I Vangeli dell’infanzia in Matteo e Luca: un commento

I così detti racconti dell’infanzia hanno delle caratteristiche particolari, che li differenziano fortemente dal resto del vangelo. Non sono puro racconto, e chiamarli perciò racconti dell’infanzia non è appropriato: in effetti non intendono tanto raccontare la nascita di Gesù e i fatti della sua infanzia, quanto piuttosto anticiparci il compito messianico del Cristo, la portata salvifica della sua missione, il mistero del suo essere. Le pagine dell’infanzia sono testimonianze a Cristo, formatesi alla luce della fede, anche se, d’altro canto, nascondono ricordi storici molteplici: ma ricordi e fede, storia e teologia sono indissolubilmente uniti, e distinguerli sarebbe arduo.

Ci sono altre caratteristiche che possono interessarci e che dobbiamo tenere presenti nella nostra lettura. Ad esempio, notiamo l’abbondanza del meraviglioso, molto più marcato che altrove nel N.T.; la presenza di una lingua dalle caratteristiche semitiche evidenti; un continuo riferimento all’A.T. e alle tradizioni giudaiche, molto più massiccio che altrove e al punto da porci di fronte a una specie di mosaico di testi. Tutti aspetti da tenere presenti per una retta valutazione di queste pagine.

Ma è forse più importante per noi una parola sulla loro origine. Si impone una constatazione che potrebbe sorprendere: la completa assenza dell’infanzia nel kerigma1 primitivo, nel vangelo di Marco e di Giovanni. Ciò pone il problema dell’origine: quando si formarono questi racconti? e dove? e perché? Si capisce facilmente come le domande intorno all’infanzia del Messia si siano imposte in un secondo momento all’attenzione della comunità. Dapprima i testimoni e gli evangelizzatori concentrarono la loro attenzione sugli elementi essenziali del messaggio. D’altra parte, è altrettanto facilmente credibile che i ricordi di famiglia siano stati raccolti e raccontati nei circoli giudeo-cristiani, soprattutto quelli che in qualche modo si rifacevano ai parenti del Signore.
Non si creda però che questi racconti siano nati solo per il legittimo bisogno di sapere, di ricordare e di raccontare. In realtà sono nati per motivi apologetici e teologici, e la nostra lettura li deve evidenziare.

Un’altra constatazione importante: il confronto fra le pagine di Matteo e le pagine di Luca mette in luce differenze e somiglianze. Certo non si può instaurare un vero parallelo sinottico2. Il confronto però è ugualmente interessante.
Anzitutto delle differenze: fatti differenti e forma letteraria differente: tutto questo indica che ci troviamo di fronte a un diverso contesto di tradizioni. E poi le concordanze: sono in comune fra i due importanti dati storici e di fede, quali il fidanzamento fra Maria e Giuseppe, l’adozione legale di Gesù da parte di Giuseppe e quindi la sua appartenenza alla stirpe di Davide, la nascita a Betlemme e la vita a Nazareth, la verginità di Maria e la nascita di Gesù per opera dello Spirito. Dunque, nonostante le differenti tradizioni c’è un sottofondo comune, che appartiene alla fede tradizionale, e che è stato in grado poi di trovare una propria formulazione in due testi indipendenti.
Dicevamo che i racconti sono nati per dei motivi apologetici. Due interrogativi circolavano nell’ambiente giudaico, e costituivano delle vere e proprie obiezioni alla messianità di Gesù: il Messia non doveva essere figlio di Davide? e non doveva nascere a Betlemme? perché allora si chiama nazareno? Echi di questi interrogativi sono rimasti, ad esempio, nel vangelo di Giovanni (7, 41-43Link esterno): «alcuni dicevano: è il Cristo. Ma altri ribattevano: il Cristo viene forse dalla Galilea? Non dice forse la Scrittura che il Cristo verrà dalla stirpe di Davide, e da Betlemme, il villaggio di Davide? E nacque dissenso tra la gente riguardo a lui».
Questi motivi apologetici sono però unicamente il punto di partenza. Si sono sovrapposti motivi teologici più ricchi, che però divergono da vangelo a vangelo.


 

L’INFANZIA DI GESÙ SECONDO MATTEO
capitoli 1-2
Nel suo primo capitolo, Matteo intende rispondere a un primo interrogativo: il Messia non doveva essere figlio di Davide? Ma egli ne approfitta per andare oltre e, in definitiva, contestare l’importanza e, soprattutto, il progetto messianico che i giudei attribuivano al figlio di Davide. Gesù è figlio di Davide, ma è universale: Egli è infatti figlio di Abramo, il patriarca che Dio ha scelto per essere benedizione per tutti i popoli (Gen. 12, 1-4 Link esterno).
Inoltre Egli è sì frutto del popolo ebraico, ma anche dell’ostinazione e della fede di alcune donne straniere (TamarLink esternoRaabLink esternoRutLink esterno): ad ogni modo il piano di Dio ha potuto procedere per la presenza di Dio, non certo per la fede di Israele (il peccato di Davide: vs. 1, 6). Poi Gesù è sì figlio di Davide, ma in nessun modo egli intende vivere quel progetto messianico di restaurazione politica e religiosa che invece i giudei si attendevano da lui: Gesù è un re senza corona.
Soprattutto, questo è il punto essenziale, Gesù non è solo figlio di Davide, ma è Figlio di Dio: non viene solo da noi, diciamo da una linea orizzontale. Viene dall’alto, viene da Dio: questo è il senso cristologico della nascita verginale, per opera dello Spirito. Per comprendere la fisionomia di Gesù non basta la linea orizzontale, occorre la linea verticale. Questa è l’affermazione contenuta in Mt 1,16 e commentata ampiamente in Mt 1,18-25.

