Bianchi Luisito, Il centurione del Golgota

Tra una riga e l’altra dell’Evangelo
c’è uno spazio bianco
che può essere occupato dalla tua fantasia,
e anche la fantasia è una cosa seria se non invade le righe.

Recita così la prefazione al libro di don Luisito Bianchi C’era una volta Pasqua al mio paese ed. Gribaudi, 2006. In questo spazio bianco occupato dalla sua fervida e intelligente fantasia prende il via questo bellissimo racconto che ha dato origine alla riflessione di un ritiro quaresimale per adolescenti.


Il centurione del Golgota

Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo, disse:
«Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!».
Marco 15,39

Don Luisito Bianchi
Don Luisito Bianchi

Al termine della messa del giovedì santo, l’arciprete portava l’ostia grande e le particole, che sarebbero servite per la comunione nella “messa secca” del venerdì, all’altare di san Luigi. Noi chierichetti, in sottanina filettata di rosso, cotta e guanti bianchi di bucato, lo precedevamo con sei torce e due turiboli, da far sospirare di commozione le donne e arrotondare gli occhi alle compagne di scuola.

Ma chi ricordava che quell’altare era di san Luigi? Anche in paradiso il santo di noi ragazzi doveva aver chiuso il suo ufficio di raccomandazioni per mancanza di clienti, e ne doveva approfittare per scendere, anonimo, in mezzo alla gente e godersi un po’ d’intimità col Signore davanti a quello che, per tutti gli altri giorni dell’anno, era il suo altare. E sapete perché? Perché i tre angioletti di marmo, che prima allietavano dall’alto la statua del santo con sciami di note, ora, detronizzata la statua in un angolo della sacrestia, soffiavano dalle loro tube una coltre di composti accordi sul sepolcro del Signore, ivi giacente sotto le specie eucaristiche del pane, per sollecitare la compunzione adorante della gente. E davanti al santo sepolcro ancora abitato, anche i santi si precipitano dal paradiso.

La gente diceva: – Andiamo a visitare il santo sepolcro – e vi si inginocchiava davanti come quando era esposto il Santissimo per le Quarantore, con più delicatezza però, giacché aveva a che fare con un morto, che era vivo, certo, ma si adattava ogni anno a farla da morto e a rinchiudersi nel santo sepolcro per darle poi la gioia di vederlo risuscitare.

L’altare diventava una serra, illuminata continuamente da venti candele, dieci per parte del sarcofago di legno dorato, occhieggiante di testine dorate d’angeli adagiate su ventagli d’ali, con due faretti che sembravano da un momento all’altro trapassare il legno per farci vedere Gesù morto, tanto erano potenti.

Fra i giacinti, i tulipani e le margherite, che si aprivano solo per quella occasione, c’erano vasi di steli di frumento, cresciuti intensivamente durante l’inverno nel buio d’una tiepida stanza, perché prendessero il colore del latte e facessero sorpresa allo stesso Signore Dio che mai se lo sarebbe immaginato quando comandò alla terra di produrre frumento.

Ma anche per i giovedì santi passano gli anni; le candele si consumarono, i faretti bruciarono, la serra si ridusse a qualche vasetto e il santo sepolcro, senza che la gente se ne accorgesse, dovette cambiare nome e diventò il luogo della reposizione del santissimo sacramento. Forse fu un bene, perché la gente del mio paese, che tiene il cimitero come se fosse un salotto da ricevimento, poteva scambiare Gesù deposto nel sepolcro, con tutte quelle candele e quei fiori, per il suo morto più illustre, e l’altare di san Luigi per un prolungamento del cimitero.

E tuttavia, i vecchi del mio paese dicono ancora: – Vado a fare una visita al santo sepolcro – ma è perché non ci pensano. Sanno benissimo che il Signore non può più ritornare nel sepolcro, nemmeno se glielo portasse non dico l’arciprete, ma il papa in persona. L’hanno sempre saputo, anche prima del cambiamento del nome.

Certo, borbottarono un poco quando si spensero le candele con tutte le altre novità, ma borbottare per loro è come correre nei campi per un ragazzo, una dimostrazione d’essere vivi. E poi, guardate che finezza i vecchi del mio paese. Per dimostrare che non se ne sono avuti a male perché gli hanno tolto il santo sepolcro in cambio di una reposizione che non sanno bene che cosa sia, hanno continuato a fare crescere, durante l’inverno, nel buio d’una tiepida stanza, gli steli di frumento color latte.

