2001 – Il popolo ebraico e le sue Sacre scritture nella Bibbia cristiana

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

IL POPOLO EBRAICO
E LE SUE SACRE SCRITTURE
NELLA BIBBIA CRISTIANA

INDICE

PREFAZIONE del Cardinal Joseph Ratzinger

INTRODUZIONE (1)

I. LE SACRE SCRITTURE DEL POPOLO EBRAICO PARTE FONDAMENTALE DELLA BIBBIA CRISTIANA (2-18)

A. Il Nuovo Testamento riconosce l’autorità delle sacre Scritture del popolo ebraico (3-5)

B. Il Nuovo Testamento attesta la propria conformità alle Scritture del popolo ebraico (6-8)

C. Scrittura e tradizione orale nel giudaismo e nel cristianesimo (9-11)

D. Metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento (12-15)

E. L’estensione del canone delle Scritture (16-18)

II. TEMI FONDAMENTALI DELLE SCRITTURE DEL POPOLO EBRAICO E LORO ACCOGLIENZA NELLA FEDE IN CRISTO (19-65)

A. Comprensione cristiana dei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento (19-22)

B. Temi comuni fondamentali (23-63)

C. Conclusione (64-65)

III. GLI EBREI NEL NUOVO TESTAMENTO (66-83)

A. Punti di vista diversi nel giudaismo postesilico (66-69)

B. Gli ebrei nei vangeli e negli Atti degli apostoli (70-78)

C. Gli ebrei nelle lettere di Paolo e in altri scritti del Nuovo Testamento (79-83)

IV. CONCLUSIONI (84-87)

A. Conclusione generale (84-85)

B. Orientamenti pastorali (86-87)

NOTE


PREFAZIONE
Nella teologia dei Padri della Chiesa la questione dell’unità interiore dell’unica Bibbia della Chiesa composta di Antico e Nuovo Testamento era un tema centrale. Che questo non fosse certamente solo un problema teorico, lo si può percepire quasi con mano nell’itinerario spirituale di uno dei più grandi maestri della cristianità — Sant’Agostino d’Ippona. Agostino come diciannovenne nell’anno 373 aveva avuto una prima profonda esperienza di conversione. La lettura di un libro di Cicerone — l’opera andata perduta « Hortensius » — aveva operato in lui una profonda trasformazione, che egli stesso retrospettivamente così descrive: « Orientò verso di te, Signore, le mie preghiere… cominciai a rialzarmi per tornare a te… Come ardevo, mio Dio, come ardevo, dal desiderio di abbandonare le cose terrene e di levare il volo verso te » (Conf. III 4, 7-8). Per il giovane africano, che come fanciullo aveva ricevuto il sale, che lo rendeva catecumeno, era chiaro che la svolta verso Dio doveva essere una svolta verso Cristo, che senza Cristo egli non poteva trovare veramente Dio. Così egli passò da Cicerone alla Bibbia e sperimentò una terribile delusione: nelle difficili determinazioni giuridiche dell’Antico Testamento, nei suoi intricati e talvolta anche crudeli racconti egli non poteva riconoscere la sapienza, alla quale voleva aprirsi. Nella sua ricerca si imbatté così in persone, che annunciavano un nuovo cristianesimo spirituale — un cristianesimo, nel quale si disprezzava l’Antico Testamento come non spirituale e ripugnante; un cristianesimo, il cui Cristo non aveva bisogno della testimonianza dei profeti ebraici. Queste persone promettevano un cristianesimo della semplice e pura ragione, un cristianesimo nel quale Cristo era il grande illuminato, che conduceva gli uomini ad una vera autoconoscenza. Erano i manichei.1

La grande promessa dei manichei si dimostrò ingannevole, ma il problema non era per questo risolto. Al cristianesimo della Chiesa cattolica Agostino poté convertirsi solo quando, per mezzo di Sant’Ambrogio, ebbe imparato a conoscere un’interpretazione dell’Antico Testamento, che rendeva trasparente nella direzione di Cristo la Bibbia di Israele e così rendeva visibile in essa la luce della sapienza ricercata. Così fu superato non solo lo scandalo esteriore della forma letteraria insoddisfacente della Bibbia « vetus latina », ma soprattutto lo scandalo interiore di un libro, che si manifestava ora più che come documento della storia della fede di un determinato popolo, con tutti i suoi disordini ed errori, come voce di una sapienza proveniente da Dio e che concerneva tutti. Una tale lettura della Bibbia di Israele, che riconosceva nelle sue vie storiche la trasparenza di Cristo e così la trasparenza del Logos, dell’eterna sapienza stessa, non fu fondamentale solo per la decisione di fede di Agostino: essa fu e rimane il fondamento della decisione di fede nella Chiesa nel suo insieme.

Ma è vera? È ancora oggi giustificabile e realizzabile? Dal punto di vista della esegesi storico-critica — almeno a prima vista — tutto sembra argomentare contro. Così si è espresso nel 1920 l’eminente teologo liberale Adolf von Harnack: « Rifiutare l’Antico Testamento nel secondo secolo (allude a Marcione) fu un errore, che la grande Chiesa giustamente ha respinto; conservarlo nel 16o secolo fu un destino, al quale la Riforma ancora non poté sottrarsi; conservarlo però ancora nel protestantesimo a partire dal 19° secolo, come documento canonico, dello stesso valore del Nuovo Testamento, è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiale ».2

Ha ragione Harnack? A prima vista molti elementi sembrano dargli ragione. Se l’esegesi di Ambrogio aprì la via verso la Chiesa per Agostino e divenne nel suo orientamento di fondo — anche se nei particolari naturalmente del tutto variabile — il fondamento della fede nella Parola di Dio della Bibbia bipartita ma pur sempre unitaria, si può subito così controbattere: Ambrogio aveva imparato questa esegesi nella scuola di Origene, che l’ha praticata per primo in modo coerente. Ma Origene — così si dice — in proposito avrebbe solo trasportato nella Bibbia metodi di interpretazione allegorica usati nel mondo greco per gli scritti religiosi dell’antichità — soprattutto Omero, quindi non solo avrebbe realizzato un’ellenizzazione profondamente estranea alla parola biblica, ma si sarebbe servito di un metodo, che in se stesso era privo di credibilità, poiché mirante in definitiva a conservare come sacrale ciò che in realtà rappresentava la testimonianza di una cultura non più attualizzabile. Ma le cose non sono così semplici. Origene ancor più che sull’esegesi di Omero da parte dei greci poteva fondarsi sull’esegesi dell’Antico Testamento, che era nata in ambito giudaico, sopratutto in Alessandria e con Filone come capofila, e che in un modo del tutto proprio cercava di dischiudere la Bibbia di Israele ai greci, i quali ben al di là degli dei cercavano l’unico Dio, che potevano trovare nella Bibbia. Egli inoltre ha imparato dai rabbini. Infine egli ha elaborato principi cristiani del tutto specifici: l’interiore unità della Bibbia come criterio di interpretazione, Cristo come punto di riferimento di tutte le vie dell’Antico Testamento.3

Ma prescindendo dal giudizio che si voglia dare sui particolari dell’esegesi di Origene e di Ambrogio, il suo fondamento ultimo non era né l’allegoresi greca né Filone né i metodi rabbinici. Il suo vero fondamento — al di là dei particolari dell’interpretazione — era il Nuovo Testamento stesso. Gesù di Nazareth ha avanzato la pretesa di essere il vero erede dell’Antico Testamento — della « Scrittura » — e di darle l’interpretazione definitiva, interpretazione certamente non alla maniera degli scribi, ma per l’autorità dell’autore stesso: « Egli insegnava come uno che ha autorità (divina), non come gli scribi » (Mc 1,22). Il racconto dei discepoli di Emmaus riassume ancora una volta questa pretesa: « E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui » (Lc 24,27). Gli autori del Nuovo Testamento hanno cercato di fondare questa pretesa nei particolari, sopratutto Matteo, ma non meno Paolo, il quale utilizzò in proposito i metodi di interpretazione rabbinici e cercò di mostrare che proprio questa forma di interpretazione sviluppata dagli scribi conduce a Cristo come chiave delle « Scritture ». Per gli autori ed i fondatori del Nuovo Testamento l’Antico Testamento è anzi molto semplicemente la « Scrittura »; solo la Chiesa nascente poteva lentamente formare un canone neotestamentario, che ora allo stesso modo costituiva Sacra Scrittura, ma pur sempre in quanto presuppone come tale la Bibbia di Israele, la Bibbia degli Apostoli e dei loro discepoli, che soltanto ora riceve il nome di Antico Testamento, e le fornisce la chiave di interpretazione.

In questo senso i Padri della Chiesa con la loro interpretazione cristologica dell’Antico Testamento non hanno creato nulla di nuovo, ma solo sviluppato e sistematizzato, ciò che già trovavano nel Nuovo Testamento stesso. Questa sintesi fondamentale per la fede cristiana doveva però diventare problematica nel momento in cui la coscienza storica sviluppò criteri di interpretazione, a partire dai quali l’esegesi dei Padri doveva apparire come priva di fondamento storico e pertanto come oggettivamente insostenibile. Lutero, nel contesto dell’umanesimo e della sua nuova coscienza storica, soprattutto però nel contesto della sua dottrina della giustificazione, ha sviluppato una nuova formulazione del rapporto fra le due parti della Bibbia cristiana, che non si fonda più sull’armonia interiore di Antico e Nuovo Testamento, ma sulla sua antitesi sostanzialmente dialettica dal punto di vista storico-salvifico ed esistenziale di legge e vangelo. Bultmann ha espresso in modo moderno questo approccio di fondo con la formula, secondo cui l’Antico Testamento si sarebbe adempiuto in Cristo nel suo fallimento. Più radicale è la proposta sopra menzionata di Harnack, che — per quanto io possa vedere — praticamente non è stata ripresa da nessuno, ma era perfettamente logica a partire da un’esegesi, per la quale i testi del passato possono avere di volta in volta solo quel senso che volevano dar loro i rispettivi autori nel loro momento storico. Alla moderna coscienza storica però appare più che inverosimile che gli autori dei secoli prima di Cristo, che si esprimono nei libri dell’Antico Testamento, intendessero alludere anticipatamente a Cristo e alla fede del Nuovo Testamento. In questo senso con la vittoria dell’esegesi storico-critica l’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento iniziata dal Nuovo Testamento stesso appariva finita. Ciò, come abbiamo visto, non è una questione storica particolare, ma i fondamenti stessi del Cristianesimo sono qui in discussione. Così diviene anche chiaro perché nessuno ha voluto seguire la proposta di Harnack, di realizzare finalmente quel congedo dall’Antico Testamento intrapreso solo troppo presto da Marcione. Ciò che a quel punto resterebbe, il nostro Nuovo Testamento, non avrebbe senso in se stesso. Il documento della Pontificia Commissione Biblica che qui presentiamo dice in proposito: « Senza l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi » (n. 84).

A questo punto diventa visibile la complessità del compito, davanti al quale si trovò la Pontificia Commissione Biblica, quando si decise ad affrontare il tema del rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. Se esiste una via di uscita dal vicolo cieco descritto da Harnack, deve essere ampliato ed approfondito, rispetto alla visione degli studiosi liberali, il concetto di un’interpretazione oggi sostenibile dei testi storici, soprattutto però del testo della Bibbia considerato come Parola di Dio. In questa direzione negli ultimi decenni è accaduto qualcosa di importante. La Pontificia Commissione Biblica ha presentato il contributo essenziale di questi studi nel suo Documento pubblicato nel 1993 « L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa ». L’approfondimento della pluridimensionalità del discorso umano, che non è legato ad un unico punto storico, ma si protende verso il futuro, era un ausilio per comprendere meglio come la Parola di Dio può servirsi della parola umana, per dare un senso ad una storia che progredisce, che rimanda al di là del momento attuale e nondimeno proprio così crea l’unità dell’insieme. La Commissione Biblica riprendendo questo suo precedente documento e fondandosi su accurate riflessioni metodologiche ha approfondito i singoli grandi complessi tematici di entrambi i Testamenti nella loro relazione ed ha potuto in conclusione dire che l’ermeneutica cristiana dell’Antico Testamento, che senza dubbio è profondamente diversa da quella del giudaismo, « corrisponde tuttavia ad una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi » (n. 64). È questo un risultato, che mi sembra essere di grande importanza per la continuazione del dialogo, ma sopratutto anche per i fondamenti della fede cristiana.

La Commissione Biblica tuttavia non poteva nel suo lavoro prescindere dal contesto del nostro presente, nel quale il dramma della Shoah ha collocato tutta la questione in un’altra luce. Due problemi principali si ponevano: possono i cristiani dopo tutto quello che è successo avanzare ancora tranquillamente la pretesa di essere gli eredi legittimi della Bibbia di Israele? Possono continuare con una interpretazione cristiana di questa Bibbia, o non dovrebbero piuttosto rispettosamente ed umilmente rinunciare ad una pretesa, che alla luce di ciò che avvenuto non può non apparire come presunzione? E qui si connette la seconda questione: Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare una ostilità nei confronti di questo popolo, che ha favorito l’ideologia di coloro che volevano sopprimerlo? La Commissione ha affrontato entrambe le questioni. È chiaro che un congedo dei cristiani dall’Antico Testamento non solo, come prima mostrato, avrebbe la conseguenza di dissolvere lo stesso cristianesimo, ma non potrebbe neppure essere utile ad un rapporto positivo fra cristiani ed ebrei, perché sarebbe loro sottratto proprio il fondamento comune. Ciò che però deve conseguire dagli eventi accaduti è un rinnovato rispetto per l’interpretazione giudaica dell’Antico Testamento. Al riguardo il documento dice due cose. Innanzitutto afferma che la lettura giudaica della Bibbia « è una lettura possibile, che è in continuità con le sacre Scritture ebraiche dell’epoca del secondo tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente a questa » (n. 22). A ciò aggiunge che i cristiani possono imparare molto dall’esegesi giudaica praticata per 2000 anni; a loro volta i cristiani sperano che gli ebrei possano trarre utilità dai progressi dell’esegesi cristiana (ibidem). Io penso che queste analisi saranno utili per il progresso del dialogo giudeo-cristiano, ma anche per la formazione interiore della coscienza cristiana.

Della questione della presentazione dei giudei nel Nuovo Testamento si occupa l’ultima parte del documento, nel quale vengono accuratamente esaminati i testi « antigiudaici ». Qui vorrei solo sottolineare un’intuizione che per me appare particolarmente importante. Il documento mostra che i rimproveri rivolti nel Nuovo Testamento agli ebrei non sono più frequenti né più aspri delle accuse contro Israele nella legge e nei profeti, quindi all’interno dello stesso Antico Testamento (n. 87). Essi appartengono al linguaggio profetico dell’Antico Testamento e quindi devono essere interpretati come le parole dei profeti. Essi mettono in guardia da deviazioni presenti, ma per loro natura sono sempre temporanei e presuppongono quindi anche sempre nuove possibilità di salvezza.

Vorrei esprimere ai membri della Pontificia Commissione Biblica il mio ringraziamento e la mia riconoscenza per la loro fatica. Dalle loro discussioni condotte con pazienza per molti anni è uscito questo documento, che a mio parere può offrire un importante ausilio per una questione centrale della fede cristiana e per la così importante ricerca di una rinnovata comprensione fra cristiani ed ebrei.

Roma, Festa dell’Ascensione 2001

Joseph Cardinal Ratzinger

Torna all’inizio
——————————————————————————–

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA
IL POPOLO EBRAICO
E LE SUE SACRE SCRITTURE
NELLA BIBBIA CRISTIANA 4

INTRODUZIONE
1. I tempi moderni hanno portato i cristiani a prendere meglio coscienza dei legami fraterni che li uniscono strettamente al popolo ebraico. Nel corso della seconda guerra mondiale (1939-1945), eventi tragici o, più esattamente, crimini abominevoli hanno sottoposto il popolo ebraico a una prova di estrema gravità che ha minacciato la sua stessa esistenza in gran parte dell’Europa. In queste circostanze alcuni cristiani non hanno dato prova di quella resistenza spirituale che ci si sarebbe doverosamente aspettato da discepoli di Cristo e non hanno preso le iniziative corrispondenti. Altri cristiani, invece, hanno prestato generosamente il loro aiuto agli ebrei in pericolo, spesso a rischio della propria stessa vita. In seguito a questa immane tragedia, s’impone per i cristiani la necessità di approfondire la questione dei loro rapporti con il popolo ebraico. Un grande sforzo di ricerca e di riflessione è già stato compiuto in questo senso. La Pontificia Commissione Biblica ha ritenuto opportuno dare il suo contributo a questo sforzo, nell’ambito della propria competenza. Questa non permette, evidentemente, alla Commissione di prendere posizione su tutti gli aspetti storici o attuali del problema; essa si limita pertanto al punto di vista dell’esegesi biblica, allo stato attuale della ricerca.

La domanda che si pone è la seguente: quali rapporti la Bibbia cristiana stabilisce tra i cristiani e il popolo ebraico? A questa domanda la risposta generale è chiara: tra i cristiani e il popolo ebraico la Bibbia cristiana stabilisce rapporti molteplici e molto stretti e ciò per due ragioni: innanzitutto perché la Bibbia cristiana si compone, in gran parte, delle « sacre Scritture » (Rm 1,2) del popolo ebraico, che i cristiani chiamano « l’Antico Testamento »; poi perché la Bibbia cristiana comprende, d’altra parte, un insieme di scritti che, esprimendo la fede in Cristo Gesù, mettono quest’ultima in stretta relazione con le sacre Scritture del popolo ebraico. Questo secondo insieme di scritti è chiamato, com’è noto, « Nuovo Testamento », espressione correlativa ad « Antico Testamento ».

L’esistenza di stretti rapporti è innegabile. Tuttavia, un esame più preciso dei testi rivela che non si tratta di relazioni semplici, ma che presentano, al contrario, una grande complessità che va dal perfetto accordo su alcuni punti a una forte tensione su altri. Uno studio attento è quindi necessario. La Commissione Biblica vi ha dedicato questi ultimi anni e i risultati, che non pretendono evidentemente di aver esaurito l’argomento, vengono qui presentati in tre capitoli. Il primo, fondamentale, constata che il Nuovo Testamento riconosce l’autorità dell’Antico Testamento come rivelazione divina e non può essere compreso senza la sua stretta relazione con esso e con la tradizione ebraica che lo trasmetteva. Il secondo capitolo esamina, quindi, in modo più analitico, come gli scritti del Nuovo Testamento accolgono il ricco contenuto dell’Antico Testamento, di cui riprendono i temi fondamentali, visti alla luce del Cristo Gesù. Il terzo capitolo, infine, registra gli atteggiamenti molto vari che gli scritti del Nuovo Testamento esprimono sugli ebrei, imitando del resto in questo l’Antico Testamento stesso.

La Commissione Biblica spera in questo modo di far avanzare il dialogo tra cristiani ed ebrei, nella chiarezza e nella stima e l’affetto reciproci.

Torna all’indice
I.
LE SACRE SCRITTURE DEL POPOLO EBRAICO
PARTE FONDAMENTALE DELLA BIBBIA CRISTIANA
2. È soprattutto la sua origine storica che lega la comunità dei cristiani al popolo ebraico. Infatti, colui nel quale essa pone la sua fede, Gesù di Nazaret, è un figlio di questo popolo; così come lo sono i Dodici che egli ha scelto perché « stessero con lui e per mandarli a predicare » (Mc 3,14). All’inizio la predicazione apostolica si rivolgeva solo agli ebrei e ai proseliti, pagani associati alla comunità ebraica (cf At 2,11). Il cristianesimo è quindi nato in seno al giudaismo del I secolo. Poi se ne è progressivamente distaccato, ma la Chiesa non ha mai potuto dimenticare le sue radici ebraiche, attestate in modo chiaro nel Nuovo Testamento, riconoscendo perfino agli ebrei una priorità, perché il vangelo è una « forza divina per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco » (Rm 1,16).

Una manifestazione sempre attuale di questo legame di origine consiste nell’accettazione, da parte dei cristiani, della sacre Scritture del popolo ebraico come Parola di Dio rivolta anche a loro. La Chiesa ha infatti accolto come ispirati da Dio tutti gli scritti contenuti sia nella Bibbia ebraica che nella Bibbia greca. L’appellativo di « Antico Testamento », dato a questo insieme di scritti, è un’espressione coniata dall’apostolo Paolo per indicare gli scritti attribuiti a Mosè (cf 2 Cor 3,14-15). Il suo significato si ampliò poi nel corso del II secolo e fu applicato ad altre Scritture del popolo ebraico, in ebraico, aramaico e greco. L’appellativo di « Nuovo Testamento » proviene invece da un oracolo del libro di Geremia che annuncia una « nuova alleanza » (Ger 31,31), espressione diventata, nel greco dei Settanta, « nuova disposizione », « nuovo testamento » (kaine diatheke). L’oracolo annunciava il progetto di Dio di stipulare una nuova alleanza. La fede cristiana, con l’istituzione dell’eucaristia, vede questa promessa realizzata nel mistero del Cristo Gesù (cf 1 Cor 11,25; Eb 9,15). Di conseguenza, venne chiamato « Nuovo Testamento » un insieme di scritti che esprimono la fede della Chiesa nella sua novità. Già da solo questo appellativo manifesta l’esistenza di rapporti con l’« Antico Testamento ».

A. Il Nuovo Testamento riconosce l’autorità delle sacre Scritture del popolo ebraico

3. Gli scritti del Nuovo Testamento non si presentano mai come una assoluta novità, ma si mostrano, al contrario, solidamente radicati nella lunga esperienza religiosa del popolo d’Israele, esperienza registrata sotto diverse forme in alcuni libri sacri, che costituiscono le Scritture del popolo ebraico. Il Nuovo Testamento riconosce ad essi un’autorità divina; riconoscimento che si manifesta in molti modi, più o meno espliciti.

1. Riconoscimenti d’autorità impliciti

Partendo dal meno esplicito, già però indicativo, notiamo anzitutto l’uso di una stessa lingua. Il greco del Nuovo Testamento dipende strettamente dal greco dei Settanta, sia che si tratti di costruzioni grammaticali influenzate dall’ebraico che del vocabolario, soprattutto del vocabolario religioso. Senza una conoscenza del greco dei Settanta è impossibile cogliere con esattezza il significato di molti termini importanti del Nuovo Testamento.5

Questa affinità di lingua si estende naturalmente a numerose espressioni che il Nuovo Testamento prende in prestito dalle Scritture del popolo ebraico e porta al fenomeno frequente delle reminiscenze e delle citazioni implicite, cioè di frasi intere riprese nel Nuovo Testamento senza indicazione della loro natura di citazioni. Le reminiscenze si contano a centinaia, ma la loro identificazione è abbastanza spesso discussa. Per dare a questo riguardo l’esempio più significativo, basti ricordare qui che l’Apocalisse non contiene alcuna citazione esplicita della Bibbia ebraica, ma è un vero e proprio tessuto di reminiscenze e di allusioni. Il testo dell’Apocalisse è talmente impregnato di Antico Testamento che diventa difficile distinguere ciò che è allusione da ciò che non lo è.

Ciò che è vero per l’Apocalisse lo è anche — a un grado inferiore, certamente — per i vangeli, gli Atti degli apostoli e le lettere.6 La differenza sta nel fatto che in questi altri scritti si trovano anche numerose citazioni esplicite, introdotte cioè come tali.7 Questi scritti segnalano così in modo chiaro le loro citazioni più importanti mostrando in questo modo di riconoscere l’autorità della Bibbia ebraica come rivelazione divina.

2. Ricorsi espliciti all’autorità delle Scritture del popolo ebraico

4. Questo riconoscimento d’autorità assume forme diverse, a seconda dei casi. Talvolta si trova, in un contesto di rivelazione, il semplice verbo legei, « egli (o: essa) dice », senza soggetto espresso,8 come, più tardi, negli scritti rabbinici; ma il contesto mostra allora che bisogna sottintendere un soggetto che conferisce al testo grande autorità: la Scrittura o il Signore o il Cristo.9 Altre volte il soggetto viene espresso: è « la Scrittura », « la Legge », o « Mosè » o « Davide », di cui si fa notare che era ispirato, « lo Spirito Santo » o « il Signore », come dicevano gli oracoli profetici.10 Matteo ha due volte una formula complessa, che indica al tempo stesso il locutore divino e il portaparola umano: « ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta che dice: … » (Mt 1,22; 2,15). Altre volte la menzione del Signore resta implicita, suggerita solo dalla scelta della preposizione dia, « per mezzo di », per parlare del portaparola umano. In questi testi di Matteo l’uso del verbo « dire » al presente ha l’effetto di presentare le citazioni della Bibbia ebraica come parole vive, la cui autorità è sempre attuale.

Invece del verbo « dire », il termine più usato per introdurre le citazioni è molto spesso il verbo « scrivere » e il tempo, in greco, è il perfetto, tempo che esprime l’effetto permanente di un’azione passata: gegraptai, « è stato scritto » e quindi d’ora in poi « è scritto ». Questo gegraptai ha molta forza. Gesù l’oppone vittoriosamente al tentatore, una prima volta senza alcuna altra precisazione: « Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo… » (Mt 4,4: Lc 4,4), con l’aggiunta di un palin, « invece », la seconda volta (Mt 4,7) e un gar, « infatti », la terza volta (Mt 4,10). Questo « infatti » rende esplicito il valore di argomento attribuito al testo dell’Antico Testamento, valore che era implicito nei primi due casi. Capita anche che un testo biblico non abbia valore definitivo e debba cedere il posto a una disposizione nuova; il Nuovo Testamento usa allora l’aoristo greco, che situa la dichiarazione nel passato. È il caso della legge di Mosè concernente il divorzio: « Per la durezza del vostro cuore egli [Mosè] scrisse (egrapsen) per voi questo comandamento » (Mc 10,5; cf anche Lc 20,28).

