Bruni Luigino, Altri angeli sulla stessa grotta

 

“Se noi acconsentiamo, Dio depone in noi un piccolo seme e se ne va. Da quel momento, a Dio non resta altro da fare, e a noi nemmeno, se non attendere. Dobbiamo soltanto non rimpiangere il consenso che abbiamo accordato, il sì nuziale. Non è facile come sembra, perché la crescita del seme, in noi, è dolorosa”
Simone Weil, Attesa di Dio

L’attesa è la condizione ordinaria della vita buona. Ogni anno riviviamo l’Avvento, perché pur sapendo che quel bambino è già venuto, sappiamo anche che deve tornare. Il popolo d’Israele credeva e sapeva che Abramo aveva incontrato il Signore, che era apparso ai patriarchi, ad Agar. Mosè parlava con lui faccia a faccia, e tutti i profeti avevano conosciuto la voce, visto il cielo e gli angeli. Eppure continuavano ad attendere l’Immanuel, quel Dio-con-noi, che era già venuto, e che doveva tornare.

Memoria e attesa sono legate tra di loro, l’una dà senso e rafforza l’altra: è il futuro che tiene in vita il passato, è il passato che dice che l’attesa può non essere vana. Se non fosse già venuto, non potrebbe tornare. E se un giorno non tornasse nella nostra notte, il ricordo dell’attesa non basterebbe per vivere, la promessa si spegnerebbe. Il passato senza futuro diventa melanconica nostalgia, e il futuro senza passato non sa scrivere una storia di salvezza. La terra che vide il bambino nella grotta è la stessa terra che poco dopo non lo vide più, la stessa terra sulla quale continuiamo ancora a camminare, nell’attesa della sua venuta. Senza la promessa di un’altra aurora quella notte santa diventa troppo lontana e nebbiosa. La luce deve tornare perché la notte non è ancora finita.

«Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te» (Isaia 60,1-2). Alzati, “sorgi”. Nella tenebra, in ogni tenebra, è possibile rialzarsi se c’è qualcuno che ci chiama e ci invita a sorgere. Il popolo, tornato dall’esilio in una Gerusalemme in rovine, con il tempio distrutto, occupata da altri popoli con altri dèi, ha bisogno della voce forte del profeta per poter rialzare la testa, per sorgere e risorgere. Ma il terzo Isaia sa che non riusciamo a sorgere dalle nostre rovine se prima non alziamo gli occhi per guardare e vedere un futuro diverso e migliore: «Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio» (60,4-5). La forza della profezia sta nel farci vedere già il “non ancora”: con gli occhi dei profeti riusciamo veramente a guardare e vedere la salvezza in mezzo alla desolazione. Sorgi e guarda, guarda e sorgi: sono questi i due verbi della speranza e di ogni vita che vuole ricominciare. E anche quando dovremmo alzare gli occhi e sorgere per l’ultima volta, riusciremo a farlo se saremo ancora capaci di vedere e di sperare ancora: «Forse rivedrò mamma, papà, Silvia; forse vedrò Dio». La fede sta nel tener vivo questo “forse” fino all’ultimo attimo, è il granello di senape che ci basta per alzarci e sorgere.

Speranza è vedere e sorgere, ed è ricostruire: «Riedificano le rovine antiche, ricostruiscono i vecchi ruderi, restaurano le città desolate, i luoghi devastati dalle generazioni passate» (61,4). Solo chi ha vissuto dentro città distrutte – le distruzioni dei terremoti e delle guerre, o quelle spirituali dei lutti, delle sventure, delle lunghe malattie – può capire tutta la forza di questa immagine profetica. Per poter sorgere e tornare a sperare quando ancora la città e la vita sono un cumulo di macerie, dobbiamo riuscire a immaginare noi stessi e i nostri concittadini nell’atto del ricostruire, vederci già mentre lavoriamo insieme per riedificare e restaurare. Cominciamo a rialzare un paese e una vita abbattuti solo se un giorno riusciamo a vedere, con gli occhi dell’anima, l’immagine di noi stessi nell’opera della ricostruzione. Prima dobbiamo vederlo, almeno sognarlo, e solo dopo possiamo iniziare a ricostruire. E il giorno in cui riprendiamo in mano il primo mattone, la speranza ha cominciato a generare l’inizio della salvezza. Niente più dell’inizio di una nuova opera dice speranza. Il lavoro di chi ricostruisce una casa, una scuola, una chiesa quando siamo tutti pietrificati dal dolore, dalla paura, dalla delusione, è veramente partecipazione e continuazione dell’opera creatrice del mondo. Mentre raccogliamo le pietre e le ricomponiamo una alla volta, stiamo ripetendo: “sia la luce”, sia la vita, sia l’Adam che riplasmiamo dalla terra con le nostre mani.