Una meraviglia ancora oggi, che fa soffiare gli angioletti dell’altare di san Luigi nelle loro tube, con la stessa intensità degli anni ormai sepolti assieme al santo sepolcro, per stendere tutt’ora un tappeto di composti accordi sul luogo della reposizione del santissimo sacramento, che non è più il sarcofago dorato ma il tabernacoletto dell’altare. E la meraviglia non è solo nel vedere quegli steli col colore d’una volta, ma anche nell’udirli raccontare storie straordinarie, non appena si fa un po’ di silenzio nel cuore.

Ne ho avuto una prova l’ultimo giovedì santo che andai al mio paese. Non vi descrivo l’altare di san Luigi perché, nonostante capisca che hanno fatto bene a dare un taglio netto col santo sepolcro, fa sempre pena vedere un albero scamozzato quando lo si porta ancora negli occhi con la sua esultanza di foglie e di rami. Ma in compenso, credo per consolarmi, un vasetto di steli di frumento, che sembrava appena sceso dalla soffitta della mia casa di ragazzo, dove tanti anni prima l’avevo curato io stesso per il santo sepolcro, mi raccontò una storia favolosa.

Fissandolo con molta attenzione, i miei occhi s’incrociarono come quando ero ragazzo, e dicevano che era per debolezza di sangue; il vasetto si moltiplicò, si stemperò, e ci fu un gran campo di frumento color latte, sostenuto da una striscia color verde, lo stesso del vaso di terra. Poi gli steli cominciarono a cullarsi dolcemente, mossi forse dal fiato che usciva dalle tube dei tre angioletti, e il loro fruscìo, dolcissimo come può essere solo quello di steli color latte, prese suono di parole altrettanto dolci, che io non vi saprei riportare alla lettera, nemmeno se intingessi la penna nel latte appena munto, ma solo a spanne, come mi capita sempre quando riferisco una storia udita più col cuore che con le orecchie. Eppure vale la pena di sciuparla un poco, nell’incertezza che voi possiate andare al mio paese, un giovedì santo, a udirla direttamente da un vasetto di steli di frumento color latte; e anche perché il centurione della storia chi non lo vorrebbe come un suo antenato di duemila anni fa?

La Crocifissione con la conversione del centurione è un dipinto a olio su tavola (50,8x34,6 cm) di Lucas Cranach il Vecchio, databile al 1536 e conservato nella National Gallery di Washington.
La Crocifissione con la conversione del centurione, olio su tavola (50,8×34,6 cm), Lucas Cranach il Vecchio, 1536, National Gallery di Washington.

“La paga era alta e numerose le occasioni di fare carriera senza correre troppi rischi. E poi avrebbe visto paesi nuovi, dove la sua qualifica di cittadino romano, soldato d’un esercito invincibile, avrebbe imposto a tutti timore e rispetto. Inoltrò, pertanto, domanda per la Giudea, e in pochi mesi si trovò ufficiale nella guarnigione di Gerusalemme.

Al corso per gli ufficiali avevano insistito molto sulla pericolosità del popolo ebraico, e non per l’abilità nell’uso delle armi ché, su questo punto, la sua inettitudine era pari solo al suo smisurato orgoglio per il suo passato di piccola tribù, e un soldato romano valeva più di dieci loro uomini messi insieme, ma per la sua caratteristica di non assomigliare a nessun altro popolo dominato dalle legioni romane. Senza risorse, debole, a volte perfino codardo, aveva tuttavia lo straordinario coraggio di proclamare davanti a tutti la sua fede in un unico Dio. Era qui la sua unicità, e qui il pericolo per un soldato romano. Su questo punto non c’era legione che tenesse; l’unica arma era starsene separati, interessandosi delle loro questioni religiose e dei loro costumi solo quel tanto che bastava per tenerli soggiogati al potere di Roma, come l’esperienza aveva insegnato.

I giovani ufficiali avevano annuito, e nulla più. Quale giovane brillante, educato nella Roma di Ottaviano Augusto, avrebbe dato peso a un pericolo che non venisse dalla forza o dall’abilità strategica degli eserciti?

