La speranza di un nuovo inizio

«Voi non abbiate paura» (Mt 28,5)

«Venuta la sera» (Mc 4,35)

In seguito all’emergenza Covid che ci ha investito come uno tsunami abbiamo vissuto giorni che non ci saremmo mai aspettati e che hanno stravolto le nostre vite. “Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti.” (Papa Francesco) Credo non ci siano parole più appropriate per descrivere quanto abbiamo vissuto.
Ho provato a rileggere questi avvenimenti alla luce del racconto che l’evangelista Luca narra al capitolo 24, 13-50 perché ritengo ci possa offrire una chiave di lettura non solo per il presente ma anche per il futuro che ci attende.

«Si fermarono, col volto triste» (Lc 24,17)

Il racconto conosciuto come “i discepoli di Emmaus” ci è familiare. La scena si svolge “lo stesso giorno” (Lc 24,13), “il primo giorno dopo il sabato” (Lc 24,1) nel quale le donne si recano al sepolcro con gli aromi ma non trovarono il corpo di Gesù bensì “due uomini con vesti sfolgoranti” (Lc 24,4) che dissero: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato.” (Lc 24,5b-6)
La scena ce li mostra mentre camminano verso Emmaus. Sono tristi. Quanto è accaduto a Gerusalemme negli ultimi giorni rappresenta per loro la perdita delle speranze che avevano riposto in questo profeta giunto da Nazaret. Una storia che ai loro occhi è finita male. La morte sembra aver firmato la conclusione di questa vicenda. Gesù “si accostò e camminava con loro”. (Lc 24,15) Intercetta i due discepoli nella loro realtà, ammantati di tristezza, delusi, sconfortati, sconvolti. Accoglie questa situazione e non prospetta loro facili scorciatoie o soluzioni avveniristiche o consolatorie. Si fa loro vicino. Gesù si fa carico della loro situazione, l’accoglie (Filippesi 1,6-11).
Già, un Gesù che fa sua la nostra storia, così com’è. La attraversa e le dona senso. Non fa salti in avanti ma si tuffa appieno in quanto noi stiamo vivendo, si fa vicino, cammina con noi rispettandone il passo. Ma noi siamo capaci di far strada “a” questo “forestiero” e “con” lui proseguire il cammino? Oppure la paura ci ha paralizzato a tal punto che questa eventualità ci spaventa e la rifiutiamo? Non è un rischio permettere ad uno sconosciuto di avvicinarci e percorrere insieme a noi la strada?

«spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27)

In questo brano dei discepoli di Emmaus possiamo vedervi e leggervi una catechesi della prima comunità cristiana È un testo nel quale vengono evidenziati i punti fondamentali che dovrebbero costituire la nuova appartenenza per coloro che in quel Gesù di Nazareth si riconoscono. La Parola. La prima comunità cristiana riteneva fondamentale accostarsi alla Parola. «L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo» (S. GIROLAMO, Comm. in Is., Prol.: PL 24, 17.) Il Concilio Vaticano II, nella costituzione Dei Verbum, ricorda che i cristiani devono “accostarsi volentieri al sacro testo” (DV 25), “familiarizzino con sicurezza e profitto con le sacre Scritture e si imbevano del loro spirito.” (DV 25)
Davvero la Parola assume un posto di rilievo nella vita personale e di comunità? Questo periodo di “lockdown”, di chiusura delle attività per preservare la vita delle persone, non ha reso possibile la celebrazione eucaristica con la partecipazione dei fedeli è stato occasione di (ri)scoperta di una Parola che dovrebbe essere chiave di lettura e interpretazione della storia che noi viviamo? Se non è la Parola, la Scrittura, a gettare luce sulla nostra vita, come cristiani, a cosa ci appelliamo? Gesù stesso ci ha indicato questo cammino, questa modalità, quando ai due discepoli “spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27)

«Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista.» (Lc 24,31)

Catturati dalla Parola di questo straniero non vorrebbero interrompere l’incontro. Desiderano continuare ad avere nel loro petto un cuore che arde (Lc 24,32). Hanno scoperto una Parola che non è vano chiacchiericcio. Non sono frasi urlate per sovrastare con prepotenza l’altro. Hanno sperimentato la bellezza dell’umile dirsi di Dio attraverso la forma del “linguaggio umano” (DV 13). Lo invitano a cena e nei gesti che compie lo riconoscono. Quando lo identificano “lui sparì dalla loro vista.” (Lc 24,31). “Gli occhi dei due si aprono per non vedere più che loro stessi, uno di fronte all’altro. Capiscono che d’ora in poi il segno, il sacramento, è il fratello.” (Enzo O. Verzeletti) La tentazione del catturare l’attimo, di imprigionarlo e con esso l’altro è forte. Anche sul Tabor non si sono fermati eppure la richiesta era di fare tre tende (Mc 9,1-8). Sono ridiscesi dal monte di nuovo a condividere il cammino con le donne e gli uomini della Palestina. Per noi non sarà facile uscire dal chiuso della nostra quarantena e farci nuovamente prossimo. Come lasciare la sicurezza del nostro isolamento per trovare nuove formule di incontro con l’altro? Gesù ci ha consegnato il fratello come sacramento ma come far nostro questo segno “alto e scomodo”?

«E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme.» (Lc 24,33)

L’incontro con Gesù nella Parola e nella Cena ebbe come conseguenza il ritorno senza indugio a Gerusalemme. L’esperienza che hanno vissuto li porta a ricominciare una vita nuova diversa da quella di prima. La loro storia, i fatti che hanno vissuto, non cambia ma viene letta in modo nuovo a partire da questo incontro fondamentale. Hanno ricominciato una vita nuova. Noi sentiamo il bisogno di iniziare una nuova fase. Il tanto agognato e richiesto “ricominciare” allude alla vita di prima? Si vorrebbero cioè ripetere le logiche che ci hanno portato a questa pandemia con tutte le conseguenze che abbiamo visto? Papa Francesco ci ha ricordato che ci “credevamo sani in un mondo malato”. Dobbiamo riconoscere la nostra “malattia” i nostri errori per poter costruire un mondo “sano”. Dobbiamo avere il coraggio di analizzare quanto di malato c’è nel nostro modo di intendere i rapporti sociali che poi si coniugano in rapporti economici e politici. Quale visione del mondo, weltanschauung, sottostà – governa – la gestione della res-pubblica? Ad esempio i danni provocati da una gestione della sanità che ha privilegiato gli interessi “privati” che ha “privato” molti del diritto alla salute è sotto gli occhi di tutti. È urgente un cambiamento di rotta. (tra i tanti articoli segnalo I due mesi che sconvolsero la Lombardia, il Post). Bene ha scritto Enzo Bianchi che «Nell’ora in cui si dovrebbe sentire il peso della parola “insieme” e si dovrebbe far prevalere la logica del “noi”, continua e anzi peggiora la delegittimazione reciproca. “L’un contro l’altro armati”: questo sembra lo stile assunto in un’ora in cui poveri, anziani e persone fragili sono vittime non solo di un virus ma, ben di più, di un assetto sociale che non tiene conto di loro. Sono convinto che finché le ragioni economiche saranno più importanti di quelle della fraternità; finché il profitto conterà più delle perdite umane; finché le logiche di bassa politica prevarranno, non ci sarà possibilità di ricominciare.» (E.Bianchi, Ricominciare diversi da prima, La Repubblica lunedì 4 maggio 2020)

Abbiamo bisogno di un “nuovo inizio”

non di “iniziare di nuovo”

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