Greppi Antonio, Storia di Natale

di Antonio Greppi

E’ una storia che raccontavano al mio paese quando non era ancora città.
Angera, sul Lago Maggiore: ne sapete qualche cosa?
Un viale lungo con tante piante allineate bene, una grande piazza, e in alto la Rocca.
Aveva fama nel Medio Evo di essere la patria delle favole.
E anche dopo, per la verità, la sua gente non si è stancata di raccontarne.
Ma questa potrebbe essere, chissà, una storia vera.
Tale, almeno, era per la mia nonna che, vecchia di oltre settant’anni, ancora se ne commoveva davanti a quel grande camino con gli alari di bronzo, la sera della Vigilia.
«Un invernaccio – diceva – con la neve a mezzo dicembre e i passeri a battere il becco, intirizziti, contro i vetri delle finestre».
Come gli altri anni, il prete aveva annunciato dal pulpito la Messa di mezzanotte.
E avessero tanto buon senso, i genitori, da mandare a letto per qualche ora i ragazzi prima di sera per non vederli sonnecchiare sui banchi al suono della piva.
Si era intorno alla metà dell’Ottocento e la politica non la faceva ancora nessuno.
Però c’erano almeno cento poveri ogni tre ricchi e quelli avevano l’abitudine di togliersi il cappello, questi no.
Pregiudizi, d’accordo; ma nemmeno loro lo sapevano.
Diceva la mia nonna, facendo le sopracciglia ad accento circonflesso, che saranno state le dieci su per giù.
E qui una pausa che non finiva mai.
«E allora?».
Allora si videro due ombra comparire all’angolo della strada della Rossa.
Poi si fecero avanti un uomo e una donna e sembravano incerti come tutti quelli che capitano in un paese per la prima volta, di notte.
Male rinfagottati tutti e due, non sarebbe stato possibile indovinare la loro età.
Lui aveva la barba scura con un ciuffo bianco sul mento; lei la chioma bruna spartita sulla fronte.
Avevano l’aspetto di due mendicanti e forse non sapevano nemmeno che era la notte di Natale.
Lui aveva il passo pesante di stanchezza; lei, invece, un poco zoppicava.
«Ecco una locanda!», disse lui, finalmente. «Le Due Spade».
L’insegna era piccola, sul balcone, e fortuna che l’avesse svelata il chiaro di luna.
Bussarono tutti e due insieme, ma lei si trasse subito indietro e aspettava che si accendesse la finestra.
«Cosa volete?», domandò qualcuno, affacciandosi col malumore di chi dormiva in santa pace.
«Veniamo per l’alloggio», spiegò l’uomo e la sua voce si scusava del disturbo.
«Niente da fare; le stanze sono tutte occupate».
«Ma qui c’è una donna all’ultimo mese, che non si regge più».
«Questa è roba da ospedale», brontolò l’oste, spazientito, e rinchiuse la finestra in malo modo.
Dove fosse l’ospedale loro non sapevano, ma si udì un passo poco lontano, poi apparve un vecchio incappucciato.
«L’ospedale, di grazia».
«Da quella parte».
Era a mezza discesa, verso il lago, con la neve intatta davanti alla porta.
«Qui – disse l’uomo – non c’è stato movimento».
E subito tirò il fiocco di una fune.
La donna, intanto, si era appoggiata al suo braccio.
Si udì finalmente uno scalpiccio all’interno e quello che si sporse era un uomo col viso angoloso e due grossi baffi quasi bianchi.
«Ci sono malati?», domandò con voce d’abitudine.
«C’è questa donna – rispose lo sconosciuto – che poco le manca alle doglie».
«Spiacentissimo – si scusò l’altro – ma qui non siamo attrezzati per incidenti del genere».
«Ma almeno un letto!…».
«Avete le carte del Comune?».
«Non siamo di qui».
«Spiacentissimo, ma la legge parla chiaro: o un fatto di sangue o le carte del Comune».
«E per le carte del Comune?».
L’uomo alzò le spalle e fece una smorfia.
«Provate a battere alla porta del municipio, ma dubito che ci sia un tanghero come me che vi venga ad aprire».
Lasciò a uno sguardo di forza maggiore l’opera di persuasione, poi chiuse, ma con bella maniera, la porta e per un attimo si udirono le sue ciabatte nel silenzio.
«Al municipio è inutile andare», disse lui, coi denti che gli battevano per il freddo.
«Piuttosto dal dottore! Ho sentito che in casi come questi può bastare anche il suo certificato».
«Il più è trovarlo», sospirò l’uomo che doveva essere il marito.