Adesso, dopo tre anni di guarnigione e con la fresca nomina a centurione, il nostro giovanotto, forte e aitante, si dava arie di veterano. In realtà, però, lo si poteva reputare una recluta perché non si era ancora scontrato col pericolo contro il quale i suoi istruttori l’avevano messo in guardia. Né si ricordò dei loro consigli quando un suo commilitone, di passaggio da Gerusalemme, gli raccontò d’un rabbi che gli aveva guarito un servo con una semplice parola, e pronunciata a distanza per giunta.

– Sarà stato un caso – gli ribattè il giovane collega.

– Se tu lo conoscessi, non parleresti così – gli aveva risposto il commilitone più anziano che, evidentemente, doveva essere uno di quei casi cui si riferivano gli istruttori del corso ufficiali. E aveva aggiunto:

– Se ti capiterà l’occasione, vai a vederlo, ad ascoltarlo. Non hai mai visto né udito un uomo simile. E l’occasione non ti mancherà, sotto le feste della loro pasqua.

Il nostro centurione rise:

– È più facile che la luna si metta a ballare nel cielo che io domani mi ricordi ancora del tuo rabbi. E invece, ancora prima che si facesse giorno, quel rabbi l’aveva visto, in sogno, ma così vivo che non ci poteva essere differenza fra sogno e realtà. Cose che capitano in sogno, cose da donne, si disse. E cercò di dimenticare.

Ma più si sforzava di dimenticare e più quella figura di rabbi gli balzava davanti, soprattutto quando comandava il drappello dei soldati nei paraggi del tempio. Non voleva, ma il suo sguardo era continuamente attratto verso qualche crocchio formatosi attorno a uno che parlava; e ficcava gli occhi sul volto dell’oratore se mai i suoi tratti corrispondessero a quelli visti nel sogno.

Dall’alto del suo cavallo si sentiva forte. Anche se lo vedessi, pensava, che cambierebbe nella mia vita? Nulla. E faceva impennare il cavallo, impressionando i fedeli del tempio a dimostrazione della sua forza e abilità.

Finché un giorno, sotto le feste della loro pasqua, ebbe la certezza che fosse lui. I suoi soldati avevano già messo le mani sulle daghe [Arma bianca, lungo pugnale, spada] e aspettavano un suo ordine. Ma egli rimaneva immobile, al limitare del cortile dei venditori del tempio, affascinato dallo spettacolo. Venditori e cambiavalute fuggivano dal cortile degli affari [Mt 21,12; Mc 11,11, Mc 11,15-19; Lc 19,45-48; Gv 2,13-22], disseminando la loro fuga di voli di colombe e di sonanti monete, gli passavano accanto senza implorare, fatto strano, il suo intervento, e si sperdevano nella folla.

E sul fondo, un uomo, forse della sua stessa età, che, con forza prodigiosa, rovesciava banchi pesanti e faceva sibilare certi colpi di scudiscio da vibrare a lungo nell’aria, aiutato da altri uomini, forse suoi discepoli, impacciati e timorosi all’inizio, e poi sempre più nerboruti e decisi.

Poteva essere l’inizio d’una sommossa? Perché non ordinare ai suoi soldati d’intervenire? Non s’accorgeva del tranello in cui stava cadendo, come era capitato a quel suo collega centurione di Cafarnao? Bastava un suo cenno, e i soldati avrebbero rimesso ordine, arrestato il rabbi, e poi se la vedesse Pilato. Centurione, sta’ attento, si ripeteva, è un popolo pericoloso, non guardare.

Ma continuava a guardare, immobile, dall’alto del suo cavallo. Lo spettacolo era d’una bellezza mai vista, quasi si trattasse dell’apparizione d’un figlio di dèi, e il movimento sembrava una danza capace di trascinare nel suo vortice cavallo e cavaliere.

Poi il cortile tornò quieto, i banchi rovesciati, i venditori fuggiti e il rabbi coi suoi discepoli che s’avvicinava a lenti passi al centurione. I due sguardi s’incontrarono.

– Potevo arrestarti e farti flagellare – gli disse il centurione.

– Non ora – gli rispose Gesù. – Non è ancora giunta la mia ora.

E lo fissò con occhi da forargli l’anima, ma senza violenza, con pace.