5. Molto spesso il Nuovo Testamento utilizza testi della Bibbia ebraica per argomentare, sia con il verbo « dire » che con il verbo « scrivere ». Si trova talvolta: « Dice infatti… »,11 e più spesso: « Sta scritto infatti… ».12 Le formule « sta scritto infatti », « perché è scritto », « secondo quanto sta scritto » sono molto frequenti nel Nuovo Testamento; nella sola lettera ai Romani ricorrono 17 volte.

Nelle sue argomentazioni dottrinali, l’apostolo Paolo si basa costantemente sulle Scritture del suo popolo. Paolo opera una netta distinzione tra le argomentazioni scritturistiche e i ragionamenti « secondo l’uomo », attribuendo alle prime un valore incontestabile.13 Per lui le Scritture ebraiche hanno ugualmente un valore sempre attuale per guidare la vita spirituale dei cristiani: « Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e dell’incoraggiamento che ci vengono dalle Scritture possediamo la speranza ».14

A questa argomentazione basata sulle Scritture del popolo ebraico, il Nuovo Testamento riconosce un valore decisivo. Nel IV vangelo Gesù dichiara a tale proposito che « la Scrittura non può essere abolita » (Gv 10,35). Il suo valore deriva dal fatto che è « parola di Dio » (ibid.). Questa convinzione viene manifestata continuamente. Due testi sono a questo riguardo particolarmente significativi, perché parlano di ispirazione divina. Nella seconda lettera a Timoteo, dopo una menzione delle « sacre Lettere » (2 Tm 3,15) si trova questa affermazione: « Tutta la Scrittura è ispirata da Dio (theopneustos) e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo, ben preparato per ogni opera buona » (2 Tm 3,16-17). Parlando più precisamente degli oracoli profetici contenuti nell’Antico Testamento, la seconda lettera di Pietro afferma: « Sappiate anzitutto questo: nessuna Scrittura profetica è oggetto d’interpretazione individuale, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio » (2 Pt 1,20-21). Questi due testi non si limitano ad affermare l’autorità delle Scritture del popolo ebraico ma indicano nell’ispirazione divina il fondamento di questa autorità.

Torna all’indice

B. Il Nuovo Testamento attesta la propria conformità alle Scritture del popolo ebraico

6. Una duplice convinzione si manifesta in altri testi: da una parte, ciò che è scritto nelle Scritture del popolo ebraico deve necessariamente compiersi, perché rivela il disegno di Dio, che non può non realizzarsi, e dall’altra, la vita, la morte e la risurrezione di Cristo corrispondono pienamente a quanto viene detto in queste Scritture.

1. Necessità del compimento delle Scritture

L’espressione più netta della prima convinzione si trova nelle parole rivolte da Gesù risorto ai suoi discepoli, nel vangelo secondo Luca: « Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna (dei) che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi » (Lc 24,44). Questa asserzione rivela il fondamento della necessità (dei, « bisogna ») del mistero pasquale di Gesù, necessità affermata in numerosi passi dei vangeli: « il Figlio dell’uomo deve soffrire molto […] e dopo tre giorni risuscitare »; 15 « Come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire? » (Mt 26,54); « deve compiersi in me questa parola della Scrittura » (Lc 22,37).

Poiché « bisogna » assolutamente che si compia quanto è scritto nell’Antico Testamento, gli avvenimenti accadono « affinché » ciò si compia. È quanto dichiara spesso Matteo, già nel vangelo dell’infanzia, poi nella vita pubblica di Gesù 16 e per l’insieme della passione (Mt 26,56). Marco ha un parallelo a quest’ultimo passo, in una vigorosa frase ellittica: « Ma [è] perché si adempiano le Scritture » (Mc 14,49). Luca non utilizza questo genere di espressione; mentre Giovanni vi ricorre quasi con la stessa frequenza di Matteo.17 Questa insistenza dei vangeli sullo scopo attribuito agli eventi, « affinché si compiano le Scritture »,18 conferisce un’estrema importanza alle Scritture del popolo ebraico. Essa fa comprendere chiaramente che gli eventi sarebbero senza significato se non corrispondessero a quanto esse dicono. Non si tratterebbe, in questo caso, della realizzazione del disegno di Dio.

2. Conformità alle Scritture

7. Altri testi affermano che tutto, nel mistero di Cristo, è conforme alle Scritture del popolo ebraico. La predicazione cristiana primitiva si riassumeva nella formula kerygmatica riportata da Paolo: « Vi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve… » (1 Cor 15,3-5). Paolo aggiunge: « Pertanto, sia io che loro, questo proclamiamo e questo voi avete creduto » (1 Cor 15,11). La fede cristiana non è quindi basata soltanto su degli eventi, ma sulla conformità di questi eventi alla rivelazione contenuta nelle Scritture del popolo ebraico. In cammino verso la sua passione, Gesù dice: « Il Figlio dell’uomo se ne va come è scritto di lui » (Mt 26,24; Mc 14,21). Dopo la sua risurrezione, egli stesso prende l’iniziativa di « interpretare, in tutte le Scritture, ciò che si riferiva a lui ».19 Nel suo discorso ai Giudei di Antiochia di Pisidia, Paolo ricorda questi eventi dicendo che « gli abitanti di Gerusalemme e i loro capi non hanno riconosciuto Gesù e, condannandolo, hanno adempiuto le parole dei profeti che si leggono ogni sabato » (At 13,27). Con queste affermazioni, il Nuovo Testamento si mostra indissolubilmente legato alle Scritture del popolo ebraico.

Aggiungiamo qui alcune constatazioni che meritano attenzione. Nel vangelo secondo Matteo una frase di Gesù rivendica una perfetta continuità tra la Torah e la fede dei cristiani: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento » (Mt 5,17). Questa affermazione teologica è caratteristica di Matteo e della sua comunità. Essa è in tensione con la relativizzazione dell’osservanza del sabato (Mt 12,8.12) e della purezza rituale (Mt 15,11) in altre espressioni del Signore.

Nel vangelo secondo Luca, il ministero di Gesù inizia con un episodio in cui, per definire la propria missione, Gesù ricorre a un oracolo del libro di Isaia (Lc 4,17-21; Is 61,1-2). La conclusione del vangelo amplia la prospettiva parlando del compimento di « tutte le cose scritte », riguardo a Gesù (Lc 24,44).

Fino a che punto sia essenziale, secondo Gesù, « ascoltare Mosè e i Profeti », lo mostrano in modo impressionante gli ultimi versetti della parabola di Lazzaro e del ricco malvagio (Lc 16,29-31): senza questo ascolto docile anche i più grandi prodigi non servono a nulla.

Il IV vangelo esprime una prospettiva analoga: qui Gesù attribuisce agli scritti di Mosè persino un’autorità preliminare a quella delle proprie parole, quando dice ai suoi avversari: « Se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole? » (Gv 5,47). In un vangelo in cui Gesù afferma che le sue parole « sono spirito e vita » (Gv 6,63), una frase simile conferisce alla Torah un’importanza primordiale.

Negli Atti degli apostoli i discorsi kerygmatici dei capi della Chiesa — Pietro, Filippo, Paolo e Barnaba, Giacomo — collocano in perfetta continuità con le Scritture del popolo ebraico gli eventi della passione, della risurrezione, della Pentecoste e dell’apertura missionaria della Chiesa.20

3. Conformità e differenza

8. La lettera agli Ebrei, pur non affermando mai esplicitamente l’autorità delle Scritture del popolo ebraico, mostra chiaramente di riconoscere questa autorità, perché cita continuamente i loro testi per fondare il suo insegnamento e le sue esortazioni. Essa contiene numerose affermazioni di conformità alla loro rivelazione profetica, ma anche affermazioni di una conformità accompagnata da alcuni aspetti di non conformità. Questo si riscontra già nelle lettere paoline. Nella lettera ai Galati e in quella ai Romani, l’apostolo argomenta a partire dalla Legge per dimostrare che la fede in Cristo ha posto fine al regime della Legge. Egli mostra che la Legge come rivelazione ha annunciato la propria fine come istituzione necessaria alla salvezza.21 La frase più significativa a questo riguardo è quella di Rm 3,21 dove l’apostolo afferma che la manifestazione della giustizia di Dio nella giustificazione offerta dalla fede in Cristo è avvenuta « indipendentemente dalla Legge », ma è tuttavia « conforme alla testimonianza della Legge e dei profeti ». In modo analogo, la lettera agli Ebrei mostra che il mistero di Cristo compie le profezie e l’aspetto prefigurativo delle Scritture del popolo ebraico, ma comporta, al tempo stesso, un aspetto di non conformità alle istituzioni antiche: conforme agli oracoli del Sal 109 (110), 1.4, la situazione del Cristo glorificato è, per ciò stesso, non conforme al sacerdozio levitico (cf Eb 7,11.28).

L’affermazione di fondo resta la stessa. Gli scritti del Nuovo Testamento riconoscono che le Scritture del popolo ebraico hanno un valore permanente di rivelazione divina. Si situano nei loro riguardi in un rapporto positivo, considerandole la base sulla quale essi stessi poggiano. Di conseguenza, la Chiesa ha sempre ritenuto che le Scritture del popolo ebraico fanno parte integrante della Bibbia cristiana.

Torna all’indice

C. Scrittura e tradizione orale nel giudaismo e nel cristianesimo

9. Tra Scrittura e Tradizione esiste una tensione che si riscontra in molte religioni; ad esempio in quelle dell’Oriente (induismo, buddismo, ecc.) e nell’Islam. I testi scritti non possono mai esprimere in modo esauriente la Tradizione e vengono perciò completati con aggiunte e interpretazioni, che finiscono per essere messe a loro volta per iscritto. Queste sono tuttavia sottoposte ad alcune limitazioni. È quanto si può osservare sia nel cristianesimo che nel giudaismo, con sviluppi in parte comuni e in parte differenti. Un tratto comune è che le due grandi religioni si trovano d’accordo nella determinazione di gran parte del loro canone delle Scritture.

1. Scrittura e Tradizione nell’Antico Testamento e nel giudaismo

La Tradizione dà vita alla Scrittura. L’origine dei testi dell’Antico Testamento e la storia della formazione del canone hanno dato luogo, nel corso di questi ultimi anni, a importanti lavori e si è pervenuti a un certo consenso, secondo il quale alla fine del I secolo della nostra èra il lento processo della formazione di un canone della Bibbia ebraica era praticamente compiuto. Questo canone comprendeva la Torah, i profeti e la maggior parte degli « scritti ». Determinare l’origine di ciascun libro risulta spesso difficile. In molti casi bisogna accontentarsi di ipotesi, le quali si basano soprattutto su osservazioni fornite dallo studio critico delle forme, della tradizione e della redazione. Se ne deduce che i precetti tradizionali furono raccolti in collezioni, incluse progressivamente nei libri del Pentateuco. Alcuni racconti tradizionali furono ugualmente messi per iscritto e raccolti; vennero sistemati insieme testi narrativi e regole di comportamento. Alcuni oracoli profetici furono raccolti e raggruppati in libri recanti il nome dei profeti. Si raccolsero anche testi sapienziali, salmi e racconti didattici di periodi più tardivi.

In seguito la Tradizione dà origine a una « seconda Scrittura » (Mishna). Nessun testo scritto può essere sufficiente a esprimere tutta la ricchezza di una tradizione.22 I testi sacri della Bibbia lasciano aperte molte questioni riguardanti la giusta comprensione della fede d’Israele e della condotta da tenere. Questo ha provocato, nel giudaismo farisaico e rabbinico, un lungo processo di produzione di testi scritti, dalla Mishna (« Secondo Testo »), redatto all’inizio del III secolo da Jehuda ha-Nasi, fino alla Tosefta (« Supplemento ») e al Talmud nella sua duplice forma (di Babilonia e di Gerusalemme). Nonostante la sua autorità, anche questa interpretazione non fu in seguito ritenuta sufficiente, così che furono aggiunte ad essa delle spiegazioni rabbiniche posteriori. A queste aggiunte non fu riconosciuta la stessa autorità del Talmud, che esse aiutano solo a interpretare. Per le questioni che restano ancora aperte ci si rimette alle decisione del Grande Rabbinato.

Il testo scritto può in questo modo suscitare sviluppi ulteriori e tra il testo scritto e la tradizione orale si mantiene e si manifesta una certa tensione.

Limiti del ruolo della Tradizione. Quando una tradizione normativa viene messa per iscritto per essere unita alla Scrittura, non acquista per questo la stessa autorità della Scrittura. Essa non fa parte degli « Scritti che insudiciano le mani », cioè « che sono sacri » e sono accolti come tali nella liturgia. La Mishna, la Tosefta e il Talmud hanno il loro posto nella sinagoga come luogo in cui si studia, ma non sono letti nella liturgia. In generale, il valore di una tradizione si misura in base alla sua conformità alla Torah. La lettura di quest’ultima occupa un posto privilegiato nella liturgia della Sinagoga. Ad essa si aggiungono testi scelti dei profeti. Secondo un’antica credenza ebraica, la Torah è stata creata prima della creazione del mondo. I samaritani accettavano solo questa come sacra Scrittura. I sadducei rifiutavano ogni tradizione normativa al di fuori della legge e dei profeti. Al contrario, il giudaismo farisaico e rabbinico afferma che accanto alla Legge scritta esiste una legge orale che fu data simultaneamente a Mosè e gode della stessa autorità. È quanto dichiara un trattato della Mishna: « Al Sinai, Mosè ricevette la Legge orale e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli anziani, e gli anziani ai profeti, e i profeti la trasmisero ai membri della Grande Sinagoga » (Aboth 1,1). Come si può vedere, esiste una notevole diversità nel modo di concepire il ruolo della Tradizione.

2. Scrittura e Tradizione nel cristianesimo primitivo

10. La Tradizione dà vita alla Scrittura. Nel cristianesimo primitivo si può osservare un’evoluzione simile a quella del giudaismo con, tuttavia, una differenza iniziale: i primi cristiani avevano, fin dall’inizio, delle Scritture perché, essendo ebrei, riconoscevano come Scritture la Bibbia d’Israele; anzi, erano le sole Scritture che riconoscevano. Ma ad esse si aggiungeva per loro una tradizione orale, « l’insegnamento degli Apostoli » (At 2,42), che trasmetteva le parole di Gesù e il racconto di eventi che lo riguardavano. La catechesi evangelica solo a poco a poco assunse la sua forma. Per meglio assicurarne una fedele trasmissione, furono messe per iscritto le parole di Gesù e alcuni testi narrativi. Veniva così preparata la strada alla redazione dei vangeli, che avvenne solo alcune decine d’anni dopo la morte e la risurrezione di Gesù. D’altra parte, venivano composte delle professioni di fede e degli inni liturgici, che hanno trovato posto nel Nuovo Testamento. Le lettere di Paolo e di altri apostoli o dirigenti furono prima lette nella Chiesa destinataria (cf 1 Ts 5,27), poi trasmesse ad altre Chiese (cf Col 4,16), conservate per essere rilette in altre occasioni e infine considerate come Scritture (cf 2 Pt 3,15-16) e unite ai vangeli. Fu così che si costituì progressivamente il canone del Nuovo Testamento in seno alla Tradizione apostolica.

La Tradizione completa la Scrittura. Il cristianesimo condivide con il giudaismo la convinzione che la rivelazione di Dio non può essere espressa nella sua interezza in testi scritti. Questa convinzione si manifesta nel finale del IV vangelo, dove si dice che il mondo intero non potrebbe contenere i libri che bisognerebbe scrivere per raccontare tutte le cose compiute da Gesù (Gv 21,25). D’altra parte, la tradizione vivente è indispensabile per rendere viva la Scrittura e attualizzarla.

È opportuno ricordare qui l’insegnamento del discorso dopo la Cena sul ruolo dello « Spirito della verità » dopo la partenza di Gesù. Egli ricorderà ai discepoli tutte le cose dette da Gesù (Gv 14,26), renderà testimonianza di Lui (15,26), guiderà i discepoli « alla verità tutta intera » (16,13), fornendo loro una comprensione più profonda della persona di Cristo, del suo messaggio e della sua opera. Grazie all’azione dello Spirito, la tradizione resta viva e dinamica.

Dopo aver dichiarato che la predicazione apostolica si trova « espressa in modo speciale (speciali modo exprimitur) nei libri ispirati », il Concilio Vaticano II osserva che è la Tradizione che « nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture » (Dei Verbum 8). La Scrittura viene definita « Parola di Dio messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito divino », ma è la Tradizione che « trasmette integralmente la Parola di Dio — affidata da Cristo e dallo Spirito Santo agli apostoli — ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano » (DV 9). Il concilio conclude: « Così la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura » e aggiunge: « Perciò l’una e l’altra — la Scrittura e la Tradizione — devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza » (DV 9).

Limiti dell’apporto aggiuntivo della Tradizione. In che misura può esserci nella Chiesa cristiana una tradizione che accresce materialmente la parola della Scrittura? È una domanda dibattuta a lungo nella storia della teologia. Il Concilio Vaticano II sembra averla lasciata aperta, ma ha almeno evitato di parlare di « due fonti della rivelazione », che sarebbero la Scrittura e la Tradizione. Ha affermato invece che « la sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa » (Dei Verbum 10). Viene così respinta l’idea di una tradizione completamente indipendente dalla Scrittura. Su un punto almeno il Concilio menziona un apporto aggiuntivo della Tradizione, ma si tratta di un punto di estrema importanza: la Tradizione « fa conoscere alla Chiesa l’intero canone dei libri sacri » (DV 8). Si vede quindi come la Scrittura e la Tradizione siano inseparabili.

3. Rapporti tra le due prospettive

11. Come abbiamo appena constatato, la relazione tra Scrittura e Tradizione presenta, nel giudaismo e nel cristianesimo, corrispondenze di forma. Su un punto c’è anche qualcosa di più di una semplice corrispondenza, poiché le due religioni si incontrano nella comune eredità della « sacra Scrittura d’Israele ».23

Ma, dal punto di vista ermeneutico, le prospettive divergono. Per tutte le correnti del giudaismo del periodo corrispondente alla formazione del canone, la Legge occupava un posto centrale. In essa infatti si trovano le istituzioni essenziali rivelate da Dio stesso e che hanno lo scopo di governare la vita religiosa, morale, giuridica e politica della nazione ebraica dopo l’esilio. La raccolta dei profeti contiene parole divinamente ispirate, trasmesse da profeti riconosciuti autentici, ma nessuna legge che possa servire da base alle istituzioni. Sotto questo aspetto la raccolta è di rango inferiore. Gli « Scritti » non sono composti né da leggi né da parole profetiche e occupano di conseguenza un terzo rango.

Questa prospettiva ermeneutica non è stata fatta propria dalle comunità cristiane, fatta eccezione forse di alcuni ambienti giudeo-cristiani, legati al giudaismo farisaico per il loro rispetto per la Legge. La tendenza generale, nel Nuovo Testamento, è di attribuire più importanza ai testi profetici, compresi come annunciatori del mistero di Cristo. L’apostolo Paolo e la lettera agli Ebrei non esitano a polemizzare contro la Legge. D’altra parte, il cristianesimo primitivo si trova in relazione con gli zeloti, la corrente apocalittica e gli esseni, di cui condivide l’attesa messianica apocalittica; del giudaismo ellenistico ha adottato un corpus di Scritture più ampio e un orientamento più sapienziale, più incline a favorire rapporti interculturali.

Ma ciò che distingue il cristianesimo primitivo da tutte queste correnti è la convinzione che le promesse profetiche escatologiche non sono più considerate semplicemente oggetto di speranza per il futuro, perché il loro compimento è già iniziato in Gesù di Nazaret, il Cristo. È di lui che parlano in ultima istanza le Scritture del popolo ebraico, qualche che sia la loro estensione, ed è alla sua luce che esse devono essere lette per poter essere pienamente comprese.

Torna all’indice

D. Metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento

1. Metodi esegetici giudaici

12. Il giudaismo trae dalle Scritture la sua comprensione di Dio e del mondo come anche dei disegni di Dio. La manifestazione più chiara del modo in cui i contemporanei di Gesù interpretavano le Scritture ci viene fornita dai manoscritti del mar Morto, manoscritti copiati tra il II secolo a.C. e l’anno 60 d.C., quindi in un periodo vicino a quello del ministero di Gesù e della formazione dei vangeli. Bisogna tuttavia ricordarsi che questi documenti esprimono soltanto un aspetto della tradizione giudaica; provengono da una corrente particolare in seno al giudaismo e non ne rappresentano l’insieme.

La più antica attestazione rabbinica di un metodo esegetico, basato del resto su testi dell’Antico Testamento, è una serie di sette « regole » attribuite tradizionalmente a Hillel (morto nel 10 d.C.). Indipendentemente dal fatto che questa attribuzione sia fondata o meno, queste sette middoth rappresentano certamente una codificazione dei modi contemporanei di argomentare a partire dalla Scrittura, in particolare per dedurne delle regole di comportamento.

Un altro modo di utilizzare la Scrittura si può osservare negli scritti di storici ebrei del I secolo, in particolare Giuseppe Flavio, ma viene usato già nello stesso Antico Testamento. Consiste nel servirsi di termini biblici per descrivere determinati eventi e mettere in questo modo in luce il loro significato. Il ritorno dall’esilio da Babilonia viene così presentato in termini che evocano la liberazione dall’oppressione egiziana al tempo dell’Esodo (Is 43,16-21). La restaurazione finale di Sion viene rappresentata come un nuovo Eden.24 A Qumran viene ampiamente usata una tecnica analoga.

2. Esegesi a Qumran e nel Nuovo Testamento

13. Dal punto di vista della forma e del metodo, il Nuovo Testamento, in particolare i vangeli, presenta forte rassomiglianze con Qumran nel modo di utilizzare le Scritture. Le formule per introdurre le citazioni sono spesso le stesse, ad esempio: « così è scritto », « come sta scritto », « conforme a quanto è scritto ». L’uso simile della Scrittura deriva da una somiglianza di prospettiva di base nelle due comunità, quella di Qumran e quella del Nuovo Testamento. Entrambe erano comunità escatologiche che vedevano le profezie bibliche come realizzate nel loro tempo, in un modo che andava al di là dell’attesa e della comprensione dei profeti che le avevano originariamente pronunciate. Entrambe avevano la convinzione che la piena comprensione delle profezie era stata rivelata al loro fondatore e da lui trasmessa, il « Maestro di Giustizia » a Qumran, Gesù per i cristiani.

Esattamente come nei rotoli di Qumran, alcuni testi biblici sono utilizzati nel Nuovo Testamento nel loro senso letterale e storico, mentre altri sono applicati, più o meno forzatamente, alla situazione presente. La Scrittura era considerata portatrice delle parole stesse di Dio. Alcune interpretazioni, nell’una e nell’altra serie di testi, prendono una parola separandola dal suo contesto e dal suo senso originale e le attribuiscono un significato che non corrisponde ai moderni principi esegetici. Una differenza importante deve essere tuttavia notata. Nei testi di Qumran, il punto di partenza è la Scrittura. Alcuni testi — ad esempio il pesher di Abacuc — sono commenti completi di un testo biblico, che applicano quest’ultimo, versetto per versetto, alla situazione presente; altri sono raccolte di testi che si riferiscono a uno stesso tema, ad esempio Melchisedek sull’epoca messianica. Nel Nuovo Testamento, al contrario, il punto di partenza è la venuta di Cristo. Non si tratta perciò di applicare la Scrittura al momento presente, ma di spiegare e di commentare la venuta di Cristo alla luce della Scrittura. Ciò non toglie che le tecniche di commento utilizzate siano le stesse, talvolta con una somiglianza sorprendente, come in Rm 10,5-13 e nella lettera agli Ebrei.25

3. Metodi rabbinici nel Nuovo Testamento

14. I metodi giudaici tradizionali di argomentazione biblica per stabilire delle regole di comportamento — metodi codificati più tardi dai rabbini — sono utilizzati di frequente, sia nelle parole di Gesù riportate dai vangeli che nelle lettere. Quelle che ricorrono più spesso solo le due prime middoth (« regole ») di Hillel, il qal wa-homer e la gezerah shawah.26 Esse corrispondono, grosso modo, all’argomento a fortiori e all’argomento per analogia.

Un tratto particolare è che l’argomento verte spesso sul significato di una sola parola e il significato viene stabilito grazie alla sua ricorrenza in un determinato contesto e viene poi applicato, talvolta in modo abbastanza artificiale, a un altro contesto. Questa tecnica presenta una sorprendente somiglianza con la pratica rabbinica del midrash, ma si osserva al tempo stesso una caratteristica differenza: nel midrash rabbinico ci sono citazioni di opinioni divergenti provenienti da diverse autorità, così che si ha a che fare con una tecnica di argomentazione, mentre nel Nuovo Testamento è decisiva l’autorità di Gesù.