Saliva in quella, verso di loro, una carrozza e il cavallo aveva i passi felpati.
«Ce lo dite voi dove sta il dottore?», s’azzardò lui, quando il cocchiere fu a tiro della sua voce.
«Sta quattro spanne dietro la tua schiena!», fu la risposta umorizzata.
E, tirando le redini, fermò la bestia.
Il dottore mise fuori la testa e non appena seppe di che cosa si trattava li invitò a passare da lui l’indomani mattina che si sarebbe disturbato a riceverli per quanto fosse Natale.
«E questa notte?».
«Se non avete trovato alle Due Spade, provate all’Angelo», disse.
E sollecitò il cocchiere con uno sbadiglio che confessava tutto il suo sonno.
Una piccola nube passò sulla luna.
Bruscamente la notte rabbrividì, disincantata, e di nient’altro era fatto il mondo che di solitudine e di silenzio.
«Bussare all’uscio dei poveri è tempo sprecato – disse lei, ansimando di amarezza e di fatica – non hanno spazio neanche per loro. Piuttosto le case dei ricchi. Quante volte non accade che siano mezzo disabitate!».
Si erano proprio fermati davanti al cancello di un bell’edificio a tre piani.
«Bisognerebbe che ci facessimo sentire», disse lo sconosciuto scrutando nell’ombra.
Ma non era che un’ombra anche la casa.
Mortalmente stanca la moglie, intanto, si era appoggiata al cancello e la campanella, scossa, si fece sentire.
Fu allora che un cane, accucciato in una nicchia del rustico, dopo un breve mugolìo ragionato, si diede ad abbaiare.
Qualcuno si affacciò subito alla finestra del palazzo.
Era la contessa e, dopo avere invitato il cane a star zitto, protestò contro le due ombre, abbaiando, anche lei.
«Cosa fate lì? Andatevene via subito!».
«Volevamo domandarvi…», incominciò a dire lo sconosciuto.
Ma l’altra non gli lasciò il tempo di aggiungere una sillaba.
«Non si disturba la gente per bene a quest’ora. Andatevene via, vagabondi!».
«Ma dove possiamo andare?», gemette lei con le parole che piangevano.
«Andate dove vi pare, anche all’inferno!».
Detto questo, la contessa si ritirò e subito il cane riprese ad abbaiare.
Lo sconosciuto dolorosamente scrollò il capo, la moglie gli terse una lacrima con la mano.
Ma c’era nel loro cuore un più grande spavento, come se quella voce avesse scavato tra loro e il resto dell’umanità un abisso infinito.
Ora le campane non suonavano più le ore, ma l’invito alla Messa.
«Andiamo in chiesa anche noi – disse lo sconosciuto – là, almeno, ti potrai sedere».
Camminavano lentamente, come due malati che si sostengono a vicenda.
Ma di che cosa erano fatte le loro calzature che non lasciavano tracce sulla neve?
La chiesa era ancora lontana.
Dallo spigolo dell’ultima casa sporgeva una lanterna; un niente di lume nei vetri smerigliati di neve.
Poi c’era un campo senza cinta, tutto bianco, con una piccola casa.
Abbandonata, l’avresti detta, in quello squallore che ingrandiva le distanze.
Vide lo sconosciuto uno spiraglio di luce: una porta chiusa male o una fessura.
«Aspetta», fece, e gli bastarono pochi passi a colmare il distacco dal ciglio della strada.
Bussò: qualcuno o qualche cosa si mosse all’interno.
Bussò ancora: gli parve di avvertire un tramestìo d’inquietudine.
Allora si fece coraggio e spinse il battente.
Era una minuscola stalla: lo capì subito per quell’aria calda e greve.
Poi vide anche la mole di una mucca sdraiata e ancora udì quel tramestìo, fatto di paglia smossa.
Gli angoli erano al buio, ma dal fondo veniva tratto tratto un sospiro, come di sonno agitato.
Fece due passi d’azzardo, ma urtò qualche cosa e per poco non cadde.
Paglia compressa, doveva essere, accumulata di scorta.
I grandi occhi della mucca lo guardarono senza meraviglia e riflettevano la pazienza di quel ruminare volonteroso e metodico.
«C’è qualcuno?», domandò a mezza voce: non ebbe risposta.
Però che sconcerto quel sentirsi parlare da solo!
Non si era proposto cosa dovesse fare, eppure uscì con una sua ferma risoluzione.
«Vieni – disse alla moglie – qui almeno troverai un po’ di caldo e anche un letto di paglia».
«C’è della gente di cuore?».