Da quel giorno, il centurione anticipava la ronda attorno al tempio per l’inconfessato desiderio di rivedere quel rabbi, di parlargli. Cercava con occhio attento e speranzoso fra la folla il volto che, fin dalla notte del sogno, l’aveva attratto; s’indugiava nelle vicinanze del cortile degli affari dove i venditori avevano ripreso la loro attività come se nulla fosse accaduto, e il suo cuore diventava inquieto a mano a mano che la speranza di rivedere quel volto s’affievoliva. Il centurione ritornava al suo quartiere al termine della ronda, e si buttava sulla branda cogli occhi fissi al soffitto senza dire una parola.

– Che hai? – gli domandavano i commilitoni, e scuotevano la testa sorridendo, per significare: Ci sei caduto, una donna t’ha stregato il cuore.

– Nulla – rispondeva, e lasciava intendere che proprio una donna, come succede prima o poi ai soldati lontano da casa, gli aveva stregato il cuore.

Fu il giorno prima della loro festa di pasqua che seppe dell’arresto di quel rabbi di nome Gesù. Ne fu grandemente turbato. Ma lui che centrava? Era una faccenda da regolarsi fra altri. Doveva dimenticare tutto, riprendere la vita di prima, quando le giornate scorrevano senza troppi pensieri, fra doveri poco pesanti e piaceri poco costosi. Ma come è possibile comandare al cuore?

Il turbamento divenne angoscia all’ordine impartitogli dal comandante della Torre Antonia di provvedere alla flagellazione di quel prigioniero, la più dura possibile, da risparmiargli solo la vita, in modo da ridurlo a uno straccio d’uomo e suscitare la compassione della folla che ne avrebbe invocato la liberazione quando le sarebbe stato presentato dal governatore romano. Così voleva Pilato, e così bisognava agire.

La flagellazione fu terribile. Il centurione, com’era suo dovere: assistette alla scena ma, per la prima volta nella sua carriera di soldato, capiva che brandelli del suo animo schizzavano via a ogni colpo di flagello assieme alla carne del condannato, lasciandovi profonde ferite.

Quante volte gli salì alle labbra l’ordine di cessare quella tortura? Eppure bisognava continuare senza pietà, se quello era il prezzo della liberazione di Gesù. Purché non morisse sotto i flagelli. Ma che gli poteva importare la vita d’uno straniero? La profezia della flagellazione, qualche giorno prima nel cortile del tempio? Un caso, un puro caso, come quello della guarigione del servo del collega di Cafarnao. Avrebbe sentito lo stesso sentimento, si fosse pure trattato d’una persona completamente sconosciuta, soprattutto sapendo che era stata consegnata per invidia, ecco tutto. Roma è severa, non impietosa.

Ma quale forza lo spinse a sollevare il flagellato non appena questi, slegato dalla colonna fumante di rosso sangue, cadde pesantemente a terra? E quale debolezza lo costrinse a chiedergli silenziosamente perdono? Si alzò, col flagellato piegato sulla sua spalla, le mani macchiate di sangue.

– Grazie – sussurrò Gesù.

– Ha avuto un comportamento da re. Vestitelo da re – ordinò ai suoi soldati, e lo adagiò dolcemente su uno sgabello sgangherato che aveva forma di tronetto.

I soldati risero: – Così ci piaci. Per un attimo, guardandoti in volto, pensammo che ti desse di volta il cervello.

Ma il centurione non udì, era fuggito via. Avrebbe voluto scappare in capo al mondo, col peso della sua vergogna e la dolcezza di quel grazie appena mormorato.

Pilato mostrò il flagellato alla folla, certo di poterlo liberare. La folla, come temporale minaccioso, come belva aizzata alla vista del sangue, scoppiò in grida di morte. Pilato cedette.

Ma il sangue di Gesù sulle mani del centurione non cedette né al sapone, né alla liscivia, né ai ripetuti sfregamenti nella sabbia. E il centurione dovette impugnare le redini del suo cavallo per guidare il drappello sul luogo della crocifissione di Gesù con le mani ancora macchiate di quel sangue.

Fu una via della croce anche per lui, e non sapeva rendersene ragione. Avrebbe voluto gridare, rivolto al rabbi che si trascinava sotto il peso del tronco: Perdono, perdono, e, nello stesso tempo, sfoderare la daga, e colpire quella folla urlante, lavarsi le mani rosse del sangue del flagellato in quell’altro sangue, e poi rivolgersela contro il petto e rotolare giù da cavallo fino ai piedi del condannato, e finire lì la sua vita.

Un urlo più forte lo scosse. Si voltò. La folla scherniva il condannato caduto sotto il tronco.

