L’anti-ideologia delle periferie. Il primo anno di Papa Francesco

https://www.ariberti.it/wp-content/uploads/2014/05/Periferie-Papa-Francesco

Jorge Maria Bergoglio è giunto dalla fine del mondo e insieme dalla fine di un mondo, per dare un nuovo inizio alla vita del mondo. La vita
della Chiesa stava vivendo nell’ora dell’agonia, in un «tempo di povertà», come scriverebbe il poeta Hölderlin, tanto più povero da non
presentire il proprio stato di mancanza come mancanza. Bergoglio è giunto in un tempo di privazione, in cui l’ideologia religiosa prevaleva
sulla fede, in un tempo in cui l’assenza di Dio era contemporaneamente (e paradossalmente) favorevole alla religione. Benedetto XVI aveva
ben compreso, tanto da proclamare il 2013 come anno della fede, l’agonia che il cattolicesimo, soprattutto europeo, stava attraversando. Il
papa emerito aveva infatti ben percepito che la religione stava diventando come una fortezza introvertita, refrattaria ai segni dei tempi, un
gergo per intimi, una compensazione psico-sociale, una realtà povera di spirito e ricolma di risentimenti mondani, troppo mondani. Benedetto
XVI aveva ben compreso che la legittimità ecclesiale all’interno del contesto pluralista e globale del terzo millennio non poteva esser più cosa scontata, che l’autorità stessa del magistero papale – nel tempo dell’evaporazione di ogni altra autorità – poteva venire persino neutralizzata.
Papa Francesco ha avuto la profonda coscienza della povertà del nostro tempo – soprattutto ecclesiale – e ha contemporaneamente sentito
quella forza spirituale necessaria per poter far nascere la chiesa un’altra volta. Il fiato corto romano-curiale, che si riteneva ancora anima
mundi di un impero intoccabile, proprio grazie a una umilissima e fortissima consapevolezza della propria perifericità epocale sembra
farsi improvvisamente respiro universale. Un «buonasera» dalla fine di un mondo ha generato un commovente e profondo arco di ascolto e
di misericordia, autentico ponti-fex dal centro petrino fino alle periferie delle terra, come fondamentale programma pastorale della chiesa
globale. La nuova «primavera» che sta ormai avanzando, suscitando un nuovo interesse e una nuova simpatia nei confronti della Chiesa, ha portato allo scoperto molti elementi di debolezza e di ottusità che vivevano non soltanto nel governo del corpo ecclesiale, ma anche di quello civile, italiano ed europeo. Lo stato drammatico della condizione socio-politica in Italia, unitamente all’amaro sbiadimento di un coraggioso progetto culturale europeo e alla stagnazione di una Chiesa «senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza», hanno trovato nell’elezione papale una sorta di radiografia a contrasto, che ne ha messo in rilievo gli elementi di crisi, di miscredenza, di scarsa speranza e lungimiranza. Nel tempo dell’evaporazione del padre – sia esso familias, patriae o ecclesiae –, papa Bergoglio ha saputo offrire l’immagine di una nuova forma cristiana di vita, a partire dal baricentro geopolitico e simbolico latinoamericano: esso rappresenta in certo modo il nuovo spazio «viscerale»  della Chiesa che fa pulsare il cristianesimo in un altro ritmo e in un nuovo stile, che va non tanto a sostituire quanto a rianimare lo spazio «razionale» della dottrina tradizionale. L’annuncio si dirige convintamente prima alle zone di frontiera che ai centri del governo,
prima alle persone nella loro quotidianità che ai precetti nella loro idealità, prima alla fatica del vivere e poi alla disciplina dell’ammaestrare.
«La questione non è quella di cambiare la dottrina, ma di andare in profondità e far sì che la pastorale tenga conto delle situazioni e di ciò che per le persone è possibile fare». Ciò che conta non è dunque soltanto il presente e il passato della chiesa e dei singoli, ma soprattutto il possibile, affinché si apra un nuovo orizzonte di senso della storia e delle storie per molti. Papa Bergoglio sembra voler realizzare questo
nuovo orientamento soprattutto attraverso una profonda umanizzazione non soltanto della figura papale, ma soprattutto della sfera religiosa, che con lui viene ad assumere tutta la consistenza e la verità che attraversa la vita ordinaria di ogni uomo. Un elemento rivoluzionario – per molti fedeli non sempre semplice da assimilare – è il gesto inaudito che disattiva ogni tendenza alla sacralizzazione indebita, che ridimensiona
ogni idealizzazione ingenua e che laicizza ogni gergalità linguistica: le cose sono nominate per ciò che sono, le persone sono accolte nella loro
verità; le sue vesti non devono essere imperiali, la preghiera non appaia «di cortesia»; i fedeli non devono essere «inamidati» né telecomandati», così come i pastori sono chiamati alla parresia. Grazie a tale santa spontaneità dello stile, la Chiesa si ridesta a una nuova franchezza e a una  umanissima sensibilità, in cui nessuno è costretto a trattenere il respiro e in cui ciascuno si sente come ospite di una ritrovata normalità.  Un anno fa, in una riunione prima del conclave, un intervento del card. Bergoglio si profilava già come illustrazione del suo futuro stile pastorale: «Evangelizzare implica nella Chiesa la “parresia” di uscire da se stessa. La Chiesa è chiamata a uscire da se stessa e andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’indifferenza religiosa, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria. Quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diviene autoreferenziale e allora si ammala. […]

La Chiesa, quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il “mysterium lunae” e dà luogo
a quel male così grave che è la “mondanità spirituale”: quel vivere per darsi gloria gli uni con gli altri». Il destino del suo pontificato è poi iscritto nel nome. «Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!», esclama subito dopo l’elezione, accompagnato dalla benedizione dell’amico
cardinale Hummes. Per papa Francesco «è necessario un tempo di contatto reale con i poveri», perché il cristianesimo diventi effettivamente voce universale per le genti: le periferie geografiche ed esistenziali divengono di conseguenza una categoria teologica, si potrebbe dire la fondamentale autorità per i credenti, a cui ciascuno è chiamato a rispondere, in nome di una nuova, radicale simpatia per l’umanità. «E
quando veniamo giudicati nel giudizio finale (Mt 25) conta la nostra vicinanza con la povertà. La povertà allontana dall’idolatria, apre le porte alla Provvidenza». Bergoglio sembra annunciare ogni giorno che la narrazione cristiana rappresenta l’unica possibilità di una nuova percezione e di un nuovo racconto della fragilità dell’umanità, ossia lo spazio di accoglienza delle infinite e incomparabili storie di sofferenza, di vulnerabilità, di attesa e di speranza dell’uomo contemporaneo. La questione riguarda precisamente la possibilità storica per il cristianesimo di essere ancora una narrazione nuovamente credibile per le donne e gli uomini in un tempo di povertà: di essere cioè un nuovo umanesimo per le genti, una parola reale, un gesto di resurrezione, un saluto cordiale, una radicale prossimità, oltre ogni ideologia e idolatria dell’identità.

Isabella Guanzini

Fonte: http://www.azionecattolicacremona.it/portale/wp-content/uploads/2014/04/Dialogo-marzo-aprile.pdf

Inserisci un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.