Paolo utilizza queste tecniche con una frequenza particolare, specialmente nelle sue discussioni con avversari ebrei molto colti, siano essi cristiani o meno. Spesso se ne serve per combattere posizioni tradizionali nel giudaismo o per sostenere punti importanti della propria dottrina.27

Argomentazioni rabbiniche si incontrano anche nella lettera agli Efesini e nella lettera agli Ebrei.28 La lettera di Giuda è quasi interamente formata da spiegazioni esegetiche simili ai pesharim (« interpretazioni ») trovate nei rotoli di Qumran e in alcuni scritti apocalittici. Essa utilizza figure ed esempi come pure una struttura per concatenazione verbale, tutto in conformità con la tradizione giudaica di esegesi scritturistica.

Una forma particolare di esegesi giudaica che si incontra nel Nuovo Testamento è quella dell’omelia pronunciata nella sinagoga. Secondo Gv 6,59, il discorso sul pane di vita fu pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao. La sua forma ha molte corrispondenze con quella delle omelie sinagogali del I secolo: spiegazione di un testo del Pentateuco con l’appoggio di un testo dei profeti; ogni espressione del testo viene spiegata; vengono apportati dei leggeri aggiustamenti della forma per adattarli alla nuova interpretazione. Tracce dello stesso modello si trovano forse anche nell’uno o l’altro dei discorsi missionari negli Atti degli apostoli, in particolare nel discorso sinagogale di Paolo ad Antiochia di Pisidia (At 13,17-41).

4. Allusioni significative all’Antico Testamento

15. Il Nuovo Testamento utilizza spesso allusioni ad eventi biblici come mezzi per mostrare il significato di avvenimenti della vita di Gesù. I racconti dell’infanzia di Gesù nel vangelo di Matteo possono rivelare il loro pieno significato solo se letti sullo sfondo dei racconti biblici e post-biblici su Mosè. Il vangelo dell’infanzia secondo Luca è più in rapporto con lo stile di allusioni bibliche che si trova nel I secolo nei Salmi di Salomone o negli Inni di Qumran; i cantici di Maria, di Zaccaria e di Simeone possono essere paragonati ad alcuni inni di Qumran.29 Un certo numero di eventi della vita di Gesù, come la teofania al momento del battesimo, la sua trasfigurazione, la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque, sono similmente raccontati con allusioni intenzionali ad avvenimenti e racconti dell’Antico Testamento. La reazione degli ascoltatori alle parabole di Gesù (ad esempio a quella dei vignaioli omicidi, Mt 21,33-43 e paralleli) mostra che essi erano abituati all’uso di un’immagine biblica come tecnica per esprimere un messaggio o impartire una lezione.

Tra i vangeli, quello di Matteo dà maggiormente prova di familiarità con le tecniche giudaiche di utilizzazione della Scrittura. Esso cita spesso la Scrittura alla maniera dei pesharim di Qumran; ne fa ampiamente uso per argomentazioni giuridiche o simboliche in un modo che, più tardi, diventerà corrente negli scritti rabbinici. Questo vangelo utilizza, più degli altri, i procedimenti del midrash narrativo nei suoi racconti (vangelo dell’infanzia, episodio della morte di Giuda, intervento della moglie di Pilato). L’uso molto diffuso dello stile di argomentazione rabbinico, specialmente nelle lettere paoline e nell’epistola agli Ebrei, attesta senza ombra di dubbio che il Nuovo Testamento proviene dalla matrice del giudaismo ed è impregnato della mentalità dei commentatori ebrei della Bibbia.

Torna all’indice

E. L’estensione del canone delle Scritture

16. Si chiama « canone » (dal greco kanon, « regola ») la lista dei libri riconosciuti come ispirati da Dio e aventi un valore di regola per la fede e i costumi. L’argomento di cui ci occupiamo qui è quello della formazione del canone dell’Antico Testamento.

1. Situazione nel giudaismo

Tra il canone ebraico delle Scritture 30 e il canone cristiano dell’Antico Testamento 31 esistono delle differenze. Queste venivano spiegate ammettendo generalmente che all’inizio dell’era cristiana esistessero nel giudaismo due canoni: un canone palestinese in ebraico, l’unico accettato in seguito dagli ebrei, e un canone alessandrino in greco, più esteso — chiamato i Settanta —, adottato dai cristiani.

Recenti ricerche e alcune scoperte hanno messo in dubbio questa opinione. Oggi sembra più probabile che al tempo della nascita del cristianesimo, le raccolte chiuse dei libri della Legge e dei profeti esistessero in una forma testuale sostanzialmente identica a quella del nostro Antico Testamento attuale. La raccolta degli « Scritti », invece, non era così ben definita, in Palestina e nella diaspora ebraica, sia nel numero dei libri che nella forma del loro testo. Verso la fine del I secolo sembra che 22/24 libri fossero generalmente accettati come sacri,32 ma solo molto più tardi la lista diventerà esclusiva.33 Quando si fissarono i limiti del canone ebraico, i libri deuterocanonici non vi furono inclusi.

Molti libri che facevano parte del terzo gruppo, mal definito, di testi religiosi, furono letti regolarmente da alcune comunità ebraiche nel corso dei primi secoli d.C. Tradotti in greco, essi circolavano tra i Giudei ellenisti, sia in Palestina che nella diaspora.

2. Situazione nella Chiesa primitiva

17. Essendo i primi cristiani per la maggior parte giudei della Palestina, « ebrei » o « ellenisti » (cf At 6,1), la loro visione della Scrittura doveva riflettere quella del loro ambiente, ma le nostre informazioni al riguardo sono scarse. In seguito, gli scritti del Nuovo Testamento fanno ritenere che nelle comunità cristiane circolasse una letteratura sacra più ampia del canone ebraico. Presi globalmente, gli autori del Nuovo Testamento manifestano una conoscenza dei libri deuterocanonici e di alcuni non canonici, perché il numero dei libri citati nel Nuovo Testamento oltrepassa non solo quello del canone ebraico, ma anche quello che si ipotizza fosse il canone alessandrino.34 Quando il cristianesimo si diffuse nel mondo ellenistico continuò a servirsi dei libri sacri che aveva ricevuto dal giudaismo ellenizzato.35 Sebbene i cristiani di espressione greca avessero ricevuto dagli ebrei le loro Scritture sotto la forma dei Settanta, non conosciamo questa forma con precisione, perché essa ci è pervenuta solo in manoscritti cristiani. Ciò che la Chiesa sembra aver ricevuto è un corpus di Scritture sacre, che erano, all’interno del giudaismo, sulla strada per diventare canoniche. Quando il giudaismo arrivò alla chiusura del proprio canone, la Chiesa cristiana era sufficientemente autonoma in rapporto al giudaismo da non esserne immediatamente influenzata. Fu solo in epoca posteriore che un canone ebraico ormai chiuso cominciò ad esercitare una sua influenza sul modo di vedere dei cristiani.

3. Formazione del canone cristiano

18. L’Antico Testamento della Chiesa antica assunse forme differenti nelle diverse regioni, come mostrano le varie liste dell’epoca patristica. La maggior parte degli autori cristiani a partire dal II secolo, così come i manoscritti della Bibbia del IV e dei secoli successivi, utilizzano o contengono un gran numero di libri sacri del giudaismo, compresi libri che non sono stati accettatati nel canone ebraico. Solo dopo che gli ebrei ebbero definito il loro canone la Chiesa pensò a chiudere il proprio canone dell’Antico Testamento. Non abbiamo informazioni sul modo in cui si procedette e sulle ragioni addotte per includere o meno un determinato libro nel canone. È tuttavia possibile abbozzare ad ampi tratti la sua evoluzione nella Chiesa, sia in Oriente che in Occidente.

In Oriente, a partire dal tempo di Origene (ca. 185-253), si cercò di conformare l’uso cristiano al canone ebraico di 2224 libri, utilizzando per questo diverse combinazioni e stratagemmi. Origene stesso era inoltre consapevole dell’esistenza di numerose differenze testuali, talvolta considerevoli, tra la Bibbia in ebraico e quella in greco. Questo problema si aggiungeva a quello della differenza delle liste di libri. Gli sforzi compiuti allo scopo di conformarsi al canone e al testo ebraico non impedirono agli autori cristiani d’Oriente di utilizzare nei loro scritti libri che non erano stati ammessi nel canone ebraico, né di seguire per gli altri il testo dei Settanta. L’idea che il canone ebraico dovesse essere preferito dai cristiani non sembra aver prodotto sulla Chiesa d’Oriente un’impressione profonda, né duratura.

In Occidente, si mantenne ugualmente un’utilizzazione più ampia dei libri sacri ed essa trovò in Agostino il suo difensore. Quando si trattò di selezionare i libri da includere nel canone, Agostino (354-430) basò il suo giudizio sulla prassi costante della Chiesa. All’inizio del V secolo, alcuni concili adottarono la sua posizione per compilare il canone dell’Antico Testamento. Sebbene questi concili fossero solo regionali, l’unanimità espressa nelle loro liste li rende rappresentativi dell’uso ecclesiale in Occidente.

Per quanto riguarda le differenze testuali tra la Bibbia in greco e quella in ebraico, Girolamo basò la sua traduzione sul testo ebraico. Per i libri deuterocanonici egli si limitò generalmente a correggere la Vecchia [traduzione] Latina. A partire da allora la Chiesa in Occidente riconosce una duplice tradizione biblica: quella del testo ebraico per i libri del canone ebraico, quella della Bibbia greca per gli altri libri, il tutto in una traduzione latina.

Basandosi su una tradizione secolare, il concilio di Firenze, nel 1442, e poi quello di Trento, nel 1564, hanno fugato, per i cattolici, dubbi e incertezze. La loro lista si compone di 73 libri, ricevuti come sacri e canonici, perché ispirati dallo Spirito Santo, 46 per l’Antico Testamento, 27 per il Nuovo Testamento.36 In questo modo la Chiesa cattolica ha ricevuto il suo canone definitivo, per la cui determinazione il Concilio si era basato sull’uso costante nella Chiesa. Adottando questo canone, più ampio di quello ebraico, esso ha preservato una memoria autentica delle origini cristiane, poiché, come abbiamo visto, il canone ebraico, più limitato, è posteriore all’epoca della formazione del Nuovo Testamento.

Torna all’indice

II.
TEMI FONDAMENTALI DELLE SCRITTURE
DEL POPOLO EBRAICO
E LORO ACCOGLIENZA NELLA FEDE IN CRISTO

19. Alle Scritture del popolo ebraico, da essa ricevute come autentica Parola di Dio, la Chiesa cristiana ha unito altre Scritture, che esprimono la sua fede in Gesù, il Cristo. Di conseguenza, la Bibbia cristiana non comprende un « Testamento » unico, ma due « Testamenti », l’Antico e il Nuovo, che intrattengono tra loro rapporti complessi, dialettici. Per farsi un’idea corretta delle relazioni tra la Chiesa cristiana e il popolo ebraico, è indispensabile lo studio di questi rapporti, la cui comprensione è mutata col tempo. Questo capitolo presenta prima una visione d’insieme di queste variazioni per poi soffermarsi su uno studio più preciso di temi fondamentali, comuni all’uno e all’altro Testamento.

A. Comprensione cristiana dei rapporti tra Antico e Nuovo Testamento

1. Affermazione di un rapporto reciproco

Definendo le Scritture del popolo ebraico « Antico Testamento », la Chiesa non ha voluto affatto suggerire che esse siano superate e che se ne potesse ormai fare a meno.37 Al contrario, essa ha sempre affermato che Antico Testamento e Nuovo Testamento sono inseparabili. Il loro primo rapporto sta proprio in questa inseparabilità. Quando, all’inizio del II secolo, Marcione voleva rifiutare l’Antico Testamento, si scontrò con una totale opposizione da parte della Chiesa post-apostolica. Il rifiuto dell’Antico Testamento portava del resto Marcione a respingere anche gran parte del Nuovo — accettava solo il vangelo di Luca e una parte delle lettere di Paolo —, il che dimostrava chiaramente che la sua posizione era insostenibile. È alla luce dell’Antico Testamento che il Nuovo comprende la vita, la morte e la glorificazione di Gesù (cf 1 Cor 15,3-4).

Ma il rapporto è reciproco: da una parte, il Nuovo Testamento richiede di essere letto alla luce dell’Antico, ma, dall’altra, invita a « rileggere » l’Antico alla luce di Cristo Gesù (cf Lc 24,45). Come è stata fatta questa « rilettura »? Essa si è estesa a « tutte le Scritture (Lc 24,27), a « tutte le cose scritte nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi » (24,44), ma il Nuovo Testamento ci presenta solo un numero limitato di esempi, senza formulare una teoria metodologica.

2. Rilettura dell’Antico Testamento alla luce di Cristo

Gli esempi forniti dimostrano che venivano utilizzati diversi metodi, presi, come abbiamo visto sopra, dalla cultura del mondo circostante.38 I testi parlano di tipologia 39 e di lettura alla luce dello Spirito (2 Cor 3,14-17), suggerendo l’idea di un duplice livello di lettura, quello del senso originario, percepibile in un primo tempo, e quello di una interpretazione ulteriore, rivelata alla luce di Cristo.

Nel giudaismo era abituale fare certe riletture. Era lo stesso Antico Testamento a mettere su questa strada. C’era, ad esempio, la rilettura dell’episodio della manna; non si negava il dato originario, ma se ne approfondiva il senso vedendo nella manna il simbolo della Parola con cui Dio nutre continuamente il suo popolo (cf Dt 8,2-3). I libri delle Cronache sono una rilettura del libro della Genesi e dei libri di Samuele e dei Re. Lo specifico nella rilettura cristiana è che viene fatta — come abbiamo appena ricordato — alla luce del Cristo.

L’interpretazione nuova non abolisce il senso originario. L’apostolo Paolo afferma inequivocabilmente che « gli oracoli di Dio sono stati affidati » agli Israeliti (Rm 3,2) e dà per scontato che questi oracoli dovevano e potevano essere letti e compresi fin da prima della venuta di Gesù. Quando parla di un accecamento degli ebrei circa « la lettura dell’Antico Testamento » (2 Cor 3,14), egli non intende parlare di una totale incapacità di lettura, ma di un’incapacità di rilettura alla luce di Cristo.

3. Rilettura allegorica

20. Il metodo nel mondo ellenistico era diverso, ma l’esegesi cristiana se ne servì ugualmente. I greci interpretavano talvolta i loro testi classici trasformandoli in allegorie. Dovendo commentare poemi antichi, come le opere di Omero, dove gli dei sembravano agire come uomini capricciosi e vendicativi, gli autori attribuivano loro un significato più accettabile dal punto di vista religioso e morale sostenendo che il poeta si era espresso in modo allegorico e che aveva voluto in realtà descrivere i conflitti psicologici umani, le passioni dell’anima, sotto la finzione di lotte tra dei. In questo caso, il senso nuovo, più spirituale faceva scomparire il senso originario del testo.

Gli ebrei della diaspora utilizzarono talvolta questo metodo, in particolare per giustificare agli occhi del mondo ellenistico certe prescrizioni della Legge che, prese alla lettera, potevano sembrare prive di senso. Filone d’Alessandria, nutrito di cultura ellenistica, si mosse in questa direzione. Egli sviluppava talvolta, in modo originale, il senso originale, ma, altre volte, adottava una lettura allegorica che lo svuotava completamente. In seguito la sua esegesi fu respinta dal giudaismo.

Nel Nuovo Testamento si trova una sola menzione delle « cose dette per allegoria » (allegoroumena: Gal 4,24), ma in realtà si tratta in questo caso di tipologia; cioè i personaggi menzionati nel testo antico sono presentati come evocatori di realtà future, senza che venga messa minimamente in dubbio la loro esistenza nella storia. Un altro testo di Paolo pratica l’allegoria per interpretare un dettaglio della Legge (1 Cor 9,9), ma questo metodo non viene mai adottato da lui come orientamento generale.

I padri della Chiesa e gli autori medievali ne faranno, al contrario, un uso sistematico, nei loro sforzi per offrire un’interpretazione attualizzante, ricca di applicazioni alla vita cristiana, di tutta la Bibbia, fin nei suoi minimi dettagli — sia, del resto, per il Nuovo Testamento che per l’Antico. Origene, ad esempio, vede nel pezzo di legno di cui si serve Mosè per rendere dolci le acque amare (Es 15,22-25) un’allusione al legno della croce; nella cordicella di filo scarlatto con la quale Raab fa riconoscere la sua casa (Gs 2,18) un’allusione al sangue del Salvatore. Venivano sfruttati tutti i dettagli che si prestavano a fornire un punto di contatto tra l’episodio veterotestamentario e le realtà cristiane. In ogni pagina dell’Antico Testamento si trovavano una moltitudine di allusioni dirette e specifiche a Cristo e alla vita cristiana, ma si correva il rischio di staccare ogni dettaglio dal suo contesto e di ridurre a nulla i rapporti tra il testo biblico e la realtà concreta della storia della salvezza. L’interpretazione diventava arbitraria.

Certo, l’insegnamento proposto aveva un suo valore, perché animato dalla fede e guidato da una conoscenza d’insieme della Scrittura letta nella Tradizione. Ma non era un insegnamento basato sul testo commentato; veniva sovrapposto ad esso. Era quindi inevitabile che nel momento stesso in cui questo approccio riscuoteva i migliori successi, entrasse in una crisi irreversibile.

4. Ritorno al senso letterale

Tommaso d’Aquino percepì in modo chiaro il pregiudizio inconscio che sosteneva l’esegesi allegorica: il commentatore poteva scoprire in un testo solo quello che egli già conosceva in precedenza e, per conoscerlo, aveva dovuto trovarlo nel senso letterale di un altro testo. Da qui la conclusione tratta da Tommaso d’Aquino: non è possibile argomentare in modo valido a partire dal senso allegorico, ma solo a partire dal senso letterale.40

Iniziata nel Medioevo, la valorizzazione del senso letterale non ha poi mai cessato di imporsi. Lo studio critico dell’Antico Testamento è andato sempre più in questa direzione, arrivando alla supremazia del metodo storico-critico.

Si è così messo in moto un processo inverso: il rapporto tra l’Antico Testamento e le realtà cristiane è stato ristretto a un numero limitato di testi. Il rischio oggi è quello di cadere nell’eccesso opposto, che consiste nel rinnegare globalmente, insieme agli eccessi del metodo allegorico, tutta l’esegesi patristica e l’idea stessa di una lettura cristiana e cristologica dei testi dell’Antico Testamento. Da qui lo sforzo avviato nella teologia contemporanea, per strade differenti che ancora non sono confluite in un consenso, di rifondare una interpretazione cristiana dell’Antico Testamento esente da arbitrarietà e rispettosa del senso originale.

5. Unità del disegno di Dio e nozione di compimento

21. Il presupposto teologico di base è che il disegno salvifico di Dio, che culmina in Cristo (cf Ef 1,3-14), è unitario, ma si è realizzato progressivamente attraverso il tempo. L’aspetto unitario e l’aspetto graduale sono entrambi importanti; così come lo sono la continuità su alcuni aspetti e la discontinuità su altri. Fin dall’inizio, l’agire di Dio nei suoi rapporti con gli uomini è teso verso la pienezza finale e, di conseguenza, alcuni aspetti che saranno costanti cominciano a manifestarsi: Dio si rivela, chiama, affida delle missioni, promette, libera, stipula alleanza. Le prime realizzazioni, per quanto provvisorie e imperfette, fanno già intravedere qualcosa della pienezza definitiva. Questo è particolarmente evidente in alcuni grandi temi che si sviluppano attraverso tutta la Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse: il cammino, il banchetto, la dimora di Dio tra gli uomini.

Operando una continua rilettura degli eventi e dei testi, l’Antico Testamento stesso si apre progressivamente a una prospettiva di compimento ultimo e definitivo. L’esodo, esperienza fondante della fede d’Israele (cf Dt 6,20-25; 26,5-9), diventa il modello di ulteriori esperienze di salvezza. La liberazione dall’esilio babilonese e la prospettiva di una salvezza escatologica vengono descritte come un nuovo esodo.41 L’interpretazione cristiana si situa in questa linea, ma con la differenza che essa vede il compimento già sostanzialmente realizzato nel mistero di Cristo.

La nozione di compimento è estremamente complessa,42 e può essere facilmente falsata se si insiste unilateralmente o sulla continuità o sulla discontinuità. La fede cristiana riconosce il compimento, in Cristo, delle Scritture e delle attese d’Israele, ma non comprende tale compimento come la semplice realizzazione di quanto era scritto. Una tale concezione sarebbe riduttiva. In realtà, nel mistero del Cristo crocifisso e risorto, il compimento avviene in modo imprevedibile. Comporta un superamento.43 Gesù non si limita a giocare un ruolo già prestabilito — quello del Messia — ma conferisce alle nozioni di messia e di salvezza una pienezza che era impossibile immaginare prima; le riempie di una nuova realtà; si può parlare, a questo riguardo, di « nuova creazione ».44 Sarebbe infatti un errore considerare le profezie dell’Antico Testamento delle fotografie anticipate di eventi futuri. Tutti i testi, compresi quelli che, in seguito, sono stati letti come profezie messianiche, hanno avuto un valore e un significato immediati per i contemporanei, prima di acquistare un significato più pieno per gli ascoltatori futuri. Il messianismo di Gesù ha un significato nuovo e inedito.

Il primo scopo del profeta è di mettere i suoi contemporanei in grado di comprendere gli eventi del loro tempo con lo sguardo di Dio. È meglio perciò non insistere eccessivamente, come fa una certa apologetica, sul valore di prova attribuita al compimento delle profezie. Questa insistenza ha contribuito a rendere più severo il giudizio dei cristiani sugli ebrei e sulla loro lettura dell’Antico Testamento: più si trova evidente il riferimento al Cristo nei testi veterotestamentari, più si ritiene ingiustificabile e ostinata l’incredulità degli ebrei.

Ma la constatazione di una discontinuità tra l’uno e l’altro Testamento e di un superamento delle prospettive antiche non deve portare a una spiritualizzazione unilaterale. Ciò che è già compiuto in Cristo deve ancora compiersi in noi e nel mondo. Il compimento definitivo sarà quello della fine, con la risurrezione dei morti, i cieli nuovi e la terra nuova. L’attesa messianica ebraica non è vana. Essa può diventare per noi cristiani un forte stimolo a mantenere viva la dimensione escatologica della nostra fede. Anche noi, come loro, viviamo nell’attesa. La differenza sta nel fatto che per noi Colui che verrà avrà i tratti di quel Gesù che è già venuto ed è già presente e attivo tra noi.

6. Prospettive attuali

L’Antico Testamento possiede in se stesso un immenso valore come Parola di Dio. Leggere l’Antico Testamento da cristiani non significa perciò volervi trovare dappertutto dei diretti riferimenti a Gesù e alle realtà cristiane. Certo, per i cristiani, tutta l’economia veterotestamentaria è in movimento verso Cristo; se si legge perciò l’Antico Testamento alla luce di Cristo è possibile, retrospettivamente, cogliere qualcosa di questo movimento. Ma dato che si tratta di un movimento, di una progressione lenta e difficile attraverso la storia, ogni evento e ogni testo si situano in un punto particolare del cammino e a una distanza più o meno grande dal suo compimento. Leggerli retrospettivamente, con occhi da cristiani, significa percepire al tempo stesso il movimento verso Cristo e la distanza in rapporto a Cristo, la prefigurazione e la dissomiglianza. Inversamente, il Nuovo Testamento può essere pienamente compreso solo alla luce dell’Antico Testamento.

L’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento è quindi un’interpretazione differenziata a seconda dei diversi tipi di testi. Essa non sovrappone confusamente la Legge e il Vangelo, ma distingue con cura le fasi successive della storia della rivelazione e della salvezza. Si tratta di un’interpretazione teologica, ma al tempo stesso pienamente storica. Lungi dall’escludere l’esegesi storico-critica, la richiede.

Quando il lettore cristiano percepisce che il dinamismo interno all’Antico Testamento trova la sua realizzazione in Gesù, si tratta di una percezione retrospettiva, il cui punto di partenza non si situa nei testi come tali, ma negli eventi del Nuovo Testamento proclamati dalla predicazione apostolica. Non si deve perciò dire che l’ebreo non vede ciò che era annunciato nei testi, ma che il cristiano, alla luce di Cristo e della Chiesa, scopre nei testi un di più di significato che vi era nascosto.

7. Contributo della lettura ebraica della Bibbia

22. Lo sconvolgimento prodotto dallo sterminio degli ebrei (la shoa) nel corso della seconda guerra mondiale ha spinto tutte le Chiese a ripensare completamente il loro rapporto col giudaismo e, di conseguenza, a riconsiderare la loro interpretazione della Bibbia ebraica, l’Antico Testamento. Alcuni sono arrivati a domandarsi se i cristiani non debbano rimproverarsi di essersi impadroniti della Bibbia ebraica facendone una lettura in cui nessun ebreo si riconosce. I cristiani dovrebbero allora leggere questa Bibbia come gli ebrei, per rispettare realmente la sua origine ebraica?

Ragioni ermeneutiche obbligano a dare a quest’ultima domanda una risposta negativa. Infatti, leggere la Bibbia alla maniera del giudaismo implica necessariamente l’accettazione di tutti i presupposti di quest’ultimo, cioè l’accettazione integrale di ciò che è costitutivo del giudaismo, in particolare l’autorità degli scritti e delle tradizioni rabbiniche, che escludono la fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio.

In rapporto alla prima questione, la situazione è invece diversa, perché i cristiani possono e devono ammettere che la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre Scritture ebraiche dall’epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa. Ciascuna delle due letture è correlata con la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto e un’espressione, risultando di conseguenza irriducibili l’una all’altra.