«Non c’è nessuno. La stalla fa corpo con la casa».
«E se poi ci prendono per degli intrusi e ci mandano via?».
«Sarà tutto tempo guadagnato».
Lappolava il lucignolo in quel poco olio rimasto nella navetta e spaventava le ombre sulla parete.
A tentoni lo sconosciuto riprese contatto con la paglia, se ne riempì le braccia e ne fece un giaciglio in mezzo allo stambugio.
Poi volle che essa ci si stendesse e le ripiegò il tabarro sotto il capo.
Ma lui se ne stava in piedi col cuore sottile e ascoltava anche i rumori dell’aria.
Bruscamente, senza preavviso, la porta si aprì e un uomo apparve nel riverbero della luna.
Non era solo, perché subito disse qualche cosa.
«Se quello fa la predica come l’altro anno, ne abbiamo per un paio d’ore ad essere fortunati. Meglio anticipare una forcata».
Ma subito che si fece avanti, ed era tutto imbacuccato, s’accorse della presenza di qualcuno, e ritirandosi a sventare un’imboscata, ansimava:
«C’è gente nella stalla; va a prendere una lanterna, Guendalina, che lo stoppino è più morto che vivo».
E quella a mugugnare:«Cosa aspetti a gridare ai ladri? Se è gente male intenzionata ti fa la pelle prima che la guardi in faccia».
«Vedi un po’, Guendalina, se passa qualcuno per la strada!».
La moglie dello sconosciuto intanto gemeva:
«Non te l’avevo forse detto?».
Ma egli non stette ad ascoltarla.
Era già sulla porta e non parlava, ma pregava con la strozza del giusto tradito.
«Non fatelo, per carità; c’è qui una povera donna che soffre. Ci hanno cacciati da tutte le parti; abbiate pietà di una creatura di Dio».
«Fermati, Guendalina», disse l’uomo con un’altra voce.
E rivolgendosi allo sconosciuto gli domandò chi fosse e a chi avesse domandato il permesso di entrare nella proprietà degli altri.
«Alla mia coscienza, l’ho domandato. E al tuo cuore, senza conoscerlo».
«Ma chi sei tu che parli in questo modo?», si stupì l’uomo, e poi che Guendalina già tornava con la lanterna, gliela piantò davanti alla faccia. «Non ti ho mai visto. Sei un girovago, un mendicante?».
«Sono un essere come tanti altri».
«E quella donna?».
«Una madre», rispose.
E la parola restò un pezzo nel silenzio.
«E il bimbo?».
«L’ha ancora dentro di lei, ma per poco, ormai».
La commozione gli inteneriva la voce, facendola sognare.
«Guendalina! – gridò l’uomo. – Sta per nascere un bambino. Tra meno di un’ora nasce anche Gesù».
Ma dov’era andata Guendalina, che più non la vedeva?
Cercandola, il suo sguardo avvertì un’ombra nel mezzo della stalla, che prima non c’era.
Se ne stava la moglie, inginocchiata, accanto all’intrusa di poco fa.
«E’ tanti anni – mormorava – che anch’io sogno un bambino e non viene mai».
Ma subito tacque, impressionata; la donna si lamentava.
«Ecco!», mormorò, come se lei sola avesse capito, e corse fuori.
Il marito intanto aveva appesa ad un chiodo la lanterna e subito si fece una gran luce, come se il lucignolo della candela brillasse più di una stella.
In ginocchio, vicino alla sua donna, c’era ora lo sconosciuto.
Fuori intanto, cresceva uno strano rumore, fatto di tante voci.
Ed era il commento di una folla a qualche cosa.
I fedeli che, per i primi, erano arrivati alla parrocchia avevano trovato la porta chiusa e movevano incontro ai ritardatari per avvertirli dell’imprevisto.
E tutti insieme facevano quel rumore.
Che fosse accaduto qualche cosa allo scaccino?
E dove si era cacciato don Geremia?
Lo sanno anche le pietre della strada che da diciotto secoli, a mezzanotte, nasce Gesù, e l’organo suona la piva e le donne cantano in coro «Alleluja».
Finalmente lo scaccino si fece vivo con un gesticolare da innocente e spiegò l’arcano.
Proprio la stessa sera dovevano arrivare dall’altra sponda le statue del presepio, grandezza naturale, ma il vecchio «Aida», più ubriaco del solito, si era lasciato sfuggire la barca di mano e chi l’avrebbe potuta ritrovare in piena notte, sia pure con la luna?
«Un Natale senza presepio; lo si è mai visto?».
«Proprio doveva aspettare l’ultimo giorno…».