– Colpisci, colpisci – urlò al soldato che scortava Gesù. Ma il soldato non capì, risparmiando i beffeggiatori e picchiando furiosamente in direzione del condannato. Allora il centurione trasse la daga, impennò il cavallo e s’avventò sulla folla. Stava per colpire, quando gli parve che dalle mani colasse sangue vivo. Guardò il condannato. Gesù lo guardò. Il centurione ripose la daga e ordinò al primo uomo che si trovò vicino di portare il tronco. Poi riprese la testa del drappello senza più voltarsi, irrigidito come una statua, con l’animo teso a udire, nel silenzio di dentro che lo stava svuotando, una risposta alla sua richiesta di perdono.

Arrivarono sul luogo dove il tronco sarebbe stato innalzato col crocifisso. Il centurione dava gli ordini senza rendersi conto di cosa capitasse attorno a lui. I martelli picchiavano sui chiodi, la gente gridava, imprecava, i suoi soldati giocavano a dadi, e lui era chino sul suo vuoto ormai totale, attendendo la risposta, nella desolazione di quella terra bruciata, nel rantolo d’una sovrumana agonia.

E la risposta venne in un grido lancinante, mai udito prima dalla gola né di uomini né di animali, che gli riempì il vuoto con l’irruenza d’una piena di torrente. Un grido che non poteva essere d’uomo, ma solo d’un figlio di Dio. Guardò il capo reclinato del crocifisso. L’ultimo raggio di sole, filtrato da valanghe di nubi nere, suggellava le insanguinate labbra del crocifisso e ravvivava d’incandescente porpora le macchie di sangue sulle mani del centurione, che né sapone né liscivia né sabbia erano valsi a cancellare.

Il centurione con quel grido, per pura grazia, aveva ricevuto tutto; non aveva più bisogno d’altra risposta. E allora, per la gioia, per il timore che lo colse – ma in pace –, per la speranza d’un senso della sua vita, per sé, per i suoi soldati, per tutto il mondo, forò la spessa coltre del buio, che ormai avvolgeva ogni cosa, con un altro grido di risposta alla gratuita salvezza che gli aveva reso il cuore nuovo, un grido che ancora oggi illumina il buio d’ogni spaurita recluta del regno di Dio: – Veramente Figlio di Dio sei tu, o mio Signore”.

– E come andò a finire? – mi chiederete.

Il campo di frumento, mentre stava ritirandosi nel vasetto color latte e i miei occhi ritornavano in posizione normale, non volle rispondere a questa domanda che, prima che vostra, era stata mia. Mi disse solo:

– Tu, che avresti fatto?

Lì lì pensai: Avrei portato dentro di me per tutta la vita quei due gridi, ovunque fossi andato; ma ebbi vergogna della presunzione di simile risposta, perché non è facile vivere bilanciati su due gridi, come su due pilastri invisibili d’un lungo ponte, un po’ traballante, gettato su acque non sempre pacifiche, e tacqui.

E siccome anche adesso non avrei altra risposta essendo rimasto un presuntuoso, inventatelo voi il finale della storia, miei giovani amici, che avete testa e cuore più freschi dei miei.


Alcune considerazioni

“Colui che conosce il mistero del Crocefisso
è iniziato a tutti i misteri e al mistero della vita”.
Massimo il Confessore

 

William Congdon, Crocefisso, 2 - 1960
William Congdon, Crocefisso, 2 – 1960

 

La professione di fede del centurione avviene davanti alla croce, meglio di fronte al grido di Gesù sulla croce. Ci saremmo aspettati una manifestazione del riconoscimento del rabbi di Nazaret come Figlio dell’Altissimo dopo la resurrezione. Invece questo attestato avviene di fronte al supplizio. Non è un po’ strano? Ricordiamo e notiamo che gli amici di Gesù, i suoi discepoli, non lo hanno riconosciuto e professato figlio di Dio sul Golgota.