Sul piano concreto dell’esegesi, i cristiani possono, nondimeno, apprendere molto dall’esegesi ebraica praticata da più di duemila anni, e in effetti hanno appreso molto nel corso della storia.45 Dal canto loro possono sperare che gli ebrei siano in grado di trarre profitto anch’essi dalle ricerche esegetiche cristiane.

Torna all’indice

B. Temi comuni fondamentali

1. Rivelazione di Dio

23. Un Dio che parla agli uomini. Il Dio della Bibbia è un Dio che entra in comunicazione con gli uomini e parla ad essi. La Bibbia descrive, in modalità diverse, l’iniziativa presa da Dio di comunicare con l’umanità scegliendosi il popolo d’Israele. Dio fa sentire la sua Parola o direttamente, o servendosi di portaparola.

Nell’Antico Testamento Dio si manifesta a Israele come Colui che parla. La parola divina assume la forma di una promessa fatta a Mosè di far uscire dall’Egitto il popolo d’Israele (Es 3,7-17), promessa che si colloca sulla scia di quelle fatte ai patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe e ai loro discendenti.46 È ugualmente una promessa quella che riceve Davide in 2 Sam 7,1-17 riguardo a una discendenza che gli succederà sul trono.

Dopo l’uscita dall’Egitto, Dio s’impegna con il suo popolo in un’alleanza di cui prende due volte l’iniziativa (Es 19–14; 32–34). In questo contesto Mosè riceve da Dio la Legge, spesso designata come « parole di Dio »,47 che egli deve trasmettere al popolo.

Mosè, portatore della parola di Dio, sarà considerato un profeta 48 e anche più di un profeta (Nm 12,6-8). Nel corso della storia del popolo, i profeti si mostrano consapevoli di trasmettere la parola di Dio. I racconti di vocazioni profetiche mostrano come la parola di Dio emerge, s’impone con forza e invita a una risposta. Profeti come Isaia, Geremia o Ezechiele riconoscono la parola di Dio come un evento che ha segnato la loro vita.49 Il loro messaggio è il messaggio di Dio; accogliere il loro messaggio equivale ad accogliere la parola di Dio. Anche se si scontra con delle resistenze da parte della libertà umana, la parola di Dio è efficace: 50 è una potenza che opera nel cuore della storia. Nel racconto della creazione del mondo da parte di Dio (Gn 1), si scopre che, per Dio, dire è fare.

Il Nuovo Testamento prolunga questa prospettiva e l’approfondisce. Gesù, infatti, si fa il predicatore della parola di Dio (Lc 5,1) e ricorre alle Scritture; è riconosciuto come profeta,51 ma è più che un profeta. Nel IV vangelo il ruolo di Gesù è distinto da quello di Giovanni Battista con un’opposizione tra l’origine terrena del secondo e l’origine celeste del primo: « Colui che viene dal cielo […testimonia ciò che ha visto e udito, …] colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio » (Gv 3,31.32.34). Gesù non è un semplice messaggero, ma ha lasciato trasparire la sua intimità con Dio. Comprendere la missione di Gesù significa comprendere anche la sua condizione divina. « Io non ho parlato da me », dice Gesù, « ciò di cui parlo, ne parlo come il Padre me l’ha detto » (Gv 12,49.50). A partire da questo legame che unisce Gesù al Padre, il IV vangelo confessa Gesù come il Logos, « il Verbo », che « si è fatto carne » (Gv 1,14).

L’inizio della lettera agli Ebrei riassume perfettamente il cammino percorso: Dio che « aveva un tempo parlato ai padri nei profeti », « ha parlato a noi in un Figlio » (Eb 1,1-2), quel Gesù di cui ci parlano i vangeli e la predicazione apostolica.

24. Il Dio unico. L’affermazione più forte della confessione di fede ebraica è quella di Dt 6,4: « Ascolta, Israele, il signore nostro Dio è il signore uno », affermazione che non dev’essere separata da quanto ne consegue per il fedele: « e tu amerai il signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutto il tuo essere e tutta la tua forza » (Dt 6,5).52 Il signore, unico Dio d’Israele, sarà riconosciuto come il solo Dio di tutta l’umanità alla fine dei tempi (Zc 14,9). Dio è uno: questa proclamazione appartiene al linguaggio dell’amore (cf Ct 6,9). Dio che ama Israele è confessato come unico e chiama ciascuno a rispondere a questo amore con un amore sempre più unificato.

Israele è chiamato a riconoscere che il Dio che l’ha fatto uscire dall’Egitto è il solo ad averlo strappato alla schiavitù. Solo questo Dio ha salvato Israele e Israele deve esprimere la sua fede in lui con l’osservanza della Legge e con il culto.

L’affermazione « il signore è uno » non era, all’origine, l’espressione di un monoteismo radicale, perché non si negava l’esistenza di altri dei, come mostra, ad esempio, il Decalogo (Es 20,3). A partire dall’esilio, l’affermazione credente tende a diventare un’affermazione di radicale monoteismo, che si esprime attraverso due espressioni come « gli dei sono nulla » (Is 45,14) o « non ce n’è altri ».53 Nel giudaismo posteriore, l’espressione di Dt 6,4 è una professione di fede monoteistica ed è il cuore della preghiera ebraica.

Nel Nuovo Testamento l’affermazione della fede ebraica viene ripresa in Mc 12,29 da Gesù stesso, che cita Dt 6,4-5, e dal suo interlocutore ebreo, che cita Dt 4,35. La fede cristiana afferma, anch’essa, l’unicità di Dio, perché « non c’è altro dio che il Dio unico ».54 Questa unicità di Dio è affermata con forza anche quando Gesù viene riconosciuto come Figlio (Rm 1,3-4), essendo egli tutt’uno con il Padre (Gv 10,30; 17,11). In effetti, la gloria che viene dal Dio unico Gesù la riceve dal Padre in quanto « Figlio unico pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14). Per esprimere la fede cristiana, Paolo non esita a sdoppiare l’affermazione di Dt 6,4 e a dire: « Per noi, un solo Dio, il Padre […] e un solo Signore, Gesù Cristo » (1 Cor 8,6).

25. Dio creatore e provvidenza. La Bibbia si apre con le seguenti parole: « In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gn 1,1), un’intestazione che domina il testo di Gn 1,1–2,4, ma anche tutta la Scrittura che riferisce gli atti della potenza di Dio. In questo testo inaugurale l’affermazione della bontà della creazione ricorre sette volte, costituendo uno dei suoi ritornelli (Gn 1,4-31).

Con formulazioni differenti e in contesti diversi, l’affermazione che Dio è creatore ricorre costantemente. Così, nel racconto dell’uscita dall’Egitto, Dio ha potere sul vento e sul mare (Es 14,21). Nella preghiera d’Israele, Dio viene confessato come « colui che ha fatto il cielo e la terra ».55 L’azione creatrice di Dio fonda e assicura la salvezza attesa, sia nella preghiera (Sal 121,2) che negli oracoli profetici, ad esempio in Ger 5,22 e 14,22. In Is 40–55 quest’azione fonda la speranza in una salvezza futura.56 I libri sapienziali situano l’azione creatrice di Dio in una posizione centrale.57

Il Dio che crea il mondo con la sua Parola (Gn 1) e che dà all’uomo un alito di vita (Gn 2,7) è anche colui che testimonia la sua sollecitudine verso ogni essere umano fin dal suo concepimento.58

Al di fuori della Bibbia ebraica, è doveroso citare il testo di 2 Mac 7,28 dove la madre dei sette fratelli martiri esorta l’ultimo di essi con queste parole: « Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e riconosci che Dio non li ha creati da cose esistenti ». La traduzione latina di questa frase parla di creazione ex nihilo, « dal nulla ». Un aspetto notevole di questo testo è che il richiamo dell’azione creatrice di Dio fonda qui la fede nella risurrezione dei giusti. Lo stesso si ha in Rm 4,17.

La fede in un Dio creatore, vittorioso sulle forze cosmiche e sul male, è diventato inseparabile dalla fiducia in lui come salvatore del popolo d’Israele così come delle persone individuali.59

26. Nel Nuovo Testamento la convinzione che tutto ciò che esiste è opera di Dio proviene direttamente dall’Antico Testamento e sembra così forte che non ha bisogno di dimostrazione e il vocabolario di creazione è poco presente nei vangeli. Bisogna tuttavia notare in Mt 19,4 il riferimento a Gn 1,27, che parla della creazione dell’uomo e della donna. In modo più ampio, Mc 13,19 evoca « l’inizio della creazione che Dio ha creato ». Infine, Mt 13,35b parla, a proposito delle parabole, « di cose nascoste fin dalla fondazione del mondo ».

Nella sua predicazione, Gesù insiste molto sulla fiducia che l’uomo deve avere in Dio, dal quale tutto dipende: « Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete […] Guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono […] eppure il vostro Padre celeste li nutre ».60 La sollecitudine di Dio creatore si estende ai cattivi e ai buoni sui quali « egli fa sorgere il suo sole » e ai quali concede la pioggia necessaria alla fecondità del suolo (Mt 5,45). La provvidenza di Dio si esercita verso tutti; per i discepoli di Gesù questa convinzione deve portare a cercare « prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia » (Mt 6,33). Nel vangelo di Matteo Gesù parla del « Regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo » (Mt 25,34). Il mondo creato da Dio è il luogo della salvezza dell’uomo; esso è in attesa di una completa rigenerazione (Mt 19,28).

Partendo dalla Bibbia ebraica, che afferma che Dio ha creato tutto con la sua parola, col suo verbo,61 il prologo del IV vangelo proclama che « in principio era il Verbo », che « il Verbo era Dio » e che « tutto fu per mezzo di lui » e che « niente di ciò che fu, lo fu senza di lui » (Gv 1,1-3). Il Verbo è venuto nel mondo ma il mondo non l’ha riconosciuto (Gv 1,10). Il progetto di Dio, nonostante gli ostacoli interposti dagli uomini, è chiaramente definito in Gv 3,16: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna ». Di questo amore di Dio Gesù è testimone fino alla fine (Gv 13,1). Dopo la risurrezione, Gesù « soffia » sui discepoli, rinnovando l’atto di Dio al momento della creazione dell’uomo (Gn 2,7), il che suggerisce che una nuova creazione sarà opera dello Spirito Santo (Gv 20,22).

Pur se in un linguaggio diverso, il libro dell’Apocalisse offre una prospettiva analoga. Il Dio creatore (Ap 4,11) è all’origine di un progetto di salvezza che può essere realizzato solo dall’Agnello « come immolato » (Ap 5,6), compiendo il mistero pasquale, egli che è « il Principio della creazione di Dio » (Ap 3,14). Al termine della storia, la vittoria sulle forze del male andrà di pari passo con il sorgere di una nuova creazione, che avrà per luce Dio stesso 62 e non avrà più bisogno di templi, perché Dio onnipotente e l’Agnello saranno il Tempio della città celeste, la nuova Gerusalemme (Ap 21,2.22).

Nelle lettere paoline, il posto riservato alla creazione è ugualmente importante. È noto il ragionamento di Paolo in Rm 1,20-21 a proposito dei pagani. L’apostolo afferma che « dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio, la sua eterna potenza e divinità, sono visibili nelle sue opere attraverso l’intelligenza » e che quindi i pagani sono « inescusabili » per non aver reso gloria a Dio e per aver « servito la creatura invece del Creatore » (Rm 1,25; cf Sap 13,1-9). La creatura è stata abbandonata « alla schiavitù della corruzione » (Rm 8,20-21). Ma non per questo va rigettata come cattiva. In 1 Tm 4,4 si afferma che « tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie ».

Il ruolo che, nell’atto di creare, l’Antico Testamento attribuisce alla Sapienza, nel Nuovo Testamento è attribuito alla persona di Cristo, Figlio di Dio. Come per il « Verbo » nel prologo di Giovanni (1,3), si tratta di una mediazione universale, espressa in greco della preposizione dia, che si ritrova anche in Eb 1,2. Associato al « Padre, dal quale tutto (proviene) » si trova « Gesù Cristo, per mezzo del quale tutto (proviene) » (1 Cor 8,6). Sviluppando questo tema, l’inno di Col 1,15-20 afferma che « tutto è stato creato in lui » e che « tutto è stato creato per mezzo di lui e in vista di lui; egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui » (Col 1,16-17).

D’altra parte, la risurrezione di Cristo è compresa come l’inaugurazione di una nuova creazione, così che « se uno è in Cristo, è una “creatura nuova” ».63 Di fronte al dilagare del peccato degli uomini, il progetto di Dio era quello di realizzare una nuova creazione. Questo tema sarà ripreso più avanti, dopo aver parlato della situazione dell’umanità.

2. La persona umana: grandezza e miseria

a) Nell’Antico Testamento

27. Si è soliti parlare, in una sola espressione, di « grandezza e miseria » della persona umana. Nell’Antico Testamento non si incontrano mai questi due termini per caratterizzare la condizione umana, ma vi ricorrono due espressioni corrispondenti: nei primi tre capitoli della Genesi l’uomo e la donna sono, da una parte, « creati a immagine di Dio » (Gn 1,27), ma, dall’altra, « cacciati dal giardino di Eden » (Gn 3,24), per non essere stati docili alla parola di Dio. Questi capitoli orientano la lettura di tutta la Bibbia. Ciascuno è invitato qui a riconoscere i tratti essenziali della propria situazione e lo sfondo di tutta la storia della salvezza.

Creati a immagine di Dio: questa caratteristica, affermata molto prima della vocazione di Abramo e dell’elezione d’Israele, si applica agli uomini e alle donne di ogni tempo e di ogni luogo (Gn 1,26-27) 64 attribuendo loro la più alta dignità. È possibile che l’espressione tragga la sua origine dall’ideologia regale delle nazioni che circondavano Israele, in particolare l’Egitto, dove il faraone era considerato l’immagine vivente del dio, incaricata del mantenimento e del rinnovamento del cosmo. Ma la Bibbia fa di questa metafora una categoria fondamentale per la definizione di ogni persona umana. Le parole di Dio: « Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini su… » (Gn 1,26), presentano gli esseri umani come creature di Dio il cui compito è quello di governare la terra che Dio ha creato e popolato. In quanto immagini di Dio e agenti del creatore, gli esseri umani diventano destinatari della sua parola e sono chiamati ad essere a lui docili (Gn 2,15-17).

Al tempo stesso si constata che le persone umane esistono come uomini e donne, e hanno il compito di servire la vita. Nell’affermazione: « Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò » (Gn 1,27), la differenziazione dei sessi viene messa in parallelismo con la somiglianza in rapporto a Dio.

Inoltre, la procreazione umana si trova in stretta connessione con il compito di governare la terra, come mostra la benedizione divina della prima coppia umana: « Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela; dominate su… » (1,28). La somiglianza con Dio, l’associazione uomo-donna e il governo del mondo sono pertanto intimamente legati.

La stretta connessione tra il fatto di essere creato a immagine di Dio e quello di avere autorità sul mondo comporta parecchie conseguenze. In primo luogo, l’applicazione universale di queste caratteristiche esclude ogni superiorità di un gruppo o di un individuo umano su un altro. Tutte le persone umane sono a immagine di Dio e tutti hanno il compito di continuare l’opera ordinatrice del Creatore. In secondo luogo, vengono prese delle disposizioni in vista della coesistenza armoniosa di tutti i viventi nella ricerca dei mezzi necessari alla loro sussistenza: Dio assegna agli uomini e alle bestie il loro cibo (Gn 1,29-30).65 In terzo luogo, la vita delle persone umane viene dotata di un certo ritmo. Oltre al ritmo del giorno e della notte, dei mesi lunari e degli anni solari (Gn 1,14-18), Dio stabilisce un ritmo settimanale con il riposo il settimo giorno, fondamento del sabato (Gn 2,1-3). Rispettando il sabato (Es 20,8-11), i padroni della terra rendono omaggio al loro Creatore.

28. La miseria umana trova la sua espressione biblica esemplare nella storia del primo peccato, nel giardino di Eden, e del conseguente castigo. Il racconto di Gn 2,4b–3,24 completa quello di Gn 1,1–2,4a, mostrando come, in una creazione che era « buona » 66 e, una volta completata con la creazione dell’uomo, perfino « molto buona » (Gn 1,31), si sia introdotta la miseria.

Il racconto precisa il compito affidato all’uomo, « coltivare e custodire » il giardino di Eden (Gn 2,25), e aggiunge il divieto di « mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male » (2,16-17). Questa norma implica che servire Dio e osservare i suoi comandamenti è il correlativo del potere di dominare la terra (1,26.28).

L’uomo inizia col realizzare le intenzioni di Dio, attribuendo i nomi agli animali (2,18-20), poi accogliendo la donna come dono di Dio (2,23). Nell’episodio della tentazione, invece, la coppia umana cessa di agire secondo gli ordini di Dio. Mangiando del frutto dell’albero, la donna e l’uomo cedono alla tentazione di voler essere come Dio e di appropriarsi di una « conoscenza » che appartiene a Dio soltanto (3,5-6). La conseguenza è che cercano di evitare un confronto con Dio. Ma il loro tentativo di nascondersi evidenzia la follia del peccato, perché esso li lascia nel luogo stesso in cui la voce di Dio li può raggiungere (3,8). La domanda di Dio che incolpa l’uomo: « Dove sei? », fa pensare che questi non si trova là dove dovrebbe essere: a disposizione di Dio e dedito al suo compito (3,9). L’uomo e la donna si accorgono di essere nudi (3,7-10), il che vuol dire che hanno perso la fiducia reciproca e verso l’armonia della creazione.

Col suo verdetto Dio ridefinisce le condizioni di vita degli essere umani, non la relazione tra lui e loro (3,17-19). D’altra parte, l’uomo perde il suo compito particolare nel giardino di Eden, ma non quello di lavorare (3,17-19.23). Questo è ora orientato verso il « suolo » (3,23; cf 2,5). In altri termini, Dio continua ad affidare una missione alla persona umana. Per « sottomettere la terra e dominare » (1,28), l’uomo deve lavorare (3,23).

D’ora in poi, però, il « dolore » sarà compagno inseparabile della donna (3,16) e dell’uomo (3,17); la morte è il loro destino (3,19). La relazione tra l’uomo e la donna è deteriorata. La parola « dolore » è associata alla gravidanza e al parto (3,16) e, d’altra parte, alla fatica fisica e mentale causata dal lavoro (3,17).67 Paradossalmente, in ciò che di per sé è fonte di gioia profonda, il parto e la procreazione, si introduce il dolore. Il verdetto lega questo « dolore » alla loro esistenza sul « suolo », che patisce la maledizione per il loro peccato (3,17-18). Lo stesso è per la morte: la fine della vita umana è chiamata ritorno « al suolo », « alla terra », da dove l’uomo è stato tratto per adempiere il suo compito.68 In Gn 2–3 l’immortalità sembra essere legata all’esistenza nel giardino di Eden e condizionata al rispetto del divieto di mangiare dell’albero della « conoscenza ». Una volta violato questo divieto, l’accesso all’albero della vita (2,9) è precluso (3,22). In Sap 2,23-24, l’immortalità è associata alla somiglianza con Dio; « la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo »; viene così stabilito un legame tra Gn 1 e Gn 2–3.

Creata a immagine di Dio e incaricata di coltivare la terra, la coppia umana ha il grande onore di essere chiamata a completare l’azione creatrice di Dio prendendosi cura delle creature (Sap 9,2-3). Rifiutare di ascoltare la voce di Dio e preferire ad essa quella di una o l’altra creatura rientra nella libertà dell’essere umano; subire il dolore e la morte è la conseguenza di questa opzione presa dalle persone stesse. La « miseria » è diventata un aspetto universale della condizione umana, ma si tratta di un aspetto secondario che non abolisce l’aspetto di « grandezza », voluto da Dio nel suo progetto creatore.

I capitoli seguenti della Genesi mostrano fino a che punto il genere umano può sprofondare nel peccato e nella miseria: « La terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza […] Ogni carne aveva pervertito la sua condotta sulla terra » (Gn 6,11-12), così che Dio decretò il diluvio. Ma almeno un uomo, Noè, con la sua famiglia, « camminava con Dio » (6,9) e Dio lo scelse per essere all’origine di una nuova partenza dell’umanità. Nella sua posterità, Dio sceglie Abramo, gli ordina di abbandonare il suo paese e gli promette di « fare grande il suo nome » (12,2). Il progetto di Dio, a partire da questo momento, si rivela universale, perché in Abramo « saranno benedette tutte le famiglie della terra » (12,3). L’Antico Testamento mostra poi come questo progetto ha attraversato i secoli, in un’alternanza di momenti di miseria e di grandezza. Mai Dio si è rassegnato a lasciare il suo popolo nella miseria, rimettendolo sempre sulla strada della vera grandezza a vantaggio di tutta l’umanità.

A questi tratti fondamentali è opportuno aggiungere che l’Antico Testamento non misconosce gli aspetti deludenti dell’esistenza umana (cf Qohelet), né il lancinante problema della sofferenza degli innocenti (cf soprattutto Giobbe), né lo scandalo delle persecuzioni subite dai giusti (cf la storia di Elia, di Geremia e degli ebrei perseguitati da Antioco). Ma in tutti questi casi, soprattutto nell’ultimo, lo scontro con la miseria, invece che porre un ostacolo alla grandezza umana, paradossalmente la risolleva.

b) Nel Nuovo Testamento

29. L’antropologia del Nuovo Testamento si basa su quella dell’Antico. Essa testimonia la grandezza della persona umana, creata a immagine di Dio (Gn 1,26-27), e la sua miseria, provocata dall’innegabile realtà del peccato, che fa dell’uomo una caricatura di se stesso.

Grandezza dell’essere umano. Nei vangeli la grandezza dell’essere umano emerge dalla sollecitudine di Dio per lui, sollecitudine più attenta di quella per gli uccelli del cielo o i fiori dei campi (Mt 6,30); emerge d’altra parte dall’ideale che gli viene proposto: diventare misericordioso come lui (Lc 6,36), perfetto come egli è perfetto (Mt 5,45.48). L’essere umano, infatti, è un essere spirituale, che « non vivrà di solo pane, ma di ogni parola che esce della bocca di Dio » (Mt 4,4; Lc 4,4). È infatti la fame della parola di Dio che attira le folle prima verso Giovanni Battista (Mt 3,5-6 e par.), poi verso Gesù.69 Le attira una percezione del divino. Immagine di Dio, la persona umana è attirata da Dio. Persino i pagani sono capaci di una grande fede.70

L’apostolo Paolo è quello che ha maggiormente approfondito la riflessione antropologica. « Apostolo dei Gentili » (Rm 11,13), egli ha compreso che tutte le persone umane sono chiamate da Dio a una gloria eccelsa (1 Ts 2,12), quella di diventare figli di Dio,71 amati da lui (Rm 5,8), membri del corpo di Cristo (1 Cor 12,27), pieni di Spirito Santo (1 Cor 6,19). Impossibile immaginare una dignità più alta.

Il tema della creazione delle persone umane a immagine di Dio è ripreso da Paolo in molti modi. In 1 Cor 11,7 l’apostolo l’applica all’uomo, « immagine e gloria di Dio ». Ma altrove la applica a Cristo, « che è immagine di Dio ».72 La vocazione delle persone umane chiamate da Dio è allora quella di diventare « simili all’immagine del suo Figlio, perché egli sia il primogenito di una moltitudine di fratelli » (Rm 8,29). Questa somiglianza viene data dalla contemplazione della gloria del Signore (2 Cor 3,18; 4,6). La trasformazione, iniziata in questa vita, si completa nell’altra, quando « porteremo l’immagine dell’uomo celeste » (1 Cor 15,49); la grandezza della persona umana raggiungerà allora il suo apice.

30. Miseria dell’essere umano. La situazione penosa dell’umanità appare in molti modi nel Nuovo Testamento. Si vede chiaramente che la terra non è un paradiso! Gli evangelisti ci mostrano a più riprese una lunga serie di malattie e di infermità che affliggono una moltitudine di persone.73 Nei vangeli, la possessione diabolica esprime la profonda schiavitù nella quale può cadere la persona tutta intera (Mt 8,28-34 e par.). La morte colpisce e getta nell’afflizione.74

Ma è soprattutto la miseria morale a attirare l’attenzione. Si constata che l’umanità si trova in una situazione di peccato che provoca rischi estremi.75 Di conseguenza l’appello alla conversione si fa pressante. La predicazione di Giovanni Battista lo fa risuonare con forza nel deserto; 76 a lui subentra poi Gesù; « egli proclamava il vangelo di Dio e diceva: […] convertitevi e credete al vangelo » (Mc 1,14-15); « percorreva tutte le città e i villaggi » (Mt 9,35). Denunciava il male « che esce dall’essere umano » e lo « contamina » (Mc 7,20). « Dal di dentro infatti, dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutto questo male esce dal di dentro e rende l’essere umano impuro ».77 Nella parabola del figlio prodigo, Gesù descrive lo stato di profonda miseria in cui si trova ridotta la persona umana quando si allontana dalla casa del Padre (Lc 15,13-16).

