietti. Ed eccoci là, a bocca aperta. Ci sembrava che ora si stesse davvero esagerando un po’. Ma passato un certo tempo già la sapevamo lunga, e a ogni arrivo ci chiedevamo: «E allora – ci sono stati molti anziani e invalidi, questa volta?».
Ahimè, questo pezzetto di storia dell’umanità è talmente triste e vergognoso che non si sa come parlarne. Ci si vergogna di esser stati presenti senza averlo potuto impedire.
C’era una vecchietta che aveva dimenticato gli occhiali e il flacone della medicina sul caminetto «di casa» : chissà se ora avrebbe potuto averli, e dove si trovava di preciso, e dove sarebbe poi andata?
Una donna di ottantasette anni si era aggrappata alla mia mano come se non volesse più lasciarmi andare: raccontava che i gradini davanti alla porta della sua casetta avevano sempre brillato, e che mai nella sua vita le era successo di buttare i propri vestiti sotto il letto quando andava a dormire.
E quel piccolo signore curvo di settantanove anni: era sposato da cinquantadue, ora sua moglie era ricoverata all’ospedale di Utrecht e l’indomani lui sarebbe stato portato via dall’Olanda…
Ma anche se continuassi per pagine e pagine, non avreste un’idea di quel ciabattare, barcollare e cadere a terra, del disperato bisogno di aiuto e delle domande infantili. Là non si poteva far molto con le parole, a volte una mano sulla spalla era già troppo pesante.
No, quegli anziani sono un capitolo a sé. I loro gesti smarriti e i loro visi spenti popolano ancora le notti insonni di molte persone…
In pochi mesi la popolazione di Westerbork si è gonfiata da 1000 a circa 10.000 unità. La crescita maggiore risale ai terribili «giorni d’ottobre» – quando in seguito a una grande caccia all’ebreo per tutta l’Olanda, il campo fu devastato da un’inondazione umana che minacciò di inghiottirlo.
Quindi non si può certo parlare di una comunità dallo sviluppo organico e dal respiro regolare, e tuttavia – cosa stupefacente – vi si possono trovare tutti gli aspetti, le classi, gli «ismi», i contrasti e le tendenze della società odierna (eppure l’area di mezzo chilometro quadrato è rimasta la stessa). In fin dei conti non è un fenomeno così stupefacente, se è vero che ogni individuo porta in sé la tendenza, la parte sociale o il livello culturale che rappresenta.
Ma ogni volta si è colpiti dal fatto che in una situazione di comune necessità i contrasti permangano. Un giorno incontrai una ragazza in mezzo al fango tra due grandi baracche: mi spiegò di essere arrivata per caso a Westerbork (questo è tipico: ognuno crede che il proprio caso sia particolarmente sfortunato, la maggior parte di noi non possiede ancora una comune coscienza storica). Ma per tornare a quella ragazza: mi raccontò una malinconica storia di pacchetti che non arrivavano mai e di un paio di scarpe smarrite. Eppure il suo viso s’illuminò quando disse : «Però abbiamo avuto una fortuna enorme con le persone, siamo proprio una baracca d’elite. Sai come chiamano la nostra baracca?» continuò tutta orgogliosa. «La curva del Heerengracht!».6
Io restai confusa, e la guardai, dalle sue scarpe rotte al suo volto truccato, senza sapere se ridere o piangere…