Dunque la croce. Cerchiamo per un attimo di estraniarci, per quanto possibile, da quanto ormai rappresenta per noi, per il mondo in cui viviamo, per la cultura occidentale la croce. Per noi infatti è segno della salvezza che Gesù ha donato a tutti gli uomini. È misura del suo amore. È il segno che contraddistingue i cristiani da millenni. È familiare, ci appartiene. Non ci turba. La croce la portiamo al collo. La vediamo abitualmente nelle nostre case, in chiesa, sulle cime dei monti, nelle aule scolastiche, nei luoghi pubblici ecc…

Ma per il centurione romano cosa rappresentava? Sicuramente la conosceva bene visto la professione che esercitava. Era uno strumento di tortura e condanna a morte. Fucilazione, sedia elettrica, iniezione letale forse ci restituiscono meglio il concetto. Aggiungiamoci la tortura cosa peraltro molto diffusa nelle carceri e nelle stazioni di polizia di tutto il mondo anche ai nostri giorni. (Interessante il discorso di Papa Francesco  alla  delegazione dell’Associazione Internazionale di diritto penale Giovedì, 23 ottobre 2014)

Condanna a morte, dicevo, ma non per tutti. Anzitutto per i cittadini non romani. Pietro e Paolo, ad esempio, vennero martirizzati nel 64 d.c. a Roma durante le persecuzioni di Nerone. Pietro crocifisso (la tradizione lo vuole a testa in giù), Paolo invece decapitato in quanto cittadino romano. Inoltre la croce era applicata ad alcune categorie, in particolare agli schiavi, ai sovversivi e agli stranieri e normalmente veniva preceduta dalla flagellazione, che rendeva questo rito ancora più straziante per il condannato. Cicerone definiva la crocifissione “il supplizio più crudele e più tetro”. Dunque Gesù agli occhi del centurione e non solo ai suoi era un condannato a morte e della “peggior specie”. Nell’antichità, quando il cristianesimo non era ancora affermato e scontato la croce si mostrava ancora in tutta la sua problematicità e drammaticità. Paolo nella lettera ai Corinti  scrive:

22 E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, 23 noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani.” 1 Cor 1,22-23

(Commento di Lidia Maggi a questi versetti)

Credo che sia importante in questo contesto non cadere nella contrapposizione centurione pagano salvato dalla sua professione di fede ed ebrei condannati dalla loro perseveranza nel non accettare Gesù quale Messia e Salvatore (→ Pordenone a Cremona). Più che una contrapposizione pagani-ebrei, dove i primi si convertono e aderiscono alla fede mentre i secondi rimangono “infanti”, ostili, credo possiamo vedere in questa scena un’altra coppia di opposti. Il centurione era curioso, libero, in ricerca, aperto, disposto a mettersi in discussione. Tutto questo in contrapposizione a chi invece è chiuso e ingabbiato nelle proprie certezze. Chi si mette in sincera ricerca e apertura, che è presupposto di accoglienza della rivelazione, e chi invece rimane ingabbiato nelle proprie convinzioni, tradizioni. I suoi amici, i discepoli, lo hanno abbandonato, Pietro rinnegato, Giuda tradito. L’amico non rispondeva alle loro aspettative. Troppo scomodo. Non lo hanno accolto, riconosciuto.

Alcuni esempi tratti direttamente dal Vangelo in cui emerge questa contrapposizione di atteggiamenti.

fariseo e pubblicano Lc 18,9-14 (parabola presente solo in Luca)

9 Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: 10 «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11 Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. 13 Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. 14 Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato».

vedova e ricco al tempio Mc 12,41-44

41 E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. 42 Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. 43 Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44 Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

sacerdote/levita e samaritano Lc 10,25-37

36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 37 Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ lo stesso».

scribi/farisei e donna peccatrice da lapidare Gv 8,1-11

1 Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. 2 Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. 3 Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, 4 gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5 Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». 6 Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. 7 E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». 8 E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9 Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. 10 Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». 11 Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

Vorrei rimarcare un ulteriore aspetto: la solitudine di Gesù elemento sottolineato particolarmente dal Vangelo di Marco 15,39. Gesù sul Golgota è solo. (Interessante a questo proposito l’interpretazione pittorica di William Congdon) Non ci sono gli amici, fuggiti e terrorizzati dagli avvenimenti che hanno sconvolto la vita del loro maestro e la loro. Pensiamo a Pietro che lo ha rinnegato, Giuda che lo ha consegnato ai sacerdoti del tempio. Non ci sono le donne che ritroviamo nel Vangelo di Giovanni e che tanta parte hanno nell’iconografia della croce. Il Vangelo di Luca ci parla del ladrone che si è convertito, qui tutto tace. Non c’è Dio se non sulle labbra e nel grido di Gesù.

