Guareschi Giovanni, La favola di Natale

«L’anno venturo non voglio che succeda come quest’anno», si dice ogni volta. «L’anno venturo prepareremo ogni cosa in tempo».
Ma, ogni volta, il Natale ci coglie di sorpresa e noi dobbiamo rimediare a tutto in fretta e furia e alla bell’e meglio. Ma, ogni volta, il Natale ci porta una nuova favola da raccontare a noi stessi per consolarci del Natale che ci è sfuggito ed è caduto nell’abisso del tempo assieme a un altro degli anni che Dio ci ha concesso.

* * *

«Sparecchia» disse Margherita alla Giacometta.
Ma la Pasionaria intervenne:
«No» affermò «non si deve sparecchiare.»
Margherita la guardò perplessa: «Che novità sono queste?» domandò.
«Non sono novità» spiegò la Pasionaria. «Qui usa che, la sera della Vigilia di Natale, non si sparecchia. Nessuno sparecchia in casa delle mie compagne. Lasciano sulla tavola la tovaglia con una micca di pane.»
«E a che cosa serve questo?» si stupì Margherita.
«Serve che, di notte, quando tutti dormono, vengono i morti e si siedono a tavola.»
Margherita scosse il capo: «I morti non hanno bisogno di mangiare.»
«Non ho mica detto che i morti mangiano il pane!» replicò risentita la Pasionaria. «Lo toccano soltanto, il pane. E allora il pane lo si mette via e dura un anno intero perché non ammuffisce più.»
«Sciocchezze!» commentò Margherita.
«Non sono sciocchezze» le rispose la Pasionaria gravemente.
Margherita si spazientì: «È mai possibile» esclamò «che i bambini debbano prestar fede soltanto a queste favole sui morti che poi li impressionano?»
«Me non mi impressiono» precisò la Pasionaria. «Non vengono mica dei morti forestieri. Vengono i nonni. Anche loro devono fare festa per Natale.»
La Giacometta, intanto, aveva ripulito la tovaglia dalle briciole assestandola con cura. Poi aveva posto al centro della tavola un piatto con una micca di pane.
Passammo in tinello dove era l’Albero di Natale e ci sedemmo davanti al fuoco del caminetto.
I bambini davano gli ultimi tocchi al loro Presepe, in attesa della mezzanotte. Allora avrebbero accese le lampadine e avrebbero messo nella capanna il Bambinello.
Si sentì scoccare la mezzanotte all’orologio del campanile e il Presepe si illuminò e si accesero le cento lampadine dell’albero, mentre Albertino, appressatosi al radiogrammofono, dava il via al disco d’una “pastorale”,
I bambini rimasero lì a rimirarsi incantati il loro Presepe, poi, quando non ne poterono più, andarono a letto a sognarselo.