D’altra parte, egli parlava delle persecuzioni subite dalle persone votate alla causa della « giustizia » (Mt 5,10) e annunciava che i suoi discepoli sarebbero stati perseguitati.78 Egli stesso lo era stato (Gv 5,16); cercavano di metterlo a morte.79 Questa intenzione omicida finisce per trovare i modi di realizzarsi. La passione di Gesù fu allora una manifestazione estrema della miseria morale dell’umanità. Non vi mancò nulla: tradimento, rinnegamento, abbandono, processo e condanna ingiusti, oltraggi e maltrattamenti, supplizio crudele accompagnato da derisioni. La malvagità umana si scatenò contro « il Santo e il Giusto » (At 3,14) e lo ridusse a uno stato di orribile miseria.

È nella lettera di Paolo ai Romani che si trova la descrizione più fosca della miseria morale dell’umanità (Rm 1,18–3,20) e l’analisi più penetrante della condizione dell’uomo peccatore (Rm 7,14-25). Il quadro che l’apostolo traccia di « ogni empietà e ingiustizia degli uomini che tengono la verità prigioniera dell’ingiustizia » è veramente opprimente. Il rifiuto di rendere gloria a Dio e di ringraziarlo porta a un completo accecamento e alle peggiori perversioni (1,21-32). Paolo si preoccupa di mostrare che la miseria morale è universale e che l’ebreo non ne è esente, malgrado il privilegio che ha di conoscere la Legge (2,17-24). Egli basa la sua tesi su una lunga serie di testi dell’Antico Testamento, che affermano che tutti gli uomini sono peccatori (3,10-18): « Non c’è nessun giusto, nemmeno uno ».80 L’aspetto esclusivo di questa negazione non è certo frutto dell’esperienza, ma ha piuttosto il carattere di un’intuizione teologica di ciò che l’uomo diventa senza la grazia di Dio: il male regna nel cuore di ciascuno (cf Sal 51,7). Questa intuizione è rafforzata in Paolo dalla convinzione che Cristo« è morto per tutti »; 81 tutti avevano quindi bisogno di redenzione. Se il peccato non fosse universale, ci sarebbero persone che non avrebbero bisogno di redenzione.

La Legge non reca rimedio al peccato, perché l’uomo peccatore, anche se riconoscesse la bontà della Legge e volesse osservarla, deve purtroppo constatare: « il bene che voglio non lo compio, mentre il male che non voglio lo compio » (Rm 7,19). La potenza del peccato si serve della stessa Legge per manifestare ancora di più tutta la sua virulenza, facendola violare (7,13). E il peccato causa la morte,82 il che provoca, da parte dell’uomo peccatore, una crisi di disperazione: « Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? » (Rm 7,24). Si manifesta così un urgente bisogno di redenzione.

In un registro completamente diverso, ma con forza ancora maggiore, il libro dell’Apocalisse testimonia anch’esso i guasti che il male produce nel cuore degli uomini. Esso descrive « Babilonia », « la grande prostituta », che ha trascinato nei suoi abomini « i re della terra » e « gli abitanti della terra » e che è « ebbra del sangue dei santi e dei testimoni di Gesù » (Ap 17,1-6). « I suoi peccati si sono accumulati fino al cielo » (18,5). Il male scatena terribili calamità. L’ultima parola, però, non sarà sua. Babilonia crolla (18,2); dal cielo discende « la città santa, la Gerusalemme nuova », « dimora di Dio con gli uomini » (21,2-3). Alla proliferazione del male si oppone la salvezza che viene da Dio.

3. Dio, liberatore e salvatore

a) Nell’Antico Testamento

31. Fin dall’inizio della sua storia, al momento dell’uscita dall’Egitto, Israele fa l’esperienza del signore come liberatore e salvatore: tale è la testimonianza della Bibbia, che descrive come Israele sia stato strappato alla dominazione egiziana al momento della traversata del mare (Es 14,21-31). La traversata miracolosa del mare diventa uno dei temi principali della lode di Dio.83 L’uscita dall’Egitto, insieme all’ingresso nella terra promessa (Es 15,17), diventa l’affermazione principale della confessione di fede.84

Un significato teologico deve essere riconosciuto alle formulazioni di cui si serve l’Antico Testamento per esprimere l’intervento del Signore in questo evento salvifico, fondamentale per Israele: il signore « ha fatto uscire » Israele dall’Egitto, « la casa di schiavitù » (Es 20,2; Dt 5,6), l’ha « fatto salire » verso una « terra bella e spaziosa, dove scorre latte e miele » (Es 3,8.17), l’ha « strappato » ai suoi oppressori (Es 6,6; 12,27), l’ha « riscattato », come si riscattano gli schiavi (padah: Dt 7,8) o facendo valere i diritti di parentela (ga’al: Es 6,6; 15,13).

Nella terra di Canaan, in continuità con l’esperienza dell’uscita dall’Egitto, Israele beneficia nuovamente dell’intervento liberatore e salvatore di Dio. Oppresso da popoli nemici in seguito alla sua infedeltà verso Dio, Israele invoca questi in suo aiuto. Il Signore suscita allora un « giudice » come « salvatore ».85

Nella triste situazione dell’esilio — dopo la perdita della terra —, al Secondo Isaia, profeta di cui si ignora il nome, spettò il compito di annunciare agli esiliati un messaggio inaudito: il Signore stava per ripetere il suo intervento liberatore iniziale — quello dell’uscita dall’Egitto —, rendendolo ancora più grande. Alla discendenza dei suoi eletti, Abramo e Giacobbe (Is 41,8), egli si sarebbe manifestato come « redentore » (go’el), sottraendola ai suoi padroni stranieri, i Babilonesi.86 « Io, io sono il signore, fuori di me non v’è salvezza » (Is 43,11-12). Come « salvatore » e « redentore » d’Israele, il signore sarà riconosciuto da tutti i mortali (Is 49,26).

Dopo il ritorno degli esiliati, presentato come imminente dal Secondo Isaia e diventato presto realtà — ma in modo poco spettacolare —, si fece strada la speranza di una liberazione escatologica: alcuni eredi del profeta esilico annunciarono il compimento, ancora futuro, della redenzione d’Israele come intervento divino della fine dei tempi.87 Anche il principe messianico della fine dei tempi può essere presentato come salvatore d’Israele (Mic 4,14–5,5).

In molti salmi, la salvezza assume un aspetto individuale. Alle prese con la malattia o con intrighi ostili, l’israelita ha la possibilità di invocare il Signore per ottenere di essere preservato dalla morte o dall’oppressione.88 Egli può ugualmente domandare l’aiuto di Dio per il re (Sal 20,10); ha fiducia nell’intervento salvifico di Dio (Sal 55,17-19). Viceversa, i fedeli e in particolare il re (Sal 18 = 2 Sam 22) rendono grazie al Signore per l’aiuto ottenuto e per la fine dell’oppressione.89

Israele spera, inoltre, che il Signore lo « redimerà da tutte le sue colpe » (Sal 130,8).

In alcuni testi appare l’idea di una salvezza dopo la morte. Ciò che per Giobbe era solo un barlume di speranza (« il mio redentore è vivo »: Gb 19,25) diventa speranza ferma in un salmo: « Ma Dio riscatterà la mia vita, mi strapperà dal potere degli inferi » (Sal 49,16). In Sal 73,24 il salmista dice pure: « E poi mi accoglierai nella gloria ». Dio può quindi non solo stroncare la potenza della morte e impedirle di separare da lui il suo fedele (Sal 6,5-6), ma anche condurlo al di là della morte a renderlo partecipe della sua gloria.

Il libro di Daniele e gli scritti deuterocanonici riprendono il tema e gli danno nuovi sviluppi. Secondo l’attesa apocalittica, la glorificazione dei « saggi » (Dan 12,3) — si tratta forse delle persone rimaste fedeli alla Legge nonostante la persecuzione — farà seguito alla risurrezione dei morti (12,2). La ferma speranza di una risurrezione dei martiri « per una vita eterna » (2 Mac 7,9) trova una forte espressione nel secondo libro dei Maccabei.90 Secondo il libro della Sapienza, « gli uomini furono istruiti […] e salvati dalla Sapienza » (Sap 9,19). Poiché il giusto è « figlio di Dio », Dio « verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari » (2,18), preservandolo dalla morte o salvandolo al di là della morte, perché « la speranza » dei giusti è « piena di immortalità » (3,4).

b) Nel Nuovo Testamento

32. Il Nuovo Testamento si colloca in continuità con l’Antico Testamento nella presentazione di Dio come salvatore. Fin dall’inizio del vangelo di Luca, Maria esalta Dio, suo « salvatore » (Lc 1,47) e Zaccaria benedice « il Signore, Dio d’Israele perché ha […] operato una redenzione per il suo popolo » (Lc 1,68); il tema della salvezza ricorre quattro volte nel « Benedictus »,91 con successive precisazioni: si passa dal desiderio di essere liberati dai nemici (1,71.74) a quello di essere liberati dai peccati (1,77). Paolo proclama che il vangelo è « potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede » (Rm 1,16).

Nell’Antico Testamento, per operare la liberazione e la salvezza, Dio si serve di strumenti umani che, come abbiamo visto, ricevono talvolta il titolo di salvatore, attribuito più spesso a Dio stesso. Nel Nuovo Testamento il titolo di « redentore » (lytrotes), che ricorre solo una volta, è attribuito a Mosè, inviato come tale da Dio (At 7,35).92 Il titolo « salvatore » è invece attribuito a Dio e a Gesù. Il nome stesso di Gesù evoca la salvezza concessa da Dio; il primo vangelo lo nota subito e precisa che si tratta di una salvezza spirituale: il bambino concepito dalla vergine Maria « sarà chiamato Gesù, perché salverà il suo popolo dai suoi peccati » (Mt 1,21). Nel vangelo di Luca gli angeli annunciano ai pastori: « Oggi vi è nato un salvatore » (Lc 2,11). Il IV vangelo allarga la prospettiva facendo proclamare dai samaritani che Gesù « è veramente il salvatore del mondo » (Gv 4,42).

Nei vangeli, negli Atti degli apostoli e nelle lettere autentiche di Paolo, il Nuovo Testamento è molto discreto nell’uso del titolo di salvatore.93 Questa discrezione viene spiegata col fatto che l’uso di questo titolo era molto diffuso nel mondo ellenistico; era attribuito a divinità come Asclepio, un dio guaritore, e a sovrani divinizzati che si presentavano come salvatori del popolo. Poteva perciò apparire ambiguo. Inoltre, la nozione di salvezza, nel mondo greco, aveva una forte connotazione individualistica e fisica, mentre la nozione neotestamentaria, ereditata dall’Antico Testamento, aveva un’ampiezza collettiva e un’apertura spirituale. Col tempo, però, il rischio di ambiguità scomparve e le lettere pastorali e la seconda lettera di Pietro utilizzano spesso il titolo di salvatore applicandolo sia a Dio che a Cristo.94

Nella vita pubblica di Gesù, la forza della salvezza che si trova in lui non si manifesta soltanto sul piano spirituale, come in Lc 19,9-10, ma anche — e spesso — sul piano corporale. Gesù salva i malati guarendoli.95 Egli osserva: « La tua fede ti ha salvato ».96 I suoi discepoli lo implorano di salvarli dal pericolo ed egli li salva.97 Libera perfino dalla morte.98 Quando è sulla croce i suoi avversari gli ricordano, deridendolo, che « ha salvato gli altri » e lo sfidano a « salvare se stesso scendendo dalla croce ».99 Ma Gesù rifiuta per se stesso questo genere di salvezza, perché è venuto per « dare la propria vita in riscatto (lytron: strumento di liberazione) per molti. 100 Alcuni avrebbero voluto fare di lui un liberatore nazionale, 101 ma egli aveva rifiutato. La salvezza che egli arrecava era di tutt’altro genere.

La relazione tra la salvezza e il popolo ebraico diventa l’oggetto esplicito della riflessione teologica di Giovanni: « La salvezza viene dai Giudei » (Gv 4,22). Questa affermazione di Gesù si situa in un contesto di opposizione tra il culto ebraico e il culto samaritano, opposizione che sarà superata di fatto dall’instaurazione di un’adorazione « in spirito e verità » (4,23). Alla fine dell’episodio, i samaritani riconoscono che Gesù è « il salvatore del mondo » (4,42).

Il titolo di salvatore è attribuito in modo speciale a Gesù risorto, perché, con la risurrezione, « Dio lo ha innalzato con la sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele la conversione e il perdono dei peccati » (At 5,31). La prospettiva è escatologica. « Salvatevi », dice Pietro, « da questa generazione perversa » (At 2,40) e Paolo presenta Gesù risorto, ai pagani convertiti, come « colui che ci libera dall’ira ventura » (1 Ts 1,10). « Giustificati ora per il suo sangue, a maggior ragione saremo salvati dall’ira per mezzo di lui » (Rm 5,9).

Questa salvezza era promessa al popolo d’Israele, ma anche le « nazioni » possono ora parteciparvi, perché il vangelo è « una potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco ». 102 La speranza di salvezza, che si esprime così spesso e con tanta forza nell’Antico Testamento, trova il suo compimento nel Nuovo.

4. L’elezione d’Israele

a) Nell’Antico Testamento

33. Dio è liberatore e salvatore prima di tutto di un piccolo popolo — situato con altri tra due grandi imperi — perché ha scelto questo popolo per sé, separandolo dagli altri in vista di una speciale relazione con lui e di una missione nel mondo. L’idea dell’elezione è fondamentale per la comprensione dell’Antico Testamento e di tutta la Bibbia.

L’affermazione secondo la quale il signore ha « scelto » (bahar) Israele è un tema dominante dell’insegnamento del Deuteronomio. La scelta che il Signore ha fatto d’Israele si è manifestata con l’intervento divino per liberarlo dall’Egitto e con il dono di una terra. Il Deuteronomio nega espressamente che la scelta divina sia stata motivata dalla grandezza d’Israele o dalla sua perfezione morale: « Riconosci che non a causa della tua giustizia il signore tuo Dio ti dà il possesso di questo fertile paese, perché tu sei un popolo di dura cervice » (9,6). L’unico fondamento della scelta di Dio è stato il suo amore e la sua lealtà: « perché vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri » (7,8).

Scelto da Dio, Israele è chiamato a essere un « popolo santo » (Dt 7,6; 14,2). Il termine « santo » (qadôš) esprime una situazione che consiste, negativamente, nell’essere separato da ciò che è profano e, positivamente, nell’essere consacrato al servizio di Dio. Utilizzando l’espressione « popolo santo », il Deuteronomio mette in grande rilievo la situazione unica d’Israele, nazione introdotta nel campo del sacro, diventata proprietà particolare di Dio e oggetto di speciale protezione. Contemporaneamente si sottolinea l’importanza della risposta d’Israele all’iniziativa divina e quindi la necessità di una condotta appropriata. In questo modo, la teologia dell’elezione mette in luce al tempo stesso lo status di distinzione e la speciale responsabilità del popolo che, tra tutti gli altri, è stato scelto per essere proprietà particolare di Dio 103 e per essere santo, perché Dio è santo. 104

Nel Deuteronomio, il tema dell’elezione non riguarda unicamente il popolo. Una delle esigenze fondamentali di questo libro è che il culto del Signore sia celebrato nel luogo che il Signore avrà scelto. L’elezione del popolo appare nell’introduzione parenetica alle leggi, ma, nelle stesse leggi, l’elezione divina si concentra sul santuario unico. 105 Altri libri precisano il luogo in cui si trova questo santuario e mettono questa scelta divina in relazione con l’elezione di una tribù e di una persona. La tribù scelta è quella di Giuda, preferita a Efraim; 106 la persona scelta è Davide. 107 Costui conquista Gerusalemme e la fortezza di Sion, che diventa « Città di Davide » (2 Sam 5,6-7) e vi fa trasportare l’arca dell’alleanza (2 Sam 6,12). È così che il Signore ha scelto Gerusalemme (2 Cr 6,5) e, più precisamente, Sion (Sal 132,13) per sua dimora.

In epoche di confusione e di tormenti, quando non sembra esserci futuro per gli Israeliti, la certezza di essere il popolo di Dio sostiene la loro speranza nella misericordia di Dio e nella fedeltà alle sue promesse. Durante l’esilio, il Secondo Isaia riprende il tema dell’elezione 108 per consolare gli esiliati, che avevano l’impressione di essere stati abbandonati da Dio (Is 49,14). L’esecuzione del giudizio di Dio non aveva posto fine all’elezione d’Israele; questa manteneva la sua validità, perché poggiava sull’elezione dei patriarchi.109 All’idea di elezione, il Secondo Isaia collega quella di servizio, presentando Israele come « Servo del signore »,110 destinato a essere « luce delle nazioni » (49,6). Questi testi mostrano chiaramente che l’elezione, base della speranza, comportava una responsabilità: Israele doveva essere, davanti alle nazioni, il « testimone » del Dio unico.111 Portando questa testimonianza, il Servo arriverà a conoscere il signore quale egli è (43,10).

L’elezione d’Israele non implica il rifiuto delle altre nazioni. Al contrario, presuppone che anch’esse appartengono a Dio, perché « a lui appartiene la terra e quanto essa contiene » (Dt 10,14), e Dio « ha stabilito per le nazioni i loro confini » (32,8). Quando Israele viene chiamato da Dio « mio figlio primogenito » (Es 4,22; Ger 31,9) o « la primizia del suo raccolto » (Ger 2,3), queste metafore implicano che le altre nazioni fanno ugualmente parte della famiglia e della casa di Dio. Questa interpretazione dell’elezione è tipica della Bibbia nel suo insieme.

34. Nella sua dottrina dell’elezione d’Israele, il Deuteronomio, come abbiamo detto, mette l’accento sull’iniziativa divina, ma anche sull’aspetto esigente della relazione tra Dio e il suo popolo. La fede nell’elezione poteva, tuttavia, irrigidirsi in orgoglioso sentimento di superiorità. I profeti si sono preoccupati di lottare contro questa deviazione. Un oracolo di Amos relativizza l’elezione e attribuisce ad altre nazioni il privilegio di un esodo paragonabile a quello di cui Israele è stato beneficiario (Am 9,7). Un altro oracolo dichiara che l’elezione ha come conseguenza, da parte di Dio, una maggiore severità: « Soltanto voi ho eletto tra tutte le stirpi della terra; perciò io vi farò scontare tutte le vostre iniquità » (Am 3,2). Amos conferma che il Signore ha scelto Israele in un modo speciale e unico. In questo contesto, il verbo « conoscere » ha un significato più profondo e più intimo di quello di una presa di coscienza dell’esistenza, esprimendo un’azione personale intima piuttosto che una semplice operazione intellettuale. Ma questa relazione comporta delle esigenze morali specifiche. Essendo popolo di Dio, Israele deve vivere come tale. Se viene meno a questo dovere, riceverà la « visita » di una giustizia divina più severa che nel caso delle altre nazioni.

Per Amos era chiaro che elezione significa responsabilità piuttosto che privilegio. È evidente che in primo luogo viene la scelta e poi l’esigenza. Nondimeno, l’elezione d’Israele da parte di Dio implica un livello più alto di responsabilità. Ricordandolo, il profeta eliminava l’illusione che faceva credere che il popolo eletto avesse presa su Dio.

L’indocilità ostinata del popolo e dei suoi re provocò la catastrofe dell’esilio, annunciata dai profeti. « Il signore decise: Anche Giuda allontanerò dalla mia presenza, come ho allontanato Israele; respingerò questa città, Gerusalemme, che mi ero scelta, e il Tempio di cui avevo detto: “Ivi sarà il mio nome” » (2 Re 23,27). Questa decisione di Dio produsse tutto il suo effetto (2 Re 25,1-21). Ma nel momento in cui si diceva: « Il signore ha ripudiato le due famiglie che si era scelte » (Ger 33,24), il Signore smentiva formalmente questa affermazione: « No! cambierò la loro sorte perché avrò compassione di essi » (Ger 33,26). Già il profeta Osea aveva annunciato che quando Israele sarebbe diventato per Dio « Non-mio-popolo » (Os 1,8), Dio gli avrebbe detto: « Tu sei mio popolo » (Os 2,25). Gerusalemme doveva essere ricostruita; al Tempio riedificato il profeta Aggeo predice una gloria più grande di quella del Tempio di Salomone (Ag 2,9). L’elezione veniva così confermata solennemente.

b) Nel Nuovo Testamento

35. L’espressione « popolo eletto » non ricorre nei vangeli, ma la convinzione che Israele sia il popolo scelto da Dio è in essi un dato basilare espresso con altri termini. Matteo applica a Gesù un oracolo di Michea in cui Dio parla d’Israele come del suo popolo; del bimbo nato a Betlemme Dio dice: « Pascerà il mio popolo, Israele » (Mt 2,6; Mic 5,3). La scelta di Dio e la sua fedeltà verso il popolo eletto si riflettono poi nella missione affidata da Dio a Gesù: mi ha inviato solo « alle pecore perdute della casa d’Israele » (Mt 15,24); Gesù stesso limita con parole identiche la prima missione dei suoi « dodici apostoli » (Mt 10,2. 5-6).

Ma l’opposizione che Gesù incontra nei notabili provoca un mutamento di prospettiva. Concludendo la parabola dei vignaioli omicidi, indirizzata ai « sommi sacerdoti » e agli « anziani del popolo » (Mt 21,23), Gesù dichiara: « Il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato a una nazione che lo farà fruttificare » (21,43). Quest’affermazione non significa comunque la sostituzione del popolo d’Israele con una nazione pagana. La nuova « nazione » sarà, al contrario, in continuazione con il popolo eletto perché avrà come « testata d’angolo » la « pietra scartata dai costruttori » (21,42), che è Gesù, un figlio d’Israele, e sarà composta da Israeliti, ai quali si uniranno « molti » (Mt 8,11) provenienti da « tutte le nazioni » (Mt 28,19). La promessa della presenza di Dio nel suo popolo, che era una così importante garanzia dell’elezione d’Israele, trova il suo compimento nella presenza del Signore risorto nella sua comunità. 112

Nel vangelo di Luca, il cantico di Zaccaria proclama che « il Dio d’Israele ha visitato il suo popolo » (Lc 1,68) e che la missione del figlio di Zaccaria consisterà nel « camminare alla presenza del Signore » e nel « dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nel perdono dei suoi peccati » (1,76-77). Al momento della presentazione del bambino Gesù al tempio, Simeone qualifica la salvezza apportata da Dio come « gloria del tuo popolo Israele » (2,32). Più tardi, un grande miracolo compiuto da Gesù provoca la seguente acclamazione della folla: « Dio ha visitato il suo popolo » (7,16).

Per Luca esiste tuttavia una tensione, a causa dell’opposizione incontrata da Gesù. Ma questa opposizione viene dai dirigenti del popolo, non dal popolo stesso, che è molto favorevole a Gesù. 113 Negli Atti degli apostoli, Luca sottolinea che un gran numero di coloro che ascoltano Pietro accoglie il suo appello al pentimento, il giorno di Pentecoste e dopo. 114 Al contrario, il racconto degli Atti sottolinea che, per tre volte, in Asia Minore, in Grecia e a Roma, l’opposizione accanita dei Giudei costringe Paolo a orientare la sua missione verso i Gentili. 115

A Roma, Paolo ricorda ai notabili ebrei l’oracolo di Isaia che aveva predetto l’indurimento di « questo popolo ». 116 Si trovano così nel Nuovo Testamento, come nell’Antico, due prospettive differenti sul popolo scelto da Dio.

Si constata, al tempo stesso, che l’elezione d’Israele non è un privilegio chiuso in se stesso. Già l’Antico Testamento annunciava l’adesione di « tutte le nazioni » al Dio d’Israele. 117 Sulla stessa linea, Gesù annuncia che « molti verranno da oriente e da occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe ».118 Gesù, risorto, estende al « mondo intero » la missione degli apostoli e l’offerta della salvezza.119

Di conseguenza, la prima lettera di Pietro, che si rivolge a dei credenti provenienti soprattutto dal paganesimo, definisce quest’ultimi « stirpe eletta »120 e « nazione santa »,121 come quelli proveniente dal giudaismo. Essi, che non erano un popolo, sono ora « popolo di Dio ».122 La seconda lettera di Giovanni chiama « Signora eletta » (v. 1) la comunità cristiana alla quale è indirizzata e « tua sorella l’eletta » (v. 13) la comunità dalla quale viene inviata. A dei pagani di recente conversione, l’apostolo Paolo non esita a dichiarare: « Conoscendo, fratelli amati da Dio, la vostra elezione… » (1 Ts 1,4). La convinzione di essere partecipi dell’elezione divina veniva così comunicata a tutti i cristiani.

36. Nella sua lettera ai Romani, Paolo precisa chiaramente che si tratta, per i cristiani provenienti dal paganesimo, di una partecipazione all’elezione d’Israele, unico popolo di Dio. I Gentili sono l’« oleastro », « innestato sull’olivo buono » per « beneficiare della ricchezza della radice » (Rm 11,17.24). Non devono pertanto gloriarsi a spese dei rami. « Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te » (11,18).

All’interrogativo se l’elezione d’Israele conservi sempre la sua validità, Paolo dà due risposte differenti; la prima consiste nel dire che alcuni rami sono stati recisi, a causa del loro rifiuto della fede (11,17.20), ma « c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia » (11,5). Non si può perciò dire che Dio abbia ripudiato il suo popolo (11,1-2). « Israele non ha ottenuto quello che cercava; l’ha ottenuto invece l’elezione — cioè il resto eletto —; gli altri si sono induriti » (11,7). Una seconda risposta consiste nel dire che quei Giudei che sono diventati « nemici quanto al vangelo » restano « amati, quanto all’elezione, a causa dei padri » (11,28) e Paolo prevede che otterranno perciò misericordia (11,27.31). Gli ebrei non cessano di essere chiamati a vivere per la fede nell’intimità di Dio, « perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili » (11,29).

