Quel che accadde dopo Betlemme: una versione armena

Storia meravigliosa e insolita dei tre Re Magi

di GEMINELLO ALVI

Gasparre era nero e robusto come i duri tronchi odorosi della foresta”. E quel manoscritto armeno, che Giovanni CrisostomoLink esterno

Gentile da Fabriano, Adorazione dei magi
Gentile da Fabriano, Adorazione dei magi

non prese sul serio, (P.G. LVI), pretende pure ch’egli “con un braccio avesse la forza di sollevare un cammello”. Ma anche lui obbedì al sogno, e il giorno dopo la prima epifania fuggì da Betlemme, assieme a Melchiorre, bianco e “coi capelli colore di zolfo” e a Balthasar, mago e re degli arabi. Perché altrimenti Erode li avrebbe uccisi. Non rifecero la strada dell’andata. Passarono per Beersheba, per poi girare ad Oriente attraverso la terra di Moab. E così per due mesi sui cammelli, varcarono fiumi e deserti. Era in loro, scrive Jelme l’armeno, “la vastità del cielo di quella notte che faceva ruotare nel loro cuore le armonie dei pianeti e delle stelle”. Ed andavano così, storditi, da quello che avevano visto in terra e in cielo. Secondo i maghi dei Farsi, chiunque nasca in terra ha il suo doppio in cielo. Ma mai prima nessuno dei tre re magi aveva visto un cielo tanto pieno di pace come sopra il bambino di Betlemme. Esso “aveva scavato il loro torace come una miniera e l’aveva lasciati nell’ abisso, accecati di luce”. Dopo tre mesi e tre notti arrivarono all’Eufrate, dove si separarono. Melchiorre andò a Nord, Balthasar ad Occidente; il terzo re Gasparre mosse la sua carovana verso Oriente.

Occorsero altri sette mesi perché il re nero, arrivasse coi suoi a quel fiume Indo dov’ era il suo regno; e dove ritrovò i suoi figli, le mogli e i suoi fidi. Vi regnò con saggezza per altri dieci anni. Finché all’undicesimo anno, Larvanbad, feroce re del Turan, invase il suo regno e gli dichiarò guerra. L’elefante di Gasparre in battaglia aveva le unghie ricoperte di avorio, e redini di seta ed oro. Sopra di lui Gasparre guidò la carica del suo esercito. Sentì l’ebbrezza del coraggio. E al tramonto quando emerse con la spada da una collina di lance e di cadaveri, i suoi capitani gli dissero che l’esercito nemico era vinto, e Larvanbad in catene. Era costui orrendo nel suo viso purulento e nato da una strega, malvagio e infido come lo scorpione. E muoveva la testa a scatti come un insetto urlando, mentre il boia si preparava a tagliargliela. Il re Gasparre, ancora più alto sul suo trono, tuttavia, senza il ribrezzo degli altri, l’osservava. Fu la stanchezza di tanto sangue, oppure un arbitrio che il nero re si prese, o fu, come scrive la cronaca armena, l’inattesa memoria della notte d’undici anni prima? Gasparre contro ogni ragione graziò Larvanbad. Ma, come se lo sapesse prima, il re di Turan, rise e saltò a cavallo. Riarmò un altro più potente esercito. E neppure la forza di Gasparre bastò stavolta a vincerlo. Gasparre, vide in catene i figli e torturati i suoi fidi, e il suo regno perduto. Da solo senza più un braccio fuggì a cavallo verso Occidente e non si fermò prima d’ aver raggiunto la Arabia dove regnava Balthasar. E dove restò suo ospite ben undici anni.

Balthasar era re e mago. Le sue arti potevano spostare i castelli e le montagne dove riposavano i castelli. Nei riflessi verdi del fondo mare arabico persino i pesci gli obbedivano. Il suo regno abbondava di fonti e le fonti del suo palazzo colavano un’acqua che risanava ogni male e faceva rifiorire di palme e siepi odorose il deserto. Ma per tanta armonia, v’era una legge da obbedire. Tante magie gli erano state concesse da suo padre il mago Gushnasaph in cambio d’ un giuramento. “Prometti” pretese il padre “che mai userai la magia che io ti concedo per vedere il tuo angelo”. Balthasar promise. Ma una notte non resistette. Disegnò un pentagramma, si circondò d’un cerchio, evocò, nel buio senza luna, il nome del suo angelo. Apparve una giovane che aveva gli occhi color turchese, capelli neri come la seta della Cina e braccia bianche come ali di colomba. Se ne lasciò abbracciare. Le s’addormentò accanto. Riunito in amore alla sua anima. Jelme l’armeno commenta che solo “Adamo ed Eva s’abbracciarono come loro nel sonno”. L’indomani si svegliò. L’angelo era scomparso. Il suo castello non era più sul golfo del mare d’Arabia, ma su una brulla montagna. I pesci si ribellarono ai pescatori del suo regno e non si fecero più pescare, tutte le fonti non diedero più acqua. Il regno d’Arabia insorse contro Balthasar e nominò re il suo visir. Balthasar e Gasparre, unico suo amico rimasto dovettero fuggire. Diressero verso la stella dell’Orsa, a settentrione dove ancora regnava Melchiorre.

Il regno di Melchiorre era prospero. Abbondava di terre feraci, e schiavi. Non v’erano guerre, i nobili del regno avevano tutti quanto potevano desiderare, e il ventre della terra offriva i suoi frutti e tutto abbondava. Ma almeno una volta all’anno Melchiorre doveva prestarsi a una certa prova. Sul piatto di un’enorme bilancia veniva accumulato tutto l’oro pagato dai suoi sudditi in tasse, e lui doveva salire sull’altro piatto e col suo solo peso mettere in equilibrio i due piatti. La meraviglia inspiegabile gli riusciva ogni volta e ogni volta un settimo dell’oro era donato ai poveri. Anche quell’anno il piatto della bilancia fu colmato da un cumulo enorme, e Melchiorre salì sull’altro piatto. Ma restò in alto. I due piatti non si equilibrarono. Il piatto con l’oro non s’abbassò di un’unghia, neppure quando con lui salirono Balthasar e Gasparre. Dal miracolo mancato i nobili dedussero che Melchiorre non era più re per grazia divina. Gli si rivoltarono contro e lo maledissero. E i poveri? I poveri, dice il melanconico papiro armeno, non difesero il re dai nobili.

E così anche Melchiorre fu cacciato dal suo regno e con lui Balthasar e Gasparre. Vagarono mendicanti per le montagne e mari del non si sa dove. E così girerebbero miserrimi ancora; se una notte non avessero rivisto la stella di trentatré anni prima. La seguirono e arrivarono davanti a un deserto. Vi si inoltrarono senz’acqua; ma al centro d’ esso c’era un lago, e dal lago s’ ergeva un castello. Melchiorre ne aprì la porta, ed essa divenne tutta d’oro, sorrise e morì. Ma dove morì crebbe un albero sempreverde. Fu Baldassare che poi salì le grandi scale del castello e in cima ad esse vide la giovane che l’aveva una volta abbracciato. Assieme per magia i loro corpi si confusero in acqua, e divennero una fonte. Restò solo l’infantile Gasparre che dei tre re era il più giovane. Con un braccio sotto l’albero pescò i pesci che erano nella fonte. Pesci che non muoiono, e volano anzi come uccelli. Dalle mura del castello, “li fece piovere pure sull’ apostolo Tommaso”. E in quel castello di pesci santi e volanti, Gasparre è restato ancora a pescare: parla degli altri due re magi, e sempre racconta a memoria la loro storia.

La Repubblica, 5-1-2000, Pagina 36