In questo campo di concentramento la mancanza di spazio è senza dubbio la carenza più grave.
Circa 2500 persone su 10.000 sono alloggiate nelle 215 casette che un tempo costituivano il nucleo del campo, e che prima delle deportazioni erano tutte abitate da singole famiglie.
Ogni casetta ha due, a volte tre camerette, oltre a una piccola cucina con un rubinetto e un W.C.
La porta d’ingresso è priva di campanello, sicché entrare diventa una faccenda molto sbrigativa. Aperta quella porta ci si trova subito nel mezzo della cucina. Se si vuole far visita a amici nella cameretta sul retro, si irrompe con una disinvoltura ormai abituale in quella sul davanti, dove proprio allora una famiglia è seduta a tavola o magari litiga o sta andando a letto. E da un po’ di tempo queste camerette sono anche gremite di persone desiderose di evadere dalle grandi baracche.
Adesso gli abitanti delle casette sono alloggiati in modo principesco, per essere a Westerbork, e sono invidiati e sempre assediati dagli altri.
La grande, la vergognosa miseria del campo incomincia nelle colossali baracche costruite in tutta fretta – in quelle rimesse di assi piene di spifferi e gremite di uomini, dove le cuccette di ferro a tre piani si ammassano sotto un cielo incombente di panni che centinaia di persone hanno steso ad asciugare.
Quei poveri francesi non avrebbero mai sospettato che sugli stessi letti da loro costruiti per la linea Maginot ebrei esiliati in una qualche brughiera del Drenthe avrebbero sognato i loro sogni spaventosi. Ho infatti saputo che quei letti provengono dalla linea Maginot.
Ora su quelle cuccette si vive e si muore, si mangia, si è malati, o non si riesce a dormire perché tanti bambini piangono durante la notte – o perché ci si continua a chiedere come mai non arrivino quasi notizie dalle molte migliaia già partite dal campo.
Sotto i letti sono sistemate le valigie, alle sbarre di ferro appesi gli zaini: gli unici ripostigli che abbiamo. Le altre suppellettili consistono di tavole di legno grezzo e strette panche di legno.
Delle condizioni igieniche preferisco non parlare nella mia modesta relazione, così Vi eviterò momenti poco gradevoli.
Qua e là per quei vasti ambienti ci sono delle stufe: bastano appena per riscaldare le vecchiette che, strette l’una all’altra, vi siedono intorno. Non ci è ancora troppo chiaro come si dovrà vivere in queste baracche durante l’inverno.
Tutti questi grandi magazzini umani sono stati costruiti in mezzo al fango esattamente allo stesso modo, e sono per così dire arredati con la stessa sobrietà; ma lo strano è che attraversando una baracca si ha la sensazione di vagare per un quartiere povero e desolato, mentre un’altra baracca evoca ad esempio un quartiere residenziale della borghesia agiata. In realtà è una sensazione ancora più forte, è come se ogni cuccetta, ogni tavolo di legno grezzo emanasse una propria atmosfera.
Conosco un tavolo in una di queste baracche su cui di sera è posata una lanterna di vetro con una candela accesa, intorno siedono più o meno otto persone e quello è il cosiddetto «angolo dei bohémiens». Se poi si fanno pochi passi fino al tavolo più vicino, intorno al quale sono anche lì sedute più o meno otto persone – forse l’unica differenza è che al posto della candela c’è qualche padellina sporca -, allora è come se si entrasse in un mondo totalmente diverso.
Circostanze simili non sembrano produrre necessariamente persone simili.

Su quell’arido pezzo di brughiera di cinquecento per seicento metri naufragano anche diversi protagonisti della vita culturale e politica delle grandi città. Tutte le scene che li circondavano sono state bruscamente abbattute con un solo colpo potente, ed essi stanno ancora un po’ tremanti e spaesati su quel palcoscenico aperto e pieno di correnti d’aria che si chiama Westerbork. Intorno a quelle figure sradicate dal loro contesto si può ancora respirare l’atmosfera di una vita irrequieta, e di una società più complicata di quella del campo.
Essi vanno lungo il sottile filo spinato, le loro sagome in grandezza naturale scorrono indifese sulla
grande distesa del ciclo. Bisogna averli visti camminare laggiù…
La loro ben forgiata armatura di posizione, reputazione e proprietà s’è sfasciata, e ora essi sono rivestiti soltanto dell’ultima camicia della loro umanità. Si trovano in uno spazio vuoto, delimitato da ciclo e terra, dovranno riempirlo da soli con le loro potenzialità interiori – là fuori non c’è più niente.
Ora ci si avvede che nella vita non basta essere un abile politico o un artista di talento, la vita richiede tutt’altre cose nella miseria estrema.
Sì, è vero, siamo messi alla prova nei nostri fondamentali valori umani.