Nel successivo capitolo Matteo risponde a un secondo interrogativo: Gesù non doveva venire da Betlemme? Perché allora si chiama nazareno? Ma ancora una volta Matteo approfitta dell’interrogativo per dirci molto di più e anticiparci alcuni dei principali temi cristologici ed ecclesiali che gli stanno a cuore e che il suo vangelo svilupperà a lungo. Ne indichiamo due.
Primo: i Magi sono le primizie dei pagani. Gesù è un Messia che rompe definitivamente le barriere del particolarismo ebraico. Il racconto è costruito sullo sfondo di Isaia 60: il profeta descrive i popoli che arrivano con tutte le loro ricchezze a Gerusalemme. Ma in Matteo c’è una novità rispetto ad Isaia: i lontani cercano Gesù e i vicini lo rifiutano. Matteo è consapevole del giudizio su Gerusalemme: il Messia non è più combattuto dai popoli, non è più combattuto dall’Egitto: è rifiutato dal suo stesso popolo.
Secondo: Gesù è un Messia cercato e rifiutato, è un Messia che sembra sconfitto. Non è un Dio vincitore ad ogni costo, ma è oggetto di discussione. È un profugo. La sua gloria è nascosta, la sua vittoria è racchiusa in apparenza di sconfitta. Gesù, cercato dai Magi e rifiutato da Erode, è un Messia incamminato verso la Croce. E questo è il secondo elemento essenziale della storia di Gesù, che ha suscitato in mezzo al popolo giudaico perplessità e scandalo.


L’INFANZIA DI GESÙ SECONDO LUCA

Lc 1, 5; 2, 52

I racconti dell’infanzia in Luca sono continuamente riferiti all’A.T., persino nel linguaggio: si vuol dire, come già in Matteo, che Gesù è il compimento delle attese. Non è questa l’originalità di Luca. Egli ordina i racconti dell’infanzia ponendo in parallelo la storia di Giovanni il Battista e la storia di Gesù, facendoci passare continuamente dall’una all’altra. Questo è tipico di Luca: le due annunciazioni, l’incontro fra le due madri, le due nascite. Il parallelo ha uno scopo preciso: mostrare la superiorità di Gesù sul Battista. Non potendo commentare tutto il racconto, ci soffermiamo su due punti, che ci sembrano i più salienti, i più originali e tipici per comprendere la visione che Luca ha di Gesù.

Anzitutto, la nascita: Lc 2, 6-20
Il punto centrale del brano si trova nelle parole degli angeli ai pastori (esprimono il senso profondo dell’avvenimento e la fede in Cristo delle prime comunità). Gesù è il salvatore, il Messia, il Signore. Ma ciò che sorprende è l’unione fra il Signore glorioso e il bambino povero, rifiutato, avvolto in fasce e posto nella mangiatoia. Tutto il racconto riflette il motivo della povertà e il motivo della gloria. Ciò è significativo: si delinea la strada del Messia come strada di povertà e si afferma contemporaneamente il profondo legame fra la presenza di Dio e la strada dei poveri: è in una storia di povertà (la storia di Gesù di Nazaret) che si rivela la gloria di Dio ed è ai poveri (i pastori) che essa si rivela.

In secondo luogo il ritrovamento al tempio: Lc 2, 41-52
Il significato centrale dell’episodio è messianico. Gesù compie un gesto profetico, che manifesta la sua natura di Figlio di Dio, la consapevolezza della sua missione, la sua futura separazione dalla famiglia. Egli dice: devo preoccuparmi delle cose del Padre mio. Gesù ha un altro Padre, un’altra casa, un’altra famiglia.
Il vangelo dell’infanzia termina annotando che «essi non compresero»: già prima Luca annotava la meraviglia dei genitori al sentire la profezia di Simeone (2, 33); qui annota, ancora più chiaramente, la loro incomprensione. Il mistero di Gesù è difficile da capire, e comunque lo si capisce man mano che si svolge davanti agli occhi. Neppure Maria capì tutto subito, anch’essa dovette percorrere un viaggio di fede.
Prendendo spunto da quest’ultima osservazione, ricordiamo che nel vangelo dell’infanzia di Luca occupa un posto di privilegio la figura di Maria: non è solo la madre del Cristo, ma la vera discepola, la prima credente, immagine di Israele come avrebbe dovuto essere e della chiesa. La sua fede è continuamente lodata. Così si chiude il racconto della annunciazione: «sono la serva del Signore, avvenga di me, quello che hai detto». Sta qui tutta la fede: accettare la grandezza che ci viene da Dio gratuitamente, e farne un motivo di obbedienza e sottomissione. Subito dopo Maria si mette in viaggio per visitare Elisabetta: è la fede che diventa carità. Infine Maria eleva a Dio una preghiera, che sembra anticipare la preghiera del Padre Nostro: una preghiera che fa leva su Dio e sul suo amore, non su se stessi; una preghiera che passa dal singolare al plurale; una preghiera da poveri, che ringrazia, attende senza pretese, attribuisce tutto a Dio, e intuisce il mistero di Dio che predilige i poveri e abbatte i potenti.

BRUNO MAGGIONI, I Vangeli, ed. Ancora, MI, 1975