Il Nuovo Testamento non afferma mai che Israele è stato ripudiato. Fin dai primi tempi, la Chiesa ha ritenuto che gli ebrei restano testimoni importanti dell’economia divina della salvezza. Essa comprende la propria esistenza come una partecipazione all’elezione d’Israele e alla vocazione che resta, in primo luogo, quella d’Israele, sebbene solo una piccola parte d’Israele l’abbia accettata.

Quando Paolo parla della provvidenza di Dio come del lavoro di un vasaio che prepara per la sua gloria « vasi di misericordia » (Rm 9,23), non intende dire che questi vasi rappresentino in modo esclusivo o principale dei Gentili, ma che rappresentano dei Gentili e dei Giudei, con una certa priorità per quest’ultimi: « egli ci ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani » (9,24).

Paolo ricorda che Cristo, « nato sotto la Legge » (Gal 4,4), è stato « servitore dei circoncisi, in nome della fedeltà di Dio, per confermare le promesse fatte ai padri » (Rm 15,8), il che vuol dire che Cristo, non solo è stato circonciso, ma si è messo a servizio dei circoncisi e ciò per il fatto che Dio si era impegnato verso i patriarchi facendo loro delle promesse, la cui validità veniva dimostrata. « Quanto ai Gentili, aggiunge l’apostolo, essi glorificano Dio per la sua misericordia » (Rm 15,9) e non per la sua fedeltà, perché il loro ingresso nel popolo di Dio non scaturisce da promesse divine; è una specie di supplemento non dovuto. Saranno quindi prima gli ebrei a lodare Dio in mezzo alle nazioni; essi inviteranno poi le nazioni a rallegrarsi con il popolo di Dio (15,9b-10).

Paolo stesso ricorda spesso con fierezza la propria origine ebraica. 123 In Rm 11,1 ricorda la sua condizione di « israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino », come prova che Dio non ha ripudiato il suo popolo. In 2 Cor 11,22 presenta questa stessa condizione come titolo di gloria che mette in parallelo con il suo titolo di ministro di Cristo (11,23). È vero che, secondo Fil 3,7, questi vantaggi che erano per lui un guadagno, li ha « considerati una perdita a causa di Cristo ». Ma il motivo stava nel fatto che questi vantaggi, invece di condurlo a Cristo, l’avevano allontanato da lui.

In Rm 3,1-2 Paolo afferma senza esitare « la superiorità del Giudeo e l’utilità della circoncisione », e ne dà una prima ragione, di capitale importanza: « a loro sono state affidate le rivelazioni di Dio ». Altre ragioni vengono esposte più avanti, in Rm 9,4-5, e formano una serie impressionante di doni di Dio e non soltanto di promesse: agli Israeliti appartengono « l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne » (Rm 9,4-5).

Paolo, tuttavia, afferma subito che non basta appartenere fisicamente a Israele per appartenere veramente a lui ed essere « figli di Dio ». Bisogna anzitutto essere « figli della promessa » (Rm 9,6-8), il che, nel pensiero dell’apostolo, implica l’adesione a Cristo Gesù, nel quale « tutte la promesse di Dio sono divenute ‘sì’ » (2 Cor 1,20). Secondo la lettera ai Galati, la « discendenza di Abramo » non può essere che unica; essa si identifica con Cristo e quelli che appartengono a lui (Gal 3,16.19). Ma l’apostolo sottolinea che « Dio non ha ripudiato il suo popolo » (Rm 11,2). Poiché « la radice è santa » (11,16), Paolo resta nella sua convinzione che alla fine Dio, nella sua sapienza insondabile, innesterà nuovamente tutti gli Israeliti sull’olivo buono (11,24); « tutto Israele sarà salvato » (11,26).

È per le nostre radici comuni e per questa prospettiva escatologica che la Chiesa riconosce al popolo ebraico uno status speciale di « fratello maggiore », il che gli conferisce una posizione unica tra tutte le altre religioni. 124

5. L’alleanza

a) Nell’Antico Testamento

37. Come abbiamo già visto, l’elezione d’Israele presenta un duplice aspetto: è un dono d’amore da cui ne consegue un’esigenza corrispondente. L’alleanza conclusa al Sinai mette maggiormente in luce questo duplice aspetto.

Come la teologia dell’elezione, anche quella dell’alleanza è da cima a fondo teologia del popolo del signore. Adottato dal Signore e diventato suo figlio (cf Es 3,10; 4,22-23), Israele riceve l’ordine di vivere in fedeltà esclusiva e in totale impegno verso di lui. Pertanto, per sua stessa definizione, la nozione di alleanza si oppone alla falsa convinzione secondo la quale l’elezione d’Israele sarebbe automaticamente una garanzia della sua esistenza e della sua felicità. L’elezione doveva essere compresa piuttosto come una vocazione che Israele aveva il dovere di realizzare nella sua vita come popolo. L’aver contratto un’alleanza esigeva una scelta e una decisione da parte d’Israele, così come da parte di Dio. 125

Oltre al suo uso nel racconto del Sinai. 126 (Es 24,3-8), il termine berît, tradotto generalmente con « alleanza », appare in diverse tradizioni bibliche, in particolare quelle riguardanti Noè, Abramo, Davide, Levi e il sacerdozio levitico; è frequente nel Deuteronomio e nella storia deuteronomistica. In ogni contesto, il termine ha sfumature di significato differenti. La traduzione abituale di berît, con « alleanza » è talvolta non appropriata. Il termine può avere il senso più ampio di « impegno », trovarsi in parallelismo con « giuramento » ed esprimere una promessa o una solenne assicurazione.

Impegno verso Noè(Gn 9,8-17). Dopo il diluvio, Dio annuncia a Noè e ai suoi figli che assumerà un impegno (berît,) con loro e con ogni essere vivente. Nessun obbligo viene imposto a Noè né ai suoi discendenti. Dio s’impegna di propria iniziativa e senza riserve. Questo impegno incondizionato di Dio con la sua creazione è alla base di ogni vita. Il suo carattere unilaterale, cioè senza esigenze imposte alla controparte, emerge chiaramente dal fatto che questo impegno include esplicitamente gli animali (« tutti quelli che sono usciti dall’arca »: 9,10). Come segno dell’impegno assunto da Dio viene dato l’arcobaleno. Quando apparirà tra le nubi, Dio si ricorderà del suo « impegno eterno » verso « ogni carne che è sulla terra » (9,16).

Impegno verso Abramo(Gn 15,1-25; 17,1-26). Secondo Gn 15, il signore prende un impegno verso Abramo, espresso in questi termini: « Alla tua discendenza io do questo paese » (15,18). Il racconto non fa menzione di un obbligo reciproco. Il carattere unilaterale dell’impegno viene confermato dal rito solenne che precede la dichiarazione divina. Si tratta di un rito di auto-imprecazione: passando tra le due metà degli animali uccisi, la persona che assume l’impegno chiama su di sé una sorte simile, nel caso venisse meno ai suoi obblighi (cf Ger 34,18-20). Se, in Gn 15, si fosse trattato di un’alleanza con obblighi reciproci, le due parti avrebbero dovuto partecipare al rito. Invece non è così: solo il signore, rappresentato da una « torcia di fuoco » (15,17), passa tra gli animali divisi.

L’aspetto di promessa di Gn 15 si ritrova in Gn 17, ma con l’aggiunta di un comandamento. Dio impone ad Abramo un obbligo generale di perfezione morale (17,1) e una prescrizione positiva particolare, la circoncisione (17,10-14). Le parole: « Cammina alla mia presenza e sii integro » (17,1) mirano a una dipendenza totale e incondizionata in rapporto a Dio. Viene poi promessa (17,2) e definita una berît: promessa di una straordinaria fecondità (17,4-6) e del dono della terra (17,8). Queste promesse sono incondizionate e differiscono in questo dall’alleanza del Sinai (Es 19,5-6). Il termine berît appare 17 volte in questo capitolo con il suo significato fondamentale di assicurazione solenne, ma mira a qualcosa di più di una promessa: viene qui creato un legame eterno tra Dio e Abramo, compresa la sua discendenza: « sarò il vostro Dio » (17,8).

La circoncisione è il « segno » dell’impegno verso Abramo, come l’arcobaleno è il segno dell’alleanza con Noè, con la differenza che la circoncisione dipende da una decisione umana. È un segno che identifica coloro che beneficiano della promessa di Dio. Se uno non porta questo segno dovrà essere eliminato dal popolo, perché avrà profanato l’alleanza (17,14).

38. L’alleanza del Sinai. Il testo di Es 19,4-8 mostra il significato fondamentale dell’alleanza di Dio con Israele. Il simbolismo poetico utilizzato — « portare su ali d’aquila » — mostra molto bene come l’alleanza si inserisca molto naturalmente all’interno del processo di profonda liberazione avviato al momento della traversata del mare. Tutta l’idea dell’alleanza risale a questa iniziativa divina. L’atto redentore compiuto dal signore al momento dell’uscita dall’Egitto costituisce per sempre il fondamento dell’esigenza di fedeltà e di docilità verso di lui.

L’unica risposta valida a questo atto redentore è una continua gratitudine, che si esprime con un’obbedienza sincera. « Ora, se mi obbedirete e osserverete la mia alleanza… » (19,5a): questi patti non devono essere considerati una della basi sulle quali posa l’alleanza, ma piuttosto come la condizione da adempiere per continuare a godere delle benedizioni promesse dal Signore al suo popolo. L’accettazione dell’alleanza offerta include, da una parte, degli obblighi e garantisce, dall’altra, uno status speciale: « Sarete la mia proprietà personale (segullah) »; in altre parole: « sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa » (19,5b.6).

Il testo di Es 24,3-8 porta a compimento l’alleanza annunciata in 19,3-8. La ripartizione del sangue in due parti uguali prepara la celebrazione del rito. Una metà del sangue è versata sull’altare, dedicato a Dio, mentre l’altra metà è versata sugli Israeliti radunati, che in questo modo sono consacrati come popolo santo del signore e destinati al suo servizio. L’inizio (19,8) e la fine (24,3.7) del grande evento della fondazione dell’alleanza sono segnati dalla ripetizione di una stessa formula di impegno da parte del popolo: « Quanto il signore ha ordinato, noi lo metteremo in pratica ».

Questo impegno non viene mantenuto. Gli Israeliti adorano il vitello d’oro (Es 32,1-6). Il racconto di questa infedeltà e di quanto ne consegue costituisce una riflessione sulla rottura dell’alleanza e il suo ristabilimento. Il popolo incorre nella collera di Dio, che parla di sterminarlo (32,10). Ma l’intercessione ripetuta di Mosè, 127 l’intervento dei leviti contro gli idolatri (32,26-29) e la penitenza di popolo (33,4-6) ottengono da Dio che receda dal mettere in atto le sue minacce (32,14) e acconsenta di camminare di nuovo con il suo popolo (33,14-17). Dio prende l’iniziativa di ristabilire l’alleanza (34,1-10). Questi capitoli riflettono la convinzione che, fin dall’inizio, Israele è stato incline a essere infedele all’alleanza, mentre Dio, al contrario, ha sempre riallacciato le relazioni.

L’alleanza è certamente un modo umano di concepire le relazioni di Dio con il suo popolo. Come tutte le concezioni umane di questo tipo, si tratta di un’espressione imperfetta della relazione tra il divino e l’umano. L’obiettivo dell’alleanza viene definito in modo molto semplice: « Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo » (Lv 26,12; cf Es 6,7). L’alleanza non dev’essere compresa come un semplice contratto bilaterale, perché Dio non può essere sottomesso ad obblighi allo stesso modo delle persone umane. Nondimeno, l’alleanza permetteva agli Israeliti di far appello alla fedeltà di Dio. Israele non era stato il solo a impegnarsi. Il signore si era impegnato a dare la terra come pure la sua presenza benefica in mezzo al popolo.

L’alleanza nel Deuteronomio. Il Deuteronomio così come la redazione dei libri storici che ne dipendono (Gs – Re) distinguono il « giuramento ai padri » riguardante il dono del paese (Dt 7,12; 8,18) e l’alleanza con la generazione dell’Oreb (5,2-3). Questa alleanza è come un giuramento di fedeltà al Signore (2 Re 23,1-3). Destinata da Dio a essere permanente (Dt 7,9.12), essa esige la fedeltà del popolo. Il termine berît si riferisce spesso in modo specifico al decalogo, piuttosto che alla relazione tra il Signore e Israele di cui il decalogo fa parte. Il Signore « vi ha comunicato la sua berît, le dieci parole che vi ha ordinato di osservare ». 128

La dichiarazione di Dt 5,3 merita un’attenzione particolare perché afferma la validità dell’alleanza per la generazione presente (cf anche 29,14). Questo versetto è come una chiave di interpretazione per tutto il libro. La distanza temporale tra le generazioni è abolita. L’alleanza del Sinai è resa attuale; essa è stata conclusa « con noi che siamo qui oggi ».

L’impegno verso Davide. Questa berît, si situa sulla linea di quelle date a Noè e ad Abramo: promessa di Dio senza un obbligo corrispondente per il re. Davide e la sua casa godono ormai del favore di Dio, che s’impegna con giuramento per un’« alleanza eterna ». 129 La natura di questa alleanza viene definita con queste parole di Dio: « Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio ». 130

Essendo una promessa incondizionata, l’alleanza con la casa di Davide non può essere rotta (Sal 89,29-38). Se il successore di Davide commette delle mancanze, Dio lo punirà come un padre punisce il proprio figlio, ma non ritirerà da lui il suo favore (2 Sam 7,14-15). La prospettiva è molto diversa da quella dell’alleanza del Sinai, dove il favore divino è legato a una condizione: il rispetto dell’alleanza da parte d’Israele (Es 19,5-6).

39. Una nuova alleanza in Ger 31,31-34. Al tempo di Geremia, l’incapacità d’Israele a osservare l’alleanza del Sinai si manifesta in modo tragico, provocando la presa di Gerusalemme e la distruzione del Tempio. Ma la fedeltà di Dio verso il suo popolo si manifesta allora con la promessa di una « nuova alleanza », che, dice il Signore, « non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d’Egitto, un’alleanza che essi hanno violato » (Ger 31,32). Venendo dopo l’alleanza del Sinai, la nuova alleanza renderà possibile un nuovo inizio per il popolo di Dio. L’oracolo non annuncia un cambio di legge, ma una nuova relazione con la legge di Dio, nel senso di una interiorizzazione. Invece di essere scritta « su tavole di pietra », 131 la legge sarà scritta da Dio nei « cuori » (Ger 31,33), il che garantirà una docilità perfetta, accettata spontaneamente, invece della continua disubbidienza del passato. 132 Il risultato sarà una vera appartenenza reciproca, una relazione personale di ciascuno con il Signore, che renderà inutili le esortazioni, tanto necessarie prima e tuttavia inefficaci, come avevano sperimentato amaramente i profeti. Questa stupefacente novità avrà come base un’iniziativa estremamente generosa del Signore: il perdono accordato al popolo per tutte le sue colpe.

L’espressione « nuova alleanza » non si incontra altrove nell’Antico Testamento, ma un oracolo del libro di Ezechiele prolunga visibilmente quello di Ger 31,31-34 annunciando alla casa d’Israele il dono di un « cuore nuovo » e di uno « spirito nuovo », che sarà lo Spirito di Dio e assicurerà la docilità alle leggi di Dio. 133

Nel giudaismo del Secondo Tempio alcuni Israeliti vedevano la « nuova alleanza » 134 realizzata nella loro comunità grazie a una più fedele osservanza della Legge di Mosè, secondo le istruzioni di un « maestro di giustizia ». Questo dimostra che al tempo di Gesù e di Paolo l’oracolo del libro di Geremia era oggetto di attenzione. Non sorprenderà perciò vedere l’espressione « nuova alleanza » riapparire più volte nel Nuovo Testamento.

b) Nel Nuovo Testamento

40. Sul tema dell’alleanza di Dio con il suo popolo, gli scritti del Nuovo Testamento si situano in una prospettiva di compimento, cioè di fondamentale continuità e di decisivo progresso, che comporta necessariamente delle rotture su alcuni punti.

La continuità riguarda anzitutto la relazione di alleanza, mentre le rotture riguardano le istituzioni dell’Antico Testamento, che, si riteneva, stabilivano e assicuravano questa relazione. Nel Nuovo Testamento l’alleanza viene stabilita su un fondamento nuovo, la persona e l’opera di Gesù Cristo; la relazione di alleanza ne risulta approfondita e ampliata, aperta a tutti grazie alla fede cristiana.

I vangeli sinottici e gli Atti degli apostoli parlano poco di alleanza. Nei vangeli dell’infanzia, il cantico di Zaccaria (Lc 1,72) proclama il compimento dell’alleanza-promessa data da Dio ad Abramo per la sua discendenza. La promessa mirava all’allacciamento di una relazione reciproca (Lc 1,73-74) tra Dio e questa discendenza.

Nell’ultima Cena, Gesù interviene in modo decisivo, facendo del suo sangue un « sangue di alleanza » (Mt 26,28; Mc 14,24), fondamento della « nuova alleanza » (Lc 22,20; 1 Cor 11,25). L’espressione « sangue di alleanza » ricorda l’instaurazione dell’alleanza del Sinai da parte di Mosè (Es 24,8) e suggerisce quindi un rapporto di continuità con questa alleanza, ma le parole di Gesù manifestano al tempo stesso un aspetto di radicale novità, perché, mentre l’alleanza del Sinai aveva comportato un rito di aspersione con il sangue di animali immolati, l’alleanza di Cristo è fondata sul sangue di un essere umano che trasforma la sua morte di condannato in dono generoso, facendo così di un evento di rottura un evento di alleanza.

Dicendo « nuova alleanza », l’espressione di Paolo e di Luca rende esplicita questa novità. Ma al tempo stesso segna la continuità dell’evento con un altro testo dell’Antico Testamento, l’oracolo di Ger 31,31-34, che annunciava che Dio avrebbe stabilito una « nuova alleanza ». La frase di Gesù sulla coppa proclama che la profezia del libro di Geremia è compiuta nella sua passione. I suoi discepoli partecipano a questo compimento grazie alla loro partecipazione alla « cena del Signore » (1 Cor 11,20).

Negli Atti degli apostoli (3,25) Pietro fa allusione all’alleanza-promessa. Egli si rivolge ai Giudei (3,12), ma il testo che cita riguarda al tempo stesso « tutte le nazioni della terra » (Gn 22,18). Viene così espressa l’apertura universale dell’alleanza.

L’Apocalisse presenta uno sviluppo caratteristico: in occasione della visione escatologica della « Gerusalemme nuova », viene pronunciata la formula dell’alleanza, amplificata: « ed essi saranno suoi popoli ed Egli, Dio con loro, sarà il loro Dio » (21,3).

41. Le lettere di Paolo trattano più di una volta della questione dell’alleanza. La « nuova alleanza » fondata nel sangue di Cristo (1 Cor 11,25) ha una dimensione verticale di unione al Signore con la « comunione al sangue di Cristo » (1 Cor 10,16) e una dimensione orizzontale di unione di tutti i cristiani in un « corpo solo » (1 Cor 10,17).

Il ministero apostolico è a servizio della « nuova alleanza » (2 Cor 3,6), che non è « di lettera » ma « di Spirito », conformemente alle profezie, che promettono che Dio scriverà la sua legge « nei cuori » (Ger 31,33) e darà « uno spirito nuovo », che sarà il suo Spirito.135 Paolo attacca più di una volta l’alleanza-legge del Sinai,136 opponendo ad essa l’alleanza-promessa ricevuta da Abramo. L’alleanza-legge è posteriore e provvisoria (Gal 3,19-25). L’alleanza-promessa è originaria e definitiva (Gal 3,16-18). Essa aveva, fin dall’inizio, un’apertura universale137 e ha trovato in Cristo il suo compimento.138

Paolo si oppone all’alleanza-legge del Sinai, da una parte perché può essere rivale della fede in Cristo (« l’essere umano non è giustificato per le opere della Legge, ma unicamente per la fede di Gesù Cristo »: Gal 2,16; Rm 3,28) e, dall’altra, in quanto sistema legislativo di un popolo particolare, che non deve essere imposto ai credenti venuti dalle « nazioni ». L’apostolo afferma nondimeno il valore di rivelazione dell’« antica diatheke », cioè degli scritti dell’« Antico Testamento », che sono da leggere alla luce di Cristo (2 Cor 3,14-16).

Per Paolo, la fondazione, da parte di Gesù, della « nuova alleanza nel (suo) sangue » (1 Cor 11,25) non implica una rottura dell’alleanza di Dio con il suo popolo, ma ne costituisce il compimento. Paolo annovera ancora « le alleanze » tra i privilegi degli Israeliti, anche se non credono in Cristo (Rm 9,4). Israele continua a trovarsi in una relazione di alleanza ed è sempre il popolo al quale è promesso il compimento dell’alleanza, perché la sua mancanza di fede non può abolire la fedeltà di Dio (Rm 11,29). Anche se gli Israeliti hanno considerato l’osservanza della Legge uno strumento per affermare la propria giustizia, l’alleanza-promessa di Dio, tutta di misericordia (Rm 11,26-27), non può essere annullata. La continuità viene sottolineata dall’affermazione che Cristo è lo scopo e il compimento verso i quali la Legge conduceva il popolo di Dio (Gal 3,24). Per molti Giudei il velo col quale Mosè copriva il suo volto rimane steso sull’Antico Testamento (2 Cor 3,13.15), impedendo loro di riconoscervi la rivelazione di Cristo. Ma questo fa parte del misterioso disegno di salvezza di Dio, il cui scopo finale è la salvezza di « tutto Israele » (Rm 11,26).

Le « alleanze della promessa » sono menzionate esplicitamente in Ef 2,12, per proclamare che il loro accesso è ora aperto alle « nazioni », avendo Cristo abbattuto « il muro di separazione », cioè la Legge, che vietava questo accesso ai non-ebrei (cf Ef 2,14-15).

La lettere paoline manifestano quindi una duplice convinzione: quella dell’insufficienza dell’alleanza legale del Sinai, da una parte, e quella della piena validità dell’alleanza-promessa, dall’altra. Quest’ultima trova il suo compimento nella giustificazione per la fede in Cristo, offerta « al Giudeo prima e poi al Greco » (Rm 1,16). Il rifiuto della fede in Cristo ha messo il popolo ebraico in una situazione drammatica di disobbedienza, ma egli resta « amato » e gli viene promessa la misericordia di Dio (cf Rm 11,26-32).

42. La Lettera agli Ebrei cita in extenso l’oracolo della « nuova alleanza »139 e ne proclama la realizzazione da parte di Cristo, « mediatore di una nuova alleanza ».140 Essa dimostra l’insufficienza delle istituzioni cultuali della « prima alleanza »; sacerdozio e sacrifici erano incapaci di togliere l’ostacolo dei peccati e di stabilire un’autentica mediazione tra il popolo e Dio.141 Queste istituzioni sono state perciò abrogate per far posto al sacrificio e al sacerdozio di Cristo (Eb 7,18-19; 10,9). Cristo, infatti, con la sua obbedienza redentrice (Eb 5,8-9; 10,9-10), ha superato tutti gli ostacoli ed ha aperto a tutti i credenti l’accesso a Dio (Eb 4,14-16; 10,19-22). Il progetto di alleanza annunciato e prefigurato nell’Antico Testamento trova così il suo compimento. Non si tratta di un semplice rinnovamento dell’alleanza del Sinai, ma dello stabilimento di un’alleanza veramente nuova, fondata su una nuova base: l’offerta personale di Cristo (cf 9,14-15).

L’alleanza di Dio con Davide non viene esplicitamente menzionata nel Nuovo Testamento, ma un discorso di Pietro, negli Atti, mette la risurrezione di Gesù in rapporto con il « giuramento » fatto da Dio a Davide (At 2,30), giuramento che designa l’alleanza con Davide in Sal 89,4 e 132, 11. In At 13,34, un discorso di Paolo opera un accostamento simile, utilizzando un’espressione di Is 55,3 (« la cose sante assicurate a Davide ») che, nel testo di Isaia, definisce un’« alleanza eterna ». La risurrezione di Gesù, « figlio di Davide », 142 viene così presentata come il compimento dell’alleanza-promessa data da Dio a Davide.

La conclusione che si trae da tutti questi testi è che i primi cristiani avevano coscienza di trovarsi in profonda continuità con il disegno di alleanza manifestato e realizzato dal Dio d’Israele nell’Antico Testamento. Israele continua a trovarsi in una relazione di alleanza con Dio, perché l’alleanza-promessa è definitiva e non può essere abolita. Ma i primi cristiani avevano coscienza di vivere una nuova tappa di questo disegno, tappa che era stata annunciata dai profeti ed era stata ora inaugurata dal sangue di Gesù, « sangue di alleanza », perché versato per amore (cf Ap 1,5b-6).

6. La Legge

43. Il termine ebraico tôrah, tradotto con « legge », significa più esattamente « istruzione », cioè al tempo stesso insegnamento e direttiva. La tôrah è fonte suprema di sapienza.143 La Legge occupa un posto centrale nelle Scritture del popolo ebraico e nella sua pratica religiosa, dal tempo biblico fino ai nostri giorni. Per questo, fin dai tempi apostolici, la Chiesa ha dovuto situarsi in rapporto alla Legge, sull’esempio di Gesù stesso, che ha dato ad essa un proprio significato in virtù della sua autorità di Figlio di Dio. 144

a) La Legge nell’Antico Testamento

La Legge e il culto d’Israele si sono sviluppati lungo tutto l’Antico Testamento. Le diverse raccolte di leggi145 possono del resto servire da importanti punti di riferimento per la cronologia del Pentateuco.