«E che bisogno c’era delle statue, grandezza naturale? Forse che non bastano le figurine di legno?».
«Vogliamo il presepio!», gridava la marmaglia dei ragazzi.
«Vogliamo il Bambino Gesù!», strillavano le donne.
Fu a questo punto che – cos’è, cosa non è – incominciò a serpeggiare la voce che invece delle statue, grandezza naturale, erano arrivati in paese Giuseppe e Maria in carne ed ossa e se ne stavano in una stalla, proprio come a Betlemme.
Approfittando della confusione, poi, un bel tipo mezzo matto aveva preso, lui, il posto dello scaccino e si era scatenato un tale ciclone di campane che pareva la notte del giudizio universale.
Poi calò il silenzio dell’eternità.
Gli scettici dicevano, accalcandosi, ma solo per curiosità, davanti alla stalla di Guendalina, che c’era il padre e la madre, ma non si vedeva nemmeno l’ombra del bambino.
Li rimbeccavano i semplici e gli innocenti che il bambino aspetta la mezzanotte.
E così fu.
Perché ancora non era scoccato l’ultimo dei rintocchi che si udì un vagito.
Allora anche la mucca e l’asinello che sospiravano nell’angolo buio allungarono il collo e avevano gli occhi umidi e soffrivano di non poter cantare «Alleluja» anche loro.
La barca, lo si seppe l’indomani, era andata ad arenarsi davanti alle Fornaci; ma delle statue, grandezza naturale, nessuna traccia.
E avrebbe detto il vecchio «Aida», passata la sbornia, che san Giuseppe aveva la barba con un ciuffo bianco sul mento e Maria la chioma bruna spartita sulla fronte.
Nessuno si mosse quella notte dal campo che circondava la casa di Guendalina e non faceva freddo.
Però avevano chiuso la porta perché la madre e il suo piccino potessero dormire in pace.
Quando la riaprirono, nella stalla non c’era più che la mucca e l’asinello.
Vide invece Guendalina, che sul balcone della sua stanza era fiorito il gelsomino.
E subito sentì qualche cosa dentro di sé, qualche cosa che lei sola sapeva cos’era e la fece piangere di dolcezza e la fece gridare di felicità.
Invece in casa del dottore quella notte suonò chissà quante volte il campanello e lui sempre si alzava, ma non c’era mai nessuno.
All’ospedale fu visto un pipistrello fuori stagione e inutilmente il custode lo rincorreva con la scopa per tutte le stanze vuote.
L’albergatore si voltò e rivoltò nel letto come se l’avesse punto la tarantola e i due unici clienti se l’erano filata senza nemmeno dirgli grazie.
Ma il peggio fu in casa della contessa: il cane abbaiava, abbaiava come se fosse impazzito, e non ci fu verso di chiudere un occhio.
Naturalmente don Geremia sosteneva che era stata tutta un’allucinazione, ma i semplici e gli innocenti, compresa la mia nonna, giuravano ancora poco più di cinquant’anni fa che quelli erano proprio
Giuseppe e Maria.
La casa di Guendalina c’è ancora, con la piccola stalla.
Ma è circondata da una cancellata e la troverete all’angolo dell’ultima strada, prima del sagrato.
Non manca nemmeno il gelsomino.
Ma fiorisce soltanto nella buona stagione.

 


Antonio Greppi nacque ad Angera il 26 giugno 1894. Partecipò come ufficiale dei bombardieri alla Prima guerra mondiale. Si laureò in giurisprudenza. Partecipò alle lotte politiche del dopoguerra a fianco dei socialisti riformisti, come Turati, Treves e Matteotti. L’assiduo esercizio dell’avvocatura non gli impedì di rimaner sempre fedele alla sua appassionata vocazione teatrale. Scrisse commedie, racconti e romanzi. Per le sue idee politiche ebbe a subire persecuzioni e carcere. Il 26 luglio 1943 partecipò (con Amendola, Gallarati Scotti, Lombardi e Jacini) alla prima riunione di quel gruppo che sarebbe poi diventato il Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia. Nel settembre del 1944 i fascisti gli uccisero, in una imboscata a Piazza Piola, il figlio Mariolino. Sfuggito alla cattura, riparò in Svizzera, donde rimpatriò per partecipare alla
Resistenza. Il 26 aprile 1945 rientrò a Milano da Domodossola con la Brigata Matteotti, di cui era commissario politico. Poco dopo, venne eletto sindaco di Milano, il «sindaco della Liberazione e della ricostruzione». E’ morto a Milano il 22 ottobre 1982.