Faenza Roberto, Anita B.

Trama

Anita è appena sedicenne quando esce da Auschwitz e va incontro a un nuovo mondo piena di entusiasmo. Presto si troverà al centro di una burrascosa storia d’amore, che diventerà per lei occasione di ribellione e rinascita. Il film è tratto dal romanzo di Edith Bruck “Quanta stella c’è nel cielo“.

Quanta goccia c’è nell’oceano?
Quanta stella c’è nel cielo?
Quanto capello sulla testa dell’uomo?
E quanto male nel cuore?
Sándor Petöfi


Recensione


Intervista al regista Roberto Faenza

Roberto Faenza: “Il mio nuovo film per raccontare il dopo-Olocausto”
Il regista: si ispira alla storia narrata
da Edith Bruck in “Quanta stella c’è nel cielo”

ALAIN ELKANN
Il 16 Gennaio uscirà in Italia e il 27 gennaio – il Giorno della memoria – verrà presentato al museo di Yad Vashem a Gerusalemme «Anita B.», il nuovo film del regista italiano Roberto Faenza.

Di che cosa parla questo film?
«È un film ispirato alla storia di Edith Bruck che la stessa scrittrice narra nel suo racconto “Quanta stella c’è nel cielo”, pubblicato da Garzanti due anni fa. È la storia di una ragazzina di 16 anni (nel film interpretata da Elina Powell) che esce da Auschwitz, dove ha visto morire i suoi genitori. Esce piena di entusiasmo e voglia di vivere e viene mandata dalla Croce Rossa a casa di sua zia, unica parente sopravvissuta che vive con il marito e un bellissimo giovane (nel film Robert Sheenan). Si tratta del cognato di questa zia, fratello del marito, che comincia a insidiare la ragazza, giovane, sprovveduta e ingenua, che se ne innamora perdutamente. L’aspetto sorprendente della storia, però, sarà l’ostilità che troverà in tutti i suoi parenti. La zia per prima le vieta di parlare del campo di concentramento e di come è stata tenuta in prigionia. Nessuno vuole sentire raccontare la sua storia e lei ne parla soltanto con un bambino di un anno, che ovviamente non può capire e che ride quando lei racconta».

Che cos’altro succede in questa storia?
«La ragazza si innamora e rimane incinta, ma lui la porta a Praga per abortire. La porta da un medico cattolico e lì vi sarà un colpo di scena che non posso raccontare… Ma la vera novità del film sta nel conflitto tra il bisogno di dimenticare e il bisogno di ricordare».

Questo fenomeno del bisogno di dimenticare/ricordare si è riprodotto anche nel nascente Stato di Israele dove i sionisti non erano certo teneri con i sopravvissuti dell’Olocausto…
«Infatti, questo fenomeno non riguarda solo l’Olocausto. Ricordo per esempio una scena molto bella in “Napoli milionaria” di Eduardo De Filippo. Quando, reduce dalla seconda guerra mondiale, nessuno vuole ascoltare i suoi racconti drammatici, mentre chi era tornato dalla prima guerra mondiale era stato accolto a braccia aperte».

Questo film è molto diverso dal suo precedente lavoro «Jona che visse nella balena».
«Sì, è diverso. Nel cinema forse si è trattato addirittura troppo l’Olocausto, e quasi nessuno ha affrontato il dopo-Olocausto. Per esempio Primo Levi nel suo romanzo “La tregua” racconta il viaggio di ritorno dal Campo ma non ci dice quello che è successo dopo. Noi nel film affrontiamo gli anni dopo. Io ho girato due film sull’argomento, Jona ha sette anni quando esce, Anita ne ha 16. La cosa singolare è che questi ragazzi hanno raccontato la vicenda cinquant’anni dopo. È singolare che abbiano aspettato tanti anni».

Perché ha deciso di girare il film in inglese?
«Perché è la storia di una grande riscossa, di una ragazzina che in un ambiente di ostilità totale nei suoi confronti alla fine ce la fa. Secondo me è importante, per noi che ci lamentiamo sempre, confrontarci con qualcuno che ha veramente visto l’inferno e può darci una lezione di vita. Insomma, è davvero un discorso universale».

Cosa pensa del fatto che ci sono ancora negazionisti dell’Olocausto?
«Penso che non ci credano fino in fondo e che sia pura propaganda per farsi notare e avere qualche articolo di giornale. Nessuna persona che non sia completamente folle può negare questa realtà».

Secondo lei la letteratura, il cinema, l’arte servono per non far dimenticare?
«Walt Disney ha dato la risposta più bella. A un giornalista che gli chiedeva, durante la seconda guerra mondiale, come mai facesse dei documentari contro i nazisti lui ha risposto: “Si crede che il cinema sia soltanto evasione, invece è anche qualcosa d’altro”».

E vero che lei ha pianto leggendo il libro della Bruck?
«Sì, questa storia mi ha sconvolto, ricordo che ero in aereo e stavo tornando a Roma dal Giappone. Ho appreso di essere ebreo verso i sedici anni al liceo. I miei genitori non me lo avevano detto perché volevano proteggermi. Sono nato in una cantina a Torino nel 1943 e Primo Levi era un cugino di secondo grado di mia madre. Mi hanno battezzato per proteggermi, ma ora sono ateo».

È difficile essere ebreo?
«Purtroppo le minoranze sono sempre viste con sospetto, come un qualcosa di diverso. Non riesco ad accettare i cristiani che non si sentono anche ebrei. Gesù non avrebbe mai concepito che i suoi seguaci potessero non essere ebrei. Quando dicevo a scuola che il Cristo era ebreo, c’era un mio insegnante, un fratello delle scuole cristiane, che diceva: “Faenza, vada fuori di qua” e mi mandava in corridoio. Era il 1953, allora i ragazzi non sapevano niente».

Fonte: La Stampa


Nello speciale di RPrima dedicato ad film Anita B., parla Edith Bruck, 82 anni. E’ la scrittrice di origine ungherese scampata ad Auschwitz che ha ispirato il regista Roberto Faenza con il suo Quanta stella c’è nel cielo. Libro in parte autobiografico. Conduce Laura Pertici

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