Il dono della Legge. La Legge è innanzitutto un dono di Dio al suo popolo. Il dono della Legge diventa oggetto di un racconto principale, di origine composita,146 e di racconti complementari,147 tra i quali 2 Re 22–23 occupa un posto a parte per la sua importanza per il Deuteronomio. Es 19–24 integra la Legge nell’« alleanza » (berît) che il Signore conclude con Israele sulla montagna di Dio, nel corso di una teofania davanti a tutto Israele (Es 19–20), e poi davanti al solo Mosè148 e davanti ai settanta rappresentanti d’Israele (Es 24,9-11). Queste teofanie e l’alleanza significano una grazia speciale per il popolo presente e futuro,149 e le leggi allora rivelate ne sono la garanzia perenne.

Ma le tradizioni narrative associano al dono della Legge anche la rottura dell’alleanza che risulta dalla violazione del monoteismo, così come prescritto nel Decalogo.150

« Lo spirito delle leggi » secondo la Tôrah. Le leggi contengono regole morali (etica), giuridiche (diritto), rituali e culturali (ricca raccolta di usanze religiose e profane). Si tratta di disposizioni concrete, talvolta espresse in modo assoluto (ad es. il decalogo), talvolta sotto forma di casi particolari che concretizzano principi generali. Esse hanno allora valore di precedente e di analogia per situazioni simili, che danno luogo a sviluppi ulteriori di una giurisprudenza, chiamata halakha e sviluppata nella legge orale, chiamata più tardi mishna. Molte leggi hanno un significato simbolico, nel senso che illustrano concretamente valori invisibili, come ad es. l’equità, la pace sociale, l’umanità, ecc. Queste leggi non sono servite tutte come norme da essere applicate; alcune sono testi di scuola per la formazione di futuri sacerdoti, giudici o funzionari; altre riflettono ideali ispirati dal movimento profetico. 151 Esse avevano come campo di applicazione dapprima i borghi e i villaggi del paese (Codice di alleanza), poi tutto il regno di Giuda e d’Israele e più tardi la comunità ebraica dispersa nel mondo.

Considerate storicamente, le leggi bibliche sono il risultato di una lunga storia di tradizioni religiose, morali e giuridiche. Contengono numerosi elementi comuni alla civiltà del Vicino Oriente antico. Viste sotto l’aspetto letterario e teologico, hanno la loro fonte nel Dio d’Israele, che le ha rivelate o direttamente (il decalogo secondo Dt 5,22) o per mezzo di Mosè, incaricato di promulgarle. Infatti il decalogo è una raccolta a parte rispetto alle altre leggi. Il suo inizio152 lo qualifica come l’insieme delle condizioni necessarie per assicurare la libertà delle famiglie israelite e la loro protezione contro ogni genere di oppressione, quella dell’idolatria come quella dell’immoralità e dell’ingiustizia. Lo sfruttamento che Israele aveva subito in Egitto non doveva mai riprodursi in Israele, con l’oppressione dei deboli da parte dei potenti.

Invece, le disposizioni del Codice dell’alleanza di Es 34,14-26 incarnano un insieme di valori umani e religiosi, delineando così un ideale comunitario dal valore eterno.

La Legge è israelitica e giudaica; è quindi particolare, adattata a un popolo storico particolare. Ma ha un valore esemplare per tutta l’umanità (Dt 4,6). Per questa ragione è un bene escatologico promesso a tutte le nazioni, poiché servirà da strumento di pace (Is 2,1-4; Mic 4,1-3). Essa incarna un’antropologia religiosa e un insieme di valori che trascendono il popolo e le condizioni storiche di cui le leggi bibliche sono in parte il prodotto.

Una spiritualità della Tôrah. Manifestazioni della sapiente volontà di Dio, i comandamenti acquistarono sempre più importanza nella vita sociale e individuale d’Israele. La Legge divenne onnipresente, soprattutto a partire dall’esilio (VI secolo). Si formò così una spiritualità segnata da una profonda venerazione della Tôrah. La sua osservanza fu compresa come l’espressione necessaria del « timore del Signore » e la forma perfetta del servizio di Dio. All’interno della stessa Scrittura, i salmi, il Siracide e Baruc ne sono i testimoni. I salmi 1; 19 e 119, salmi della Tôrah, giocano un ruolo strutturale nell’organizzazione del salterio. La Tôrah rivelata agli uomini è al tempo stesso il pensiero organizzatore del cosmo creato. Obbedendo a questa legge, gli ebrei credenti vi trovano le loro delizie e la loro benedizione, e partecipano all’universale sapienza creatrice di Dio. Questa sapienza rivelata al popolo ebraico è superiore alla sapienza delle altre nazioni (Dt 4,6.8), in particolare a quella dei Greci (Bar 4,1-4).

b) La legge nel Nuovo Testamento

44. Matteo, Paolo, la lettera agli Ebrei e quella di Giacomo dedicano una riflessione teologica esplicita al significato della Legge dopo la venuta di Gesù Cristo.

Il vangelo di Matteo riflette la situazione della comunità ecclesiale matteana dopo la caduta di Gerusalemme (70 d.C.). Gesù afferma la validità permanente della Legge (Mt 5,18-19), ma in una nuova interpretazione, data con piena autorità (Mt 5,21-28). Gesù « dà compimento » alla Legge (Mt 5,17), radicalizzandola: talvolta abroga la lettera della Legge (divorzio, legge del taglione), talvolta ne dà un’interpretazione più esigente (omicidio, adulterio, giuramento) o più flessibile (sabato). Gesù insiste sul duplice comandamento dell’amore di Dio (Dt 6,5) e del prossimo (Lv 19,18), da cui « dipendono tutta la Legge e i profeti » (Mt 22,34-40). Accanto alla Legge, Gesù, novello Mosè, fa conoscere la volontà di Dio agli uomini, prima agli ebrei e poi alle nazioni (Mt 28,19-20).

La teologia paolina della legge è ricca, ma non perfettamente unificata. Ciò è dovuto alla natura degli scritti e a un pensiero ancora in piena elaborazione su un terreno teologico non ancora dissodato. La riflessione di Paolo sulla Legge è stata provocata dalla sua personale esperienza spirituale e dal suo ministero apostolico. Dalla sua esperienza spirituale: nel suo incontro con Cristo (1 Cor 15,8), Paolo si rese conto che il suo zelo per la Legge l’aveva fuorviato al punto da portarlo a « perseguitare la Chiesa di Dio » (15,9; Fil 3,6) e che aderendo a Cristo egli rinnegava quindi questo zelo (Fil 3,7-9). Dal suo ministero apostolico: poiché questo ministero riguardava i non-ebrei (Gal 2,7; Rm 1,5), si presentava subito un interrogativo: la fede cristiana esige che si imponga ai non-ebrei la sottomissione alla legge particolare del popolo ebraico e, segnatamente, alle osservanze legali che sono dei segni dell’identità ebraica (circoncisione, regole alimentari, calendario)? Una risposta affermativa a questa domanda sarebbe stata, evidentemente, rovinosa per l’apostolato di Paolo. Posto di fronte a questo problema, l’apostolo non si limita a considerazioni pastorali, ma si dedica a un approfondimento dottrinale.

Paolo si convince fortemente che la venuta di Cristo (Messia) obbliga a ridefinire il ruolo della Legge. Cristo infatti è il « termine della Legge » (Rm 10,4), al tempo stesso lo scopo verso il quale tendeva e il punto di arrivo dove ha fine il suo regime, perché d’ora in poi non è più la Legge a dare vita — d’altra parte effettivamente essa non lo poteva 153 — ma è la fede in Cristo che giustifica e fa vivere. 154 Cristo risorto dai morti comunica ai credenti la sua vita nuova (Rm 6,9-11) e assicura loro la salvezza (Rm 10,9-10).

Quale sarà d’ora in poi la funzione della Legge? A questa domanda Paolo cerca una risposta. Vede il significato positivo della Legge: è un privilegio d’Israele (Rm 9,4), « la Legge di Dio » (Rm 7,22); si riassume nel precetto dell’amore del prossimo; 155 è « santa » e « spirituale » (Rm 7,12.14). Secondo Fil 3,6 la legge definisce una certa « giustizia ». Inversamente, la Legge apre automaticamente la possibilità della scelta contraria: « …non ho conosciuto il peccato se non per la Legge, né avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non avesse detto: Non desiderare » (Rm 7,7). Paolo evoca spesso questa opzione implicata inevitabilmente nel dono della Legge, dicendo ad esempio che la condizione umana concreta (« la carne ») o « il peccato » impediscono alla persona umana di aderire alla Legge (Rm 7,23-25) o che « la lettera » della Legge, privata dello Spirito capace di realizzare la Legge, finisce per apportare la morte (2 Cor 3,6-7).

Opponendo « la lettera » e « lo Spirito », l’Apostolo ha operato una dicotomia, come aveva fatto con Adamo e Cristo: da una parte, egli mette quello che Adamo (cioè l’essere umano senza la grazia) è capace di fare, dall’altra ciò che Cristo (cioè la grazia) realizza. In realtà, nell’esistenza concreta dei pii ebrei, la Legge era inserita in un piano di Dio in cui le promesse e la fede avevano il loro posto, ma Paolo ha voluto parlare di ciò che la Legge può dare per se stessa, come « lettera », facendo cioè astrazione dalla provvidenza che accompagna sempre l’uomo, a meno che egli non voglia fabbricarsi una propria giustizia. 156

Se, secondo 1 Cor 15,56, « il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge », ne consegue che la Legge, per la sua condizione di lettera, uccide, anche se indirettamente. Di conseguenza, il ministero di Mosè potrà essere chiamato ministero di morte (2 Cor 3,7) e di condanna (3,9). Tuttavia questo ministero è stato circondato da una tale gloria (splendore proveniente da Dio) che gli Israeliti non potevano nemmeno guardare il volto di Mosè (3,7). Questa gloria perde il suo valore per il fatto che esiste una gloria superiore (3,10), quella del « ministero dello Spirito » (3,8).

45. La lettera ai Galati afferma che « quelli che si richiamano alle opere della Legge, stanno sotto una maledizione », perché la Legge maledice « chiunque non persevera nel compimento di tutto quello che è scritto nel (suo) libro ». 157 La Legge è qui opposta al cammino di fede, proposto del resto ugualmente dalla Scrittura; 158 essa indica il cammino delle opere, che ci lascia con le nostre sole forze (3,12). Non è che l’Apostolo sia contro ogni « opera ». È soltanto contro la pretesa umana di giustificarsi da sé grazie alle « opere della Legge ». Ma non è contro le opere della fede — che, del resto, coincidono spesso con il contenuto della Legge —, opere rese possibili grazie all’unione vitale con Cristo. Egli dichiara, al contrario, che « ciò che conta » è « la fede che opera per amore ». 159

Paolo è consapevole che la venuta di Cristo ha portato un cambio di regime. I cristiani non vivono più sotto il regime della Legge, ma sotto quello della fede in Cristo (Gal 3,24-26; 4,3-7), che è il regime della grazia (Rm 6,14-15).

Quanto ai contenuti centrali della legge (il Decalogo e tutto ciò che è nello spirito del Decalogo), Gal 5,18-23 afferma prima: « Se siete guidati dallo Spirito, non siete più sotto la legge » (5,18). Senza aver bisogno della Legge, vi asterrete spontaneamente dalle « opere della carne » (5,19-21) e produrrete « il frutto dello Spirito » (5,22). Paolo aggiunge poi che la Legge non è contro queste cose (5,23), perché i credenti compiranno tutto ciò che la Legge richiede, e anche di più, ed eviteranno tutto ciò che la Legge proibisce. Secondo Rm 8,1-4, « la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù » ha rimediato all’impotenza della Legge di Mosè e ha fatto in modo che « la giusta prescrizione della Legge si adempisse » nei credenti. Uno degli scopi della redenzione era proprio di ottenere questo compimento della Legge!

Nella Lettera agli Ebrei la Legge appare come un’istituzione che è stata valida nel suo tempo e al suo livello. 160 Ma la vera mediazione tra il popolo peccatore e Dio non è alla sua portata (7,19; 10,1). Solo la mediazione di Cristo è efficace (9,11-14). Cristo è un sommo sacerdote di un genere diverso (7,11.15). I legami della Legge con il sacerdozio fanno sì che « il mutamento di sacerdozio comporti un mutamento di Legge » (7,12). Affermando ciò, l’autore si collega all’insegnamento di Paolo, secondo il quale i cristiani non sono più sotto il regime della Legge, ma sotto quello della fede in Cristo e della grazia. Per il rapporto con Dio, l’autore non insiste sull’osservanza della Legge, bensì sulla « fede », « la speranza » e « l’amore » (10,22.23.24).

Per Giacomo, come per la prima comunità cristiana, i comandamenti morali continuano a servire da guida (2,11), ma interpretati dal Signore. La « legge regale » (2,8), quella del « Regno » (2,5), è il precetto dell’amore del prossimo. 161 È « la legge perfetta della libertà » (1,25; 2,12-13) che bisogna mettere in pratica grazie a una fede operosa (2,14-16).

Quest’ultimo esempio mostra al tempo stesso la varietà delle posizioni espresse nel Nuovo Testamento in rapporto alla Legge e il loro fondamentale accordo. Giacomo non annuncia, come Paolo e la lettera agli Ebrei, la fine del regime della Legge, ma concorda con Matteo, Marco, Luca e Paolo, nel sottolineare il primato, non del Decalogo, ma del precetto dell’amore del prossimo (Lv 19,18), che porta a osservare perfettamente il Decalogo e a fare anche meglio. Il Nuovo Testamento si basa perciò sull’Antico. Lo legge alla luce di Cristo, che ha confermato il precetto dell’amore e gli ha dato una nuova dimensione: « Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi » (Gv 13,34; 15,12), cioè fino al sacrificio della vita. La Legge è così più che compiuta.

7. La preghiera e il culto, Gerusalemme e il Tempio

a) Nell’Antico Testamento

46. Nell’Antico Testamento la preghiera e il culto occupano un posto importante perché queste attività sono i momenti privilegiati della relazione personale e collettiva degli Israeliti con Dio, che li ha scelti e li ha chiamati a vivere nella sua alleanza.

Preghiera e culto nel Pentateuco. I racconti mostrano delle tipiche situazioni di preghiera, soprattutto in Gn 12–50. Vi si trovano preghiere di angoscia (32,10-13), di richiesta di un favore (24,12-14), di azione di grazie (24,48), così come voti (28,20-22) e consultazioni del Signore sul futuro (25,22-23). Nell’Esodo, Mosè intercede 162 e la sua intercessione salva il popolo dallo sterminio (32,10.14).

Il Pentateuco, principale fonte per la conoscenza delle istituzioni, raccoglie eziologie, che spiegano l’origine di luoghi, di tempi e di istituzioni sacri. Luoghi sacri come Sichem, Betel, Mambre, Bersabea. 163 Tempi sacri come il sabato, l’anno sabbatico, l’anno giubilare; vengono fissati dei giorni di festa, nonché il Giorno delle espiazioni. 164

Il culto è un dono del Signore. Molti testi dell’Antico Testamento insistono su questa prospettiva. Pura grazia è la rivelazione del nome di Dio (Es 3,14-15). È il Signore che offre la possibilità di celebrare sacrifici, perché è lui che dona a questo scopo il sangue degli animali (Lv 17,11). Prima di essere un’offerta del popolo a Dio, le primizie e le decime sono un dono di Dio al popolo (Dt 26,9-10). È Dio che istituisce sacerdoti e leviti e disegna gli utensili sacri (Es 25–30).

Le raccolte di leggi (cf sopra II.B.6, n. 43) contengono una massa di disposizioni liturgiche e diverse indicazioni sulla finalità dell’ordine cultuale. Le distinzioni fondamentali tra puro e impuro da una parte, sacro e profano dall’altra, organizzano lo spazio e il tempo e, di conseguenza, tutta la vita sociale e individuale, fin nella realtà quotidiana. L’impuro situa al di fuori dello spazio socio-culturale le persone o le cose contaminate, mentre il puro vi viene integrato a pieno diritto. L’attività cultuale comporta molteplici purificazioni destinate a reintegrare l’impuro nelle comunità. 165 All’interno del cerchio della purità un altro confine separa il profano (che lì è puro) dal santo (che, oltre a essere puro, è riservato a Dio). Il santo (o il sacro) è il campo che appartiene a Dio. La liturgia della fonte « sacerdotale » (P) distinguerà inoltre il semplice « santo » e il « Santissimo ». Lo spazio del santo è accessibile ai sacerdoti e ai leviti, non agli altri membri del popolo (« laici »). Lo spazio sacro è ad ogni modo uno spazio riservato. 166

Il tempo sacro è sottratto all’uso profano (divieto di lavorare, il giorno di sabato, e di arare e raccogliere durante l’anno sabbatico). Esso coincide con il ritorno del mondo creato al suo stato anteriore alla consegna del mondo all’uomo. 167

Lo spazio, le persone e le cose sacre devono essere santificate (consacrate). La consacrazione allontana ciò che è incompatibile con Dio, l’impuro e il peccato, opposti al Signore. Il culto comporta molteplici celebrazioni del perdono (espiazioni) che ripristinano la santità. 168 La santità implica la vicinanza a Dio. 169 Il popolo è consacrato e deve essere santo (Lv 11,44-45). Lo scopo del culto è la santità del popolo — grazie alle espiazioni, purificazioni e consacrazioni — e il servizio di Dio.

Il culto è un vasto simbolo di grazia, espressione della « condiscendenza » (nel senso patristico di adattamento benevolo) di Dio verso gli uomini, poiché egli l’ha stabilito per perdonare, purificare, santificare e preparare il contatto immediato con la sua presenza (kabôd, gloria).

47. Preghiera e culto nei profeti. Il libro di Geremia contribuisce molto a valorizzare la preghiera. Esso contiene delle « confessioni », dialoghi con Dio, nei quali il profeta, sia a titolo personale che come rappresentante del popolo, esprime una forte crisi interiore in rapporto all’elezione e alla realizzazione del disegno di Dio. 170 Molti libri profetici integrano salmi e cantici, 171 come anche frammenti di dossologie. 172

D’altra parte, nei profeti preesilici un tratto saliente è la ripetuta condanna dei sacrifici del ciclo liturgico 173 e perfino della preghiera. 174 Il rifiuto sembra radicale, ma queste invettive non possono essere interpretate come un’abrogazione del culto, una negazione della sua origine divina. Il loro scopo è denunciare la contraddizione tra la condotta di coloro che celebrano e la santità di Dio che pretendono di celebrare.

Preghiera e culto negli altri Scritti. Tre libri poetici assumono un’importanza capitale in rapporto alla spiritualità della preghiera. In primo luogo Giobbe: con pari sincerità e arte, il protagonista esprime a Dio, senza mezzi termini, tutti i suoi stati d’animo.175 Poi, le Lamentazioni, dove la preghiera si mescola al lamento. 176 Ed, evidentemente, i Salmi, che costituiscono il cuore stesso dell’Antico Testamento. Si ha infatti l’impressione che la Bibbia ebraica abbia conservato così poche indicazioni sviluppate sulla preghiera per meglio condensare tutto il suo fascio di luce su una raccolta particolare. Il salterio è una chiave di lettura insostituibile, non solo per l’insieme della vita del popolo d’Israele, ma per tutto il corpus della Bibbia ebraica. Altrove, negli Scritti, si trovano solo alcune vaghe affermazioni di principio 177 e alcuni esempi di inni o di preghiere più o meno elaborati. 178

È possibile tentare una classificazione della preghiera dei salmi intorno a quattro assi fondamentali, che conservano un valore universale al di là dei tempi e delle culture.

La maggior parte dei salmi si ricollegano all’asse della liberazione. La sequenza drammatica appare stereotipata, sia che si radichi in una situazione personale che in una collettiva. L’esperienza del bisogno di salvezza riflesso nella preghiera biblica abbraccia un ampio ventaglio di situazioni. Altre preghiere si ricollegano all’asse dell’ammirazione. Sostengono lo stupore, la contemplazione, la lode. L’asse dell’istruzione raggruppa tre tipi di preghiere meditative: sintesi sulla storia sacra, indicazioni sulle scelte morali personali o collettive (includendo talvolta parole profetiche e oracoli), enunciati delle condizioni richieste per accedere al culto. Infine, alcune preghiere ruotano attorno all’asse delle feste popolari. Si contano soprattutto quattro grandi motivi: raccolti, matrimoni, pellegrinaggi, eventi politici.

48. I luoghi privilegiati per la preghiera sono gli spazi sacri, i santuari, in particolare quello di Gerusalemme. Ma si ha sempre la possibilità di pregare in privato, nella propria casa. I tempi sacri, fissati dal calendario, segnano la preghiera, anche individuale, così come le ore rituali delle offerte, soprattutto al mattino e alla sera. Negli oranti si osservano varie posizioni: in piedi, con le mani alzate, in ginocchio, completamente prostrati, seduti o coricati.

Se si sa distinguere tra gli elementi stabili e gli elementi più caduchi del pensiero e della lingua, il tesoro delle preghiere d’Israele può servire a esprimere con molta profondità la preghiera degli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Questo indica il valore permanente di questi testi. Alcuni salmi, tuttavia, esprimono uno stadio di preghiera che sarà progressivamente superato, lo stadio, in particolare, delle maledizioni e delle imprecazioni lanciate contro i nemici.

Il popolo cristiano, pur prendendo tali e quali le preghiere dell’Antico Testamento, le rilegge alla luce del mistero pasquale, conferendo loro, per ciò stesso, un supplemento di significato.

Il Tempio di Gerusalemme. Costruito da Salomone (verso il 950 a.C.), la costruzione di pietra che dominava la collina di Sion ha giocato un ruolo centrale nella religione israelitica. Col favore della riforma religiosa di Giosia (640-609), 179 la legge deuteronomica esige per tutto il popolo un santuario unico nel paese (Dt 12,2-7). Quello di Gerusalemme viene designato come « il luogo scelto dal signore Dio per farvi abitare il suo nome » (12,11.21; ecc.). Molti racconti eziologici spiegano questa scelta. 180 Da parte sua, la teologia sacerdotale (P) designa questa presenza con la parola « gloria » (kabôd), evocando la manifestazione di Dio, al tempo stesso affascinante e temibile, in particolare nel Santo dei Santi, sopra l’arca della testimonianza coperta dal propiziatorio: 181 il contatto più immediato con Dio si basa sul perdono e la grazia. È per questo che la distruzione del Tempio (587) equivale alla desolazione estrema 182 e assume l’ampiezza di una catastrofe nazionale. La premura per ricostruirlo al termine dell’esilio (Ag 1–2) e celebrarvi un culto degno (Ml 1–3) diventa il criterio del timore di Dio. Dal Tempio si irradiano le benedizioni fino alle estremità della terra (Sal 65). Da qui l’importanza dei pellegrinaggi, come segno di unità (Sal 122). Nell’opera del Cronista il tempio è chiaramente il centro di tutta la vita religiosa e nazionale.

Il tempio è al tempo stesso uno spazio funzionale e simbolico. Serve da luogo di culto, soprattutto sacrificale, di preghiera, di insegnamento, di guarigione, di intronizzazione regale. Ma, come in tutte le religioni, l’edificio materiale, in basso, evoca il mistero dell’habitat divino, in cielo, in alto (1 Re 8,30). Per la presenza tutta speciale del Dio di vita il santuario diventa luogo di origine per eccellenza della vita (nascita collettiva, rinascita dopo il peccato) e della conoscenza (parola di Dio, rivelazione, sapienza). Gioca il ruolo di asse e centro del mondo. Si osserva, tuttavia, una relativizzazione critica del simbolismo del luogo santo. Mai questo arriverà a garantire e a « contenere » la presenza divina. 183 Parallelamente alla critica del culto ipocrita e formalistico, i profeti smascherano la vanità della fiducia incondizionata posta nel luogo santo (Ger 7,1-15). Una visione simbolica presenta « la gloria del Signore » che abbandona lo spazio sacro in modo solenne. 184 Ma questa gloria ritornerà nel Tempio (Ez 43,1-9), un Tempio restaurato, ideale (40–42), fonte di fecondità, di guarigione, di salvezza (47,1-12). Prima di questo ritorno, Dio promette agli esiliati di essere egli stesso per loro « un santuario » (11,16).

Gerusalemme. In una prospettiva teologica, la storia della città inizia con una scelta divina (1 Re 8,16). Davide conquista Gerusalemme, antica città cananea (2 Sam 5,6-12) e vi trasporta l’arca dell’alleanza (2 Sam 6–7); Salomone vi costruisce il santuario (1 Re 6). La città viene così integrata tra i luoghi santi più antichi di Giuda e d’Israele dove si viene in pellegrinaggio. Nella guerra di Sennacherib contro Ezechia nel 701 (2 Re 18,13), Gerusalemme viene risparmiata, quasi unica tra le città di Giuda, mentre il regno d’Israele era stato definitivamente conquistato nel 722 dagli Assiri. La liberazione di Gerusalemme era stata annunciata profeticamente come grazia divina (2 Re 19,20-34).