Giovannino Guareschi
Giovannino Guareschi

Margherita ruppe alfine il silenzio: «Strana usanza» osservò «questa di lasciare la tavola apparecchiata.»
«Più che strana è gentile e piena di poesia» replicai. «Che poi i morti vengano o non vengano non ha importanza: importantissimo è, invece, il fatto di ricordarsi di loro particolarmente nelle ricorrenze più liete.»
Margherita alzò il capo: «Giovannino, dicendo “vengano o non vengano” tu intendi ammettere che i morti possano venire?»
«No, Margherita, non solo non lo ammetto, ma lo escludo. Però mi fa piacere pensare che essi possano venire.»
Margherita rabbrividì: «Giovannino, ho paura.»
«E perché? Tua figlia te l’ha spiegato chiaramente: si tratta dei nonni, non di morti estranei.»
Entrò la Giacometta e domandò se avevamo bisogno di qualcosa.
«No, vai pure a letto» le rispose Margherita.
Rimanemmo soli e io spensi la luce perché, quando si è davanti al fuoco, la luce dà fastidio. Spensi anche le luci dell’albero e lasciai soltanto quelle del Presepe.
«La storia del pane che poi non ammuffisce più» disse a un tratto Margherita «è inverosimile.»
«Lo vedremo» risposi. «Comunque, è un particolare che serve per dare ancora maggiore poesia alla faccenda.»
Quante cose straordinarie si possono vedere guardando con occhio attento le fiamme del caminetto.
Suonò l’una all’orologio del campanile. E, poco dopo, Amleto abbaiò.
Amleto, come tutti i bravi cani da guardia, abbaia solo quando è opportuno abbaiare e abbaia nel modo più adatto alla circostanza.
Sì che è assai agevole distinguere la segnalazione di eventuale pericolo lontano fatta per dovere d’ufficio, dalla segnalazione di probabile pericolo vicino e dall’abbaiare minaccioso e perentorio in fun­zione di “alto là!”. Amleto stava dando l’alto là a qualcuno che s’era avvicinato troppo al cancello dell’aia: Margherita sbarrò gli occhi:
«Giovannino» ansimò «che siano loro?»
«Ma no, Margherita. Non senti in che modo abbaia? Si tratta di estranei.»
«Non li ha mai visti: sono estranei per lui.
«E cosa vuoi che possa vedere?»
Sentimmo passare per la strada gente che chiacchierava e Amleto smise di abbaiare.
«Si vede che s’erano fermati un momentino davanti al cancello» spiegai.
Margherita si tranquillizzò.
«Ho sete» disse Margherita. E io mi alzai per andare a prendere un po’ d’acqua in cucina ma le dita di Margherita si aggrapparono alla mia giacca e mi tirarono giù.
«Resta» esclamò Margherita. «Non ho più sete.»
«Il fatto è che adesso ho sete io.»
«Da sola non ci rimango neanche un minuto, qui» affermò Margherita.
«In questo caso non ci resta che andare in cucina assieme.»
Titubò parecchio e, se la paura la teneva inchiodata alla poltrona, la curiosità la stiracchiava per indurla ad alzarsi.
Si alzò e mi si affiancò.
Uscimmo dal tinello semibuio, traversammo il piccolo corridoio buio e ci arrestammo davanti all’uscio di cucina. Dopo qualche istante d’esitazione, spalancai l’uscio. La cucina era illuminata soltanto dalla minuscola lampadina-spia del bruciatore di nafta che ronzava in cantina, e vedemmo il grande rettangolo candido della tovaglia, col piatto del pane nel bel mezzo.
Accendemmo la luce grossa ed entrammo.
Mentre io aprivo la credenza per procurarmi i bicchieri, Margherita studiava attentamente la tovaglia e il piatto del pane.
Quando tornai dalla dispensa con la bottiglia dell’acqua minerale, trovai Margherita a capo della tavola. Presi posto vicino a lei.
«Spegni la lampada grossa e lascia solo il lumino della spia» sussurrò Margherita.
Rimanemmo lì, seduti nella penombra, e Margherita s’era aggrappata al mio braccio come se stesse per annegare.

«Pensa» sussurrò d’un tratto Margherita. «Pensa, Giovannino se adesso ce li trovassimo lì davanti!»
«Va bene» le risposi. «Io ci penserò: però devi pensarci anche tu.»
Margherita ci pensò tanto intensamente che, dopo cinque minuti, abbandonato il mio braccio reclinò il capo sulla tovaglia e si addormentò.
Mi addormentai anche io e dormii esattamente fino a quando la pendola scoccò le ore due.
Allora alzai il capo e c’erano tutti, seduti attorno alla tavola.
Stavano guardandoci dormire e sorridevano.
Allungai una mano per svegliare Margherita ed essi mi fecero cenno che la lasciassi dormire.
Levarono gli occhi da noi e si guardarono attorno: mio padre mi indicò le due grosse travi di rovere del soffitto e fece segno di sì con la testa. Roba solida, massiccia: aveva sempre seguito quel concetto, nel fabbricare.
Anche il padre di Margherita, che da vivo era falegname, fece segno di sì con la testa: si trattava di due travi veramente in gamba.
Suonò il quarto d’ora, all’orologio della torre: allora tutti e quattro toccarono il pane, si alzarono e se ne andarono.
Mi rimisi a dormire con la testa appoggiata sulla tavola.
Ci svegliò, alle otto del mattino, la Giacometta: io, subito, presi il piatto col pane e lo riposi nella cristalliera del buffet.
« Adesso puoi sparecchiare» dissi alla Giacometta.
«Che strani sogni si fanno quando ci si addormenta così spiegazzati» osservò Margherita.
«Puoi andare a farne dei normali a letto» le risposi.
Margherita scosse il capo: «Cosa c’è di più triste e malinconico della normalità?» «disse con voce lontana alzandosi per aiutare la Giacometta a ripiegare la tovaglia.
Non era il caso di risponderle e guardai compiaciuto le travi di rovere del soffitto che io avevo voluto così grosse e massicce.

Guareschi Giovanni, La favola di Natale

 

Fonte: Corrierino delle famiglie, da Candido n. 52, 27 dicembre 1953, pag. 15, per gentile concessione di Alberto e Carlotta Guareschi


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