E così crederete che io abbia raccontato qualcosa su Westerbork, con la mia lunga chiacchierata? Se provo a ricreare questo Westerbork davanti al mio occhio interiore – in tutte le sue sfaccettature e storia movimentata, in tutte le sue necessità spirituali e materiali -, allora so di non esserci riuscita affatto. E poi, il mio è un resoconto molto parziale. Potrei immaginarne un altro pieno di odio, amarezza e ribellione.
Ma la ribellione che nasce solo quando la miseria comincia a toccarci personalmente non è vera ribellione, e non potrà mai dare buoni frutti.
E assenza d’odio non significa di per sé assenza di un elementare sdegno morale.
So che chi odia ha fondati motivi per farlo. Ma perché dovremmo sempre scegliere la strada più corta e a buon mercato? Laggiù ho potuto toccare con mano come ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo renda, ancora più inospitale.
E credo anche, forse ingenuamente ma ostinatamente, che questa terra potrebbe ridiventare un po’ più abitabile solo grazie a quell’amore di cui l’ebreo Paolo scrisse agli abitanti di Corinto nel tredicesimo capitolo della sua prima lettera.

 


Note

1 Il campo di Westerbork fu creato nel 1939 dal Dipartimento di Giustizia olandese per ospitare i rifugiati provenienti dalla Germania. Questo primo nucleo comprendeva ebrei che erano già stati prigionieri a Buchenwald e Dachau.

2 La nave St. Louis, che trasportava quasi un migliaio di ebrei, aveva fatto il suo sfortunato viaggio a Cuba nel 1939; al suo ritorno in Europa aveva avuto il permesso di attraccare nel porto di Anversa. Il Belgio accettò duecento passeggeri, il resto fu suddiviso tra Inghilterra, Francia e Olanda.

3 Il Limburgo era una provincia a maggioranza cattolica. Etty si riferisce a una dimostrazione pubblica di solidarietà per gli ebrei che dovevano partire.

4 Erano suore, preti e monaci di origine ebraica. In seguito alla protesta dell’arcivescovo Johannes de Jong contro la persecuzione degli ebrei, il 1° agosto 1942, i nazisti fecero una retata fra gli ebrei cattolici in convento e arrestarono circa 300 religiosi. 63 di loro arrivarono a Westerbork il 2 agosto; Etty li descrive in questa lettera e nel diario. Una delle suore era Edith Stein, nota mistica e filosofa a cui Etty è stata spesso paragonata. Edith Stein fu uccisa a Auschwitz il 9 agosto 1942.

5 pavimento di assi

6 «La curva del Heerengracht»: così è detto il tratto di questo famoso canale di Amsterdam che si trova all’altezza della Nieuwe Spiegelstraat ed è fiancheggiato da belle e dignitose case antiche.

 


ETTY HILLESUM

Lettere 1942-1943
pag. 149
ISBN 88-459-1605-7
Adelphi edizioni
http://www.adelphi.it/ Link esterno

 

Nata nel 1914 a Middelburg da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica, Etty Hillesum morì ad Auschwitz nel novembre del 1943. Il suo Diario (Adelphi, 1985), fortunosamente scampato allo sterminio della famiglia (ad Auschwitz persero la vita anche i genitori e il fratello Mischa) e poi passato di mano in mano, apparve finalmente nel 1981 presso l’editore De Haan, riscuotendo un immenso successo, paragonabile a quello che accolse il Diario di Anna Frank. Le Lettere sono state pubblicate in una prima edizione parziale in Olanda nel 1982.

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