Ci si abitua a designare Gerusalemme come « la città scelta » dal Signore, 185 « fondata » da lui (Is 14,32), « città di Dio » (Sal 87,3), « città santa » (Is 48,2), perché il Signore è « in mezzo ad essa » (Sof 3,17). È destinata a un avvenire glorioso: presenza divina assicurata « per sempre » e « di generazione in generazione » (Gl 4,16-21), protezione garantita (Is 31,4-5), e quindi felicità e prosperità. Alcuni testi idealizzano perfino la città delle città. Al di là della realtà geografica, essa diventa polo di attrazione e asse del mondo. 186

Ma la grandezza di Gerusalemme non fermerà la sciagura che sta per abbattersi sulla città. Molti oracoli (2 Re 23,27), azioni simboliche (Ez 4–5) e visioni (8–11) annunciano il rifiuto e la distruzione della città scelta da Dio.

Più tardi, Gerusalemme restaurata diventa uno dei grandi simboli della salvezza escatologica: città illuminata dal Signore, 187 dotata di un « nome nuovo » e diventata nuovamente « Sposa » di Dio, 188 paradiso ritrovato, col favore dell’avvento di « cieli nuovi » e di « una terra nuova », 189 diventa uno spazio essenzialmente cultuale (Ez 40–48), il centro di un mondo ricreato (Zc 14,16-17). « Tutte le nazioni » verranno a cercarvi il giudizio del Signore e l’insegnamento divino che metterà fine alle guerre. 190

b) Nel Nuovo Testamento, preghiera e culto, il Tempio e Gerusalemme

49. Preghiera e culto. A differenza dell’Antico Testamento, il Nuovo non contiene una legislazione dettagliata che stabilisca delle istituzioni cultuali e rituali — prescrive brevemente solo di battezzare e di celebrare l’eucaristia 191 — ma insiste fortemente sulla preghiera.

I vangeli mostrano spesso Gesù in preghiera. Il suo amore filiale per Dio, suo Padre, lo spingeva a dedicare molto tempo a questa attività. Per pregare si alzava molto presto, anche dopo una notte iniziata molto tardi a causa dell’afflusso di persone con i loro malati (Mc 1,32.35). Passava talvolta tutta la notte in preghiera (Lc 6,12). Per pregare meglio, si ritirava « in luoghi deserti » (Lc 5,16) o saliva « sulla montagna » (Mt 14,23). In Luca i momenti più decisivi del ministero di Gesù sono preparati o accompagnati da una preghiera più intensa: il suo battesimo (Lc 3,21), la scelta dei Dodici (6,12), la domanda posta ai Dodici sulla sua identità (9,18), la trasfigurazione (9,28), la passione (22,41-45).

Solo raramente i vangeli riferiscono il contenuto della preghiera di Gesù. Quel poco che dicono dimostra che la sua preghiera esprimeva la sua intimità con il Padre, al quale diceva « Abba » (Mc 14,36), nome familiare che nel giudaismo contemporaneo non si trova usato per invocare Dio. La preghiera di Gesù era spesso di ringraziamento, secondo la forma ebraica della ber~k~h. 192 Al momento dell’ultima cena, canta molto naturalmente i salmi prescritti dal rituale della grande festa. 193 Secondo i quattro vangeli, egli cita undici salmi distinti.

Il Figlio riconosceva con gratitudine che tutto gli veniva dall’amore del Padre (Gv 3,35). Alla fine del discorso dopo la Cena, Giovanni mette sulle labbra di Gesù una lunga preghiera di domanda, per se stesso e per i suoi discepoli, presenti e futuri, che rivela il significato che egli dava alla sua passione (Gv 17). Quanto ai sinottici, ci riferiscono la preghiera supplice di Gesù quando è colto dalla tristezza mortale al Getsemani (Mt 26,36-44 e par.), preghiera accompagnata da un’adesione molto generosa alla volontà del Padre (26,39.42). Sulla croce Gesù fa proprio il grido di angoscia di Sal 22, 2, 194 o, secondo Luca, la preghiera di abbandono di Sal 31,6 (Lc 23,46).

Accanto alla preghiera di Gesù, i vangeli riportano molte domande e suppliche fatte a Gesù, alle quali egli rispondeva intervenendo generosamente e sottolineando l’efficacia della fede. 195 Gesù dava istruzioni sulla preghiera 196 e incoraggiava, con parabole, a perseverare nella preghiera. 197 Insisteva sulla necessità della preghiera, nei momenti di prova, « per non entrare in tentazione » (Mt 26,41 e par.).

L’esempio di Gesù suscitava nei discepoli il desiderio di imitarlo: « Signore, insegnaci a pregare » (Lc 11,1). A questo desiderio egli risponde insegnando il Padre nostro. Le formule del Padre nostro 198 sono affini a quelle della preghiera ebraica (Diciotto benedizioni), ma con una sobrietà senza paralleli. In poche parole, infatti, il Padre nostro presenta un programma completo di preghiera filiale: adorazione (1a domanda), desiderio della salvezza escatologica (2a domanda), adesione alla volontà di Dio (3a domanda), supplica per i bisogni esistenziali nell’abbandono fiducioso, giorno dopo giorno, alla provvidenza di Dio (4a domanda), domanda di perdono, condizionata dalla generosità a perdonare (5a domanda), preghiera di essere liberati dalle tentazioni e dall’influenza del Maligno (6a, 7a domande).

Paolo, da parte sua, dà l’esempio della preghiera di ringraziamento, esprimendola regolarmente, in una forma o nell’altra, all’inizio delle sue lettere. Invita i cristiani a « rendere grazie in ogni circostanza » e a « pregare incessantemente » (1 Ts 5,17).

50. Gli Atti mostrano spesso i cristiani in preghiera, sia individualmente (At 9,40; 10,9; ecc.) che in comunità (4,24-30; 12,12; ecc.), al Tempio (2,46; 3,1), o nelle case (2,46) o perfino in prigione (16,25). Talvolta la preghiera si accompagna al digiuno (13,3; 14,23). Nel Nuovo Testamento le formule di preghiera sono soprattutto inniche: il Magnificat (Lc 1,46-55), il Benedictus (1,68-79), il Nunc dimittis (2,29-32) e numerosi passi dell’Apocalisse. Esse sono plasmate di linguaggio biblico. Nel corpus paolino gli inni diventano cristologici, 199 riflettendo la liturgia delle chiese. Come la preghiera di Gesù, la preghiera cristiana utilizza la forma ebraica della ber~k~h(« Benedetto sia Dio… »). 200 In ambiente greco, essa è fortemente carismatica (1 Cor 14,2.16-18). La preghiera è opera dello Spirito di Dio. 201 Alcune realizzazioni sono possibili solo grazie alla preghiera (Mc 9,29).

Il Nuovo Testamento rivela alcuni tratti della preghiera liturgica della Chiesa primitiva. La « cena del Signore » (1 Cor 11,20) occupa nelle tradizioni un posto eminente. 202 La sua forma è segnata dalla liturgia del pasto festivo ebraico: ber~k~hsul pane all’inizio, sul vino alla fine. Fin dalla tradizione soggiacente a 1 Cor 11,23-25 e ai racconti dei sinottici, le due benedizioni furono accostate, così che il pasto è collocato non tra di esse, ma prima o dopo. Questo rito è il memoriale della passione di Cristo (1 Cor 11,24-25); crea comunione (koinonia: 1 Cor 10,16) tra il Signore risorto e i suoi discepoli. Il battesimo, confessione di fede, 203 dà il perdono dei peccati, unisce al mistero pasquale di Cristo (Rm 6,3-5) e fa entrare nella comunità dei credenti (1 Cor 12,13).

Il calendario liturgico rimase quello ebraico (eccetto per le comunità paoline di cristiani provenienti dal paganesimo: Gal 4,10; Col 2,16), ma il sabato cominciò a essere sostituito dal primo giorno della settimana (At 20,7; 1 Cor 16,2) chiamato « giorno del signore » o « domenicale » (Ap 1,10), cioè giorno del Signore risorto. I cristiani continuarono, all’inizio, a frequentare l’ufficio del Tempio (At 3,1), che servì da punto di partenza della liturgia cristiana delle ore.

Al culto sacrificale antico, la lettera agli Ebrei riconosce una certa validità rituale (Eb 9,13) e un valore di prefigurazione dell’offerta di Cristo (9,18-23), ma, facendo propria la critica espressa dai profeti e dai salmi, 204 essa nega alle immolazioni di animali qualsiasi efficacia per la purificazione delle coscienze e per il ristabilimento di una profonda relazione con Dio. 205 Il solo sacrificio pienamente efficace è l’offerta personale ed esistenziale di Cristo, che ha fatto di lui il perfetto sommo sacerdote, « mediatore di una nuova alleanza ». 206 Grazie a questa offerta, i cristiani possono avvicinarsi a Dio (Eb 10,19-22) nell’azione di grazie e conducendo una vita generosa (13,15-16). L’apostolo Paolo si esprimeva già in questo senso (Rm 12,1-2).

51. Il Tempio di Gerusalemme. Durante la vita di Gesù e di Paolo il Tempio esisteva nella sua realtà materiale e liturgica. Come ogni ebreo, Gesù vi si reca in pellegrinaggio; vi insegna. 207 In esso compie l’azione profetica dell’espulsione dei venditori (Mt 21,12-13 e par.).

L’edificio conserva il suo status simbolico di dimora divina, privilegiata, che rappresenta sulla terra la dimora di Dio nel cielo. In Mt 21,13 Gesù cita un oracolo in cui Dio stesso lo chiama « mia casa » (Is 56,7); in Gv 2,16 Gesù lo chiama « la casa del Padre mio ». Ma più di un testo relativizza questo simbolismo e apre la strada a un superamento. 208 Come aveva fatto Geremia, Gesù predice la rovina del Tempio (Mt 24,2 e par.) e annuncia, d’altra parte, la sua sostituzione con un nuovo santuario, costruito in tre giorni. 209 Dopo la sua risurrezione, i suoi discepoli compresero che il nuovo Tempio era il suo corpo risuscitato (Gv 2,22). Paolo dichiara ai credenti che essi sono membra di questo corpo (1 Cor 12,27) e « santuario di Dio » (3,16-17) o « dello Spirito » (6,19). La prima lettera di Pietro dice loro che, uniti a Cristo, « pietra viva », essi formano tutti insieme un « edificio spirituale » (1 Pt 2,4-5).

L’Apocalisse parla costantemente di santuario. 210 Fatta eccezione di Ap 11,1-2, per il resto si tratta sempre del « santuario celeste di Dio » (11,19), da dove partono gli interventi di Dio sulla terra. Ma nella visione finale, si dice della « città santa, della Gerusalemme che scende dal cielo » (21,10), che non si vede in essa un santuario, « perché il suo santuario è il Signore, il Dio onnipotente, e l’Agnello » (21,22). Questo è il compimento ultimo del tema del Tempio.

Gerusalemme. Il Nuovo Testamento riconosce pienamente l’importanza di Gerusalemme nel disegno di Dio. Gesù vieta di giurare per Gerusalemme, « perché è la città del Grande Re » (Mt 5,35). Si dirige risolutamente verso di essa: è lì che deve portare a compimento la sua missione. 211 Ma constata che la città « non ha riconosciuto il momento della sua visita » e prevede in lacrime che questo accecamento porterà alla sua rovina, 212 com’era già avvenuto al tempo di Geremia.

Nel frattempo, Gerusalemme continua a giocare un ruolo importante. Nella teologia di Luca essa è al centro della storia della salvezza; lì è morto e risorto Cristo. Tutto converge verso questo centro: lì inizia il vangelo (Lc 1,5-25) e lì termina (24,52-53). Tutto poi emana da essa: è da lì che, dopo la venuta dello Spirito Santo, la Buona Novella della salvezza si diffonde ai quattro angoli dell’universo abitato (At 8–28). Quanto a Paolo, sebbene il suo apostolato non sia partito da Gerusalemme (Gal 1,17), egli ritiene indispensabile la comunione con la Chiesa di Gerusalemme (2,1-2). D’altro canto dichiara che la madre dei cristiani è la « Gerusalemme di lassù » (4,26). La città diventa il simbolo del compimento escatologico, sia nella sua dimensione futura (Ap 21,2-3.9-11) che in quella presente (Eb 12,22).

Così, col favore di un approfondimento simbolico già iniziato nell’Antico Testamento, la Chiesa riconoscerà sempre i legami che la uniscono molto intimamente alla storia di Gerusalemme e del suo Tempio, così come alla preghiera e al culto del popolo ebraico.

8. Rimproveri divini e condanne

a) Nell’Antico Testamento

52. L’elezione d’Israele e l’alleanza hanno come conseguenza — lo abbiamo visto — delle esigenze di fedeltà e di santità. In che modo il popolo eletto si è comportato rispetto a queste esigenze? A questa domanda l’Antico Testamento dà molto spesso una risposta che esprime la delusione del Dio d’Israele, una risposta carica di rimproveri e perfino di condanne.

Gli scritti narrativi riportano una lunga serie di infedeltà e di resistenze alla voce di Dio, serie che inizia fin dall’uscita dall’Egitto. In occasioni di crisi esistenziali, che avrebbero dovuto essere delle occasioni di dare prova della fiducia in Dio, gli Israeliti « mormorano », 213 assumendo un atteggiamento di contestazione del disegno di Dio e di opposizione a Mosè, al punto da volerlo « lapidare » (Es 17,4). Appena conclusa l’alleanza del Sinai (Es 24), il popolo si lascia andare all’infedeltà più grave, quella del culto di un idolo (Es 32,4-6). 214 Davanti a questa infedeltà, il Signore constata: « Ho visto che questo è un popolo dalla dura cervice » (Es 32,9). Questa qualifica peggiorativa viene poi ripetuta spesso, 215 diventando una specie di epiteto naturale per caratterizzare Israele. Un altro episodio non è meno significativo: arrivato alla frontiera di Canaan e invitato a entrare nel paese che il Signore gli dona, il popolo oppone un rifiuto, giudicando l’impresa troppo pericolosa. 216 Il Signore rimprovera allora al popolo la sua mancanza di fede (Nm 14,11), lo condanna a errare quarant’anni nel deserto, dove tutti gli adulti dovranno morire (14,29.34), ad eccezione di alcuni che seguono il Signore incondizionatamente.

Molte volte l’Antico Testamento ricorda che l’indocilità degli Israeliti è iniziata « fin dal giorno in cui i loro padri sono usciti dall’Egitto » aggiungendo che essa continua « fino ad oggi ». 217

La storia deuteronomistica, che comprende i libri di Giosuè, dei Giudici, 1-2 Samuele e 1-2 Re, esprime un giudizio globalmente negativo sulla storia d’Israele e di Giuda tra l’epoca di Giosuè e l’esilio di Babilonia. Il popolo e i suoi re, con poche eccezioni, hanno ampiamente ceduto alla tentazione degli dei stranieri sul piano religioso e all’ingiustizia sociale e ad ogni sorta di disordini contrari al Decalogo. Questa è la ragione per cui alla fine questa storia si conclude con un bilancio negativo la cui conseguenza visibile fu la perdita della terra promessa con la distruzione dei due regni e quella di Gerusalemme, ivi compreso il suo santuario, nel 587.

Gli scritti profetici contengono rimproveri particolarmente violenti. Una delle principali missioni dei profeti era proprio quella di « gridare a squarciagola, senza riguardo », per « far conoscere al popolo di Dio i suoi peccati ». 218 Tra i profeti dell’VIII secolo, Amos denuncia le colpe d’Israele, mettendo al primo posto la mancanza di giustizia sociale. 219 Per Osea, è fondamentale l’accusa di idolatria, ma i rimproveri si estendono a molti altri peccati: « spergiuro e menzogna, assassinio e furto, adulterio e violenza, omicidio su omicidio » (Os 4,2). Per Isaia, Dio ha fatto di tutto per la sua vigna, ma essa non ha portato frutto (Is 5,1-7). Come già Amos (4,4), Isaia rifiuta il culto di coloro che non si preoccupano della giustizia (Is 1,11-17). Michea si dice « pieno di forza per proclamare a Giacobbe il suo misfatto » (Mic 3,8).

Questi misfatti porteranno alla più grave minaccia che i profeti possano lanciare contro Israele e Giuda: il Signore rigetterà il suo popolo, 220 abbandonerà alla distruzione Gerusalemme e il suo santuario, luogo della sua presenza benefica e protettrice. 221

Gli ultimi decenni di Giuda e gli inizi dell’esilio sono accompagnati dalla predicazione di molti profeti. Allo stesso modo di Osea, Geremia enumera diversi peccati 222 e mostra nell’abbandono del signore la radice di tutto il male (2,13). Stigmatizza l’idolatria definendola adulterio e prostituzione. 223 Ezechiele fa lo stesso in lunghi capitoli (Ez 16; 23) e definisce gli Israeliti « una genia di ribelli » (2,5.6.7.8), « testardi e dal cuore indurito » (2,4; 3,7). Il vigore delle accuse profetiche lascia sbalorditi e sorprende che Israele abbia riservato ad essi tanto spazio nelle sue Scritture, segno di una sincerità e di una umiltà esemplari.

Nel corso dell’esilio e dopo, tutta la comunità ebraica, non solo quella della Giudea, riconosce le proprie colpe in liturgie e preghiere di confessione nazionale. 224

Contemplando il proprio passato, il popolo dell’alleanza del Sinai non poteva che esprimere su di esso un giudizio severo: la sua storia era stata una lunga serie di infedeltà. I castighi erano stati meritati. L’alleanza era stata infranta. Ma il Signore non si era mai rassegnato a questa rottura 225 e aveva sempre offerto la grazia della conversione e la ripresa delle relazioni, in una forma più intima e più stabile. 226

b) Nel Nuovo Testamento

53. Giovanni Battista si colloca sulla scia degli antichi profeti per chiamare al pentimento la « razza di vipere » (Mt 3,7; Lc 3,7) attirata dalla sua predicazione. Questa era basata sulla convinzione della vicinanza di un intervento divino. Il giudizio era imminente: « Già la scure si trova alla radice degli alberi » (Mt 3,10; Lc 3,9). Era quindi urgente convertirsi.

Come quella di Giovanni, la predicazione di Gesù è un appello alla conversione, che la vicinanza del regno di Dio rende urgente (Mt 4,17); essa è al tempo stesso l’annuncio della « buona novella » di un intervento favorevole di Dio (Mc 1,14-15). Quando si scontra col rifiuto di credere, Gesù fa ricorso, come gli antichi profeti, alle invettive. Le lancia contro questa « generazione malvagia e adultera » (Mt 12,39), « generazione incredula e perversa » (17,17), e annuncia un giudizio più severo di quello che si era abbattuto su Sodoma (11,24; cf Is 1,10).

Il rifiuto di Gesù da parte dei dirigenti del suo popolo, che trascinano con loro la popolazione di Gerusalemme, porta al culmine la loro colpevolezza. La sanzione divina sarà la stessa del tempo di Geremia: presa di Gerusalemme e distruzione del Tempio. 227 Ma — ugualmente come al tempo di Geremia — Dio non si limita a sanzionare; offre anche il perdono. Agli ebrei di Gerusalemme, che « hanno ucciso l’autore della vita » (At 3,15), Pietro predica il pentimento e promette la remissione dei peccati (3,19). Mostrandosi meno severo degli antichi profeti, egli fa della loro colpa un peccato commesso « per ignoranza ». 228 Varie migliaia di persone rispondono al suo appello. 229

Nelle lettere apostoliche, anche se sono molto frequenti le esortazioni e gli avvertimenti, accompagnati talvolta da minacce di condanna in caso di colpe, 230 i rimproveri e le condanne effettive sono relativamente rari, ma non mancano di vigore. 231

Nella sua lettera ai Romani, Paolo fa una violenta requisitoria contro « gli uomini che tengono la verità prigioniera nell’ingiustizia » (Rm 1,18). La colpa fondamentale dei pagani è il disconoscimento di Dio (1,21); il castigo che subiscono è quello di essere abbandonati da Dio in potere della loro immoralità. 232 Al giudeo viene rimproverata la sua mancanza di coerenza: la sua condotta è in contrasto con la sua conoscenza della Legge (Rm 2,17-24).

Gli stessi cristiani non sono esenti da rimproveri. La lettera di Galati ne contiene alcuni molto gravi. I Galati sono accusati di voltare le spalle a Dio per passare « a un altro vangelo », non autentico (Gal 1,6); hanno « rotto con Cristo »; sono « decaduti dalla grazia » (5,4). Ma Paolo nutre la speranza che si ravvedano (5,10). I Corinzi, invece, sono rimproverati per le discordie provocate nella loro comunità dal culto di alcune personalità 233 e, d’altra parte, per gravi mancanze di carità durante la celebrazione della « cena del Signore » (1 Cor 11,17-22). « È per questo, dice Paolo, che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti » (11,30). Inoltre la comunità riceve un aspro rimprovero per aver tollerato un caso di condotta scandalosa. Il colpevole deve essere scomunicato, « abbandonato a Satana ». 234 Paolo cita a questo proposito il precetto di Dt 17,7: « Togliete il malvagio di mezzo a voi » (1 Cor 5,13). Le lettere pastorali, da parte loro, se la prendono con dei « sedicenti dottori della legge », che si sono allontanati dalla linea di una vera carità e di una fede sincera (1 Tm 1,5-7); vi si fanno anche dei nomi e si indica la sanzione. 235

Le lettere inviate « alle sette chiese » (Ap 1,11) dall’autore dell’Apocalisse sono indicative della diversità delle situazioni vissute allora dalle comunità cristiane. Quasi tutte — cinque su sette — iniziano con degli elogi; due contengono addirittura solo elogi, ma le altre cinque contengono rimproveri, alcuni dei quali molto gravi, accompagnati da minacce di castighi. I rimproveri sono, il più delle volte, di ordine generale (« hai abbandonato il tuo fervore originale »: 2,4; « ti si crede vivo e invece sei morto »: 3,1); talvolta sono più precisi, criticando la tolleranza per « l’insegnamento dei Nicolaiti » (2,15) o il compromesso con l’idolatria (2,14.21). Tutte queste lettere esprimono « quello che lo Spirito dice alle Chiese ». 236 Esse dimostrano che, il più delle volte, le comunità cristiane meritano rimproveri e che lo Spirito le chiama alla conversione. 237

9. Le promesse

54. Molte promesse fatte da Dio nell’Antico Testamento sono rilette nel Nuovo alla luce di Gesù Cristo. Questo pone un certo numero di interrogativi delicati e attuali che toccano il dialogo tra gli ebrei e i cristiani; essi riguardano la legittimità di un’interpretazione delle promesse al di là del loro senso originale immediato. Chi, veramente, fa parte della discendenza di Abramo? La Terra promessa è anzitutto un luogo geografico? Quale orizzonte futuro il Dio della rivelazione riserva a Israele, il popolo eletto delle origini? Cosa ne è dell’attesa del Regno di Dio? E di quella del Messia?

a) La discendenza di Abramo

Nell’Antico Testamento

Dio promette ad Abramo una discendenza innumerevole, 238 che gli verrà attraverso il suo unico figlio nato da Sara, erede privilegiato. 239 Questa discendenza sarà, come lo stesso Abramo, fonte di benedizione per tutte le nazioni (12,3; 22,18). La promessa è rinnovata per Isacco (26,4.24) e per Giacobbe (28,14; 32,13).

La prova dell’oppressione in Egitto non impedisce la sua realizzazione. Al contrario, l’inizio del libro dell’Esodo attesta a più riprese la crescita numerica degli ebrei (Es 1,7.12.20). Quando il popolo viene liberato dall’oppressione, la promessa è già compiuta: gli Israeliti sono « numerosi come le stelle del cielo », ma Dio li moltiplicherà ancora, come ha promesso (Dt 1,10-11). Il popolo cade nell’idolatria ed è minacciato di sterminio; Mosè intercede allora in suo favore presso Dio; fa appello al giuramento fatto da Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe di moltiplicare la loro discendenza (Es 32,13). Una grave disobbedienza del popolo nel deserto (Nm 14,2-4), della stessa gravità di quella commessa ai piedi del Sinai (Es 32), suscita, come in Es 32, un’intercessione di Mosè, che viene esaudita e salva il popolo dalle conseguenze del suo peccato. Tuttavia la generazione presente sarà esclusa dalla Terra promessa, ad eccezione del clan di Caleb, rimasto fedele (Nm 14,20-24). Le generazioni successive d’Israele godranno di tutte le promesse fatte ai loro antenati, a condizione, però, di optare risolutamente per « la vita, la benedizione », e non per « la morte, la maledizione » (Dt 30,19), come purtroppo fanno più tardi gli Israeliti del nord, che « il Signore ha rigettato » (2 Re 17,20), e poi quelli del sud, da Lui sottomessi alla prova purificatrice dell’esilio a Babilonia (Ger 25,11).

L’antica promessa rinasce ben presto in favore dei rimpatriati. 240 Dopo l’esilio, per preservare la purezza della discendenza e quella delle credenze e delle osservanze, « la discendenza d’Israele si separò da tutti gli stranieri ». 241 Ma più tardi, il breve libro di Giona — forse anche, secondo alcuni, quello di Rut — interviene per denunciare la ristrettezza di questo particolarismo. Questo infatti si concilia male con un oracolo del libro di Isaia in cui Dio accorda a « tutti i popoli » l’ospitalità nella sua casa (Is 56,3-7).

Nel Nuovo Testamento

55. Il Nuovo Testamento non mette mai in discussione la validità