Per Marco Cristo in croce è un giusto abbandonato: un tratto questo già precedentemente sottolineato (Mc 14,50.54.56.72). La solitudine è tanto profonda che sulla bocca del Cristo affiora la preghiera del giusto sofferente.

Il Vangelo di Marco infatti mette in bocca a Gesù con un grido lancinante – il grido di cui parlava Don Luisito nel suo racconto – (“gridò con voce forte”) le parole del Salmo 22

“Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Mc 15,347.

Eppure – e questa è l’ultima parola di Marco – la Croce è salvezza, è trionfo. Il velo del tempio si rompe, e il centurione si converte. Un pagano riconosce il Figlio di Dio nella morte, comprende che il vero volto di Dio si rivela nel dono senza riserve. Così Marco ci mostra che egli intende la Passione non solo come un gesto compiuto da Cristo a nostra salvezza, ma anche come un gesto che rivela il volto vero e profondo di Dio.

1 Or prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta per lui l’ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.

(Gv13,1; Mt 26,19-20; Mc 14,17; Lc 22,14-18, 24-27; Mc 10,35-45)

Binomio morte-amore. La scrittura ci aiuta a comprendere questo. Un amore forte come la morte ci viene detto nel Cantico dei Cantici, Gesù ci propone una morte che mostra un amore forte.

Mettimi come sigillo sul tuo cuore, / come sigillo sul tuo braccio; / perché forte come la morte è l’amore, / tenace come gli inferi è la passione: / le sue vampe son vampe di fuoco, / una fiamma del Signore!

Cantico dei Cantici 8,6

Gesù non ha imposto il suo discorso ma l’ha proposto, l’ha affidato ad rischio della libertà dell’uomo, ha voluto correre il rischio del rifiuto. Perché l’amore risponde a questa logica, quella della libertà dell’altro, del non possesso.


Conclusione

Alcune domande al termine di questa riflessione.

Riprendo la conclusione di don Luisito:

– Tu, che avresti fatto?

Lì lì pensai: Avrei portato dentro di me per tutta la vita quei due gridi, ovunque fossi andato; ma ebbi vergogna della presunzione di simile risposta, perché non è facile vivere bilanciati su due gridi, come su due pilastri invisibili d’un lungo ponte, un po’ traballante, gettato su acque non sempre pacifiche, e tacqui.

E siccome anche adesso non avrei altra risposta essendo rimasto un presuntuoso, inventatelo voi il finale della storia, miei giovani amici, che avete testa e cuore più freschi dei miei.

Per la riflessione in gruppi e/o personale:

  • Ha senso (è significativo, dice qualcosa, ci parla, ci interpella) per noi questo messaggio di Gesù? Un amore e un dono totale:

    “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” Gv 13,1

  • Ha senso (è significativo, dice qualcosa, ci parla, ci interpella) per noi oggi dire che Gesù ha donato la sua vita per noi e ci ha mostrato il suo volto di amore/dono? È una formula rituale, vuota? Gesù dice che ama i suoi amici e li ama fino in fondo: noi di che amicizia siamo capaci nei confronti dei nostri amici, delle persone che ci stanno accanto?
  • Gesù ci considera amici. Amici speciali, per i quali spendersi totalmente, così ha fatto Lui. Per noi che amico è Gesù?
  • Non si tratta solo di un impegno personale, di buona volontà. In una società che ha fatto della concorrenza e della competizione la logica imperante nelle relazioni personali, sociali ed economiche, cosa può significare il messaggio della croce-amore-donazione?
  • Un amore che va oltre il nostro gruppo? Anche verso quelli che nel gruppo di whatsapp non ci sono? Che magari non vogliamo? Che il gruppo non vuole?
  • Chi sono nella nostra società coloro che vengono “crocifissi”? Da chi? Perché?
  • San Paolo nella lettera alla comunità cristiana di Corinto parlava della croce che era vista come pazzia per chi non era ebreo (pagano-straniero) e scandalo per i giudei…e per noi?

    22 I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza, 23 ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri pazzia;”
    1 Corinzi 1,22-23

  • Giovanni nella sua lettera (1 Gv 4) scrive:

    14 Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. 15 Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna.”

    Quali esperienze concrete di amore, di dedizione, di impegno concreto per gli altri siamo impegnati a vivere sia personalmente sia come gruppo di oratorio o di AC?

  • Guardiamo questa intervista. Credo che mostri con semplicità ma con estrema chiarezza l’amore di Gesù di cui abbiamo parlato.

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