La povertà più grande nasce dalla carestia di promesse. È a questi poveri, a questa povertà, che attraversa tutte le categorie e condizioni sociali, che il profeta annuncia il suo vangelo: «Lo spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri» (61,1). Sono parole di una bellezza e di una potenza straordinarie, che i profeti continuano a ripeterci da millenni, senza stancarsi davanti al perdurare delle povertà, delle schiavitù, del dolore. Non tacciono, perché non possono tacere: «Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi darò tregua, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada» (62,1). È bello questo “non posso” dei profeti, che ci ripete la natura profonda di ogni vera vocazione profetica: «Sulle tue mura, Gerusalemme, ho posto sentinelle; per tutto il giorno e tutta la notte non taceranno mai. Voi, che risvegliate il ricordo del Signore, non concedetevi riposo né a lui date riposo» (62,6-7). Il primo Isaia aveva già usato (nel capitolo 21) l’immagine della sentinella nel suo meraviglioso canto «quanto manca al giorno?». Lì, la sentinella era immagine del profeta come uomo dell’incessante dialogo notturno con i viandanti. Nell’attesa del giorno, il profeta diventava amico solidale degli uomini che passano sotto la torre di vedetta e gli chiedono «quanto resta della notte». Ora il terzo Isaia, erede e continuatore del primo (e del secondo) Isaia, qui ci rivela un’altra dimensione del profeta-sentinella. Il profeta è anche chi, per compito e destino, deve risvegliare Dio per ricordargli il dolore del mondo. Che sa di dover svolgere quest’opera senza darsi riposo, giorno e notte, per tutta la vita, e così non “dare riposo” a Dio, fino al giorno in cui si sveglierà e si ricorderà della sua promessa.

Il profeta è chiamato da Dio a parlare al popolo e al mondo in suo nome. Ma nello sviluppo della sua vocazione capisce sempre più e meglio che mentre parla di Dio al popolo deve imparare a parlare a Dio del popolo. Ogni intermediario e ogni buon mediatore sa questo, e Mosè è l’immagine più forte e vera di questa bi-direzionalità del “mestiere” del profeta. Ma – e qui sta un dramma della profezia – mentre per parlare a nome di Dio è la sua voce a guidarlo, il profeta non ha dentro anche la voce del popolo che gli parla e lo guida. E così spesso tace, finché non impara che la voce del popolo è il suo grido di dolore, e capisce che per parlare a Dio del popolo deve solo gridare insieme alla sua gente. La verità e la buona maturazione della vocazione profetica si rivelano in pienezza quando un giorno il profeta sente che deve lasciare il “tempio” e scendere nella “piazza”, perché è lì che apprende ad ascoltare la voce-grido del popolo. È qui che il profeta diventa il servo sofferente, che incarna il dolore del popolo e dei poveri, fino al martirio, fino alla croce. Qui non sa più dire la parola di Dio al popolo, è “pecora muta”, perché è diventato nella sua carne parola dell’uomo rivolta a Dio, incarnazione della parola umana per farla entrare in cielo. Natale è la grande celebrazione della Parola di Dio fatta uomo: i testimoni di quell’evento non avrebbero potuto capire che cosa era avvenuto in quella notte santa se, nei profeti, la parola-grido degli uomini non fosse diventata parola di Dio.

Ma il terzo Isaia ci dice ancora qualcos’altro. Il profeta è la prima sentinella, ma non è solo in questo compito. Egli pone accanto a sé altre sentinelle sulle mura, perché continuino con lui a stancare Dio. Sono i discepoli del profeta, e tutti coloro che continuano nel tempo la sua missione. Sono i tanti uomini e donne, ieri e oggi, che solidali con la propria gente continuano a fare domande a Dio, senza stancarsi, a gridare con il loro popolo. Sono i tanti carismi, laici e religiosi, che non hanno mai smesso di parlare di Dio agli uomini e, soprattutto, di parlare degli uomini a Dio, fino a stancarlo. La profezia non muore finché c’è qualcuno di vedetta sulle mura delle nostre città che grida e dà voce a chi voce non ha più o non hai mai avuto, senza “tacere mai”. Che mentre ci annuncia la salvezza grida il dolore di chi non è stato ancora salvato e attende. E lo fanno per vocazione, come quell’antico profeta, di cui sono discepoli, anche se non lo sanno.

Ormai da molto tempo sono pochi, troppo pochi, i profeti che ci sanno ancora parlare della promessa di Dio. Sono però molti, moltissimi, quelli che sanno gridare per la non-salvezza degli uomini e delle donne. Molte volte gridano verso un cielo che pensano vuoto – perché non hanno mai incontrato Dio, perché non lo conoscono, non lo riconoscono più, o perché hanno dimenticato la sua voce. Ma continuano per vocazione a gridare per il nostro dolore, angeli diversi, ma veri sopra le grotte nelle nostre notti. Non lo sanno, ma anche loro entrano nel presepe, e assieme ai pastori, agli agnelli, agli angeli, accompagnano questa notte, e attendono l’aurora, per svegliarla. Buon Natale.

pubblicato su Avvenire il 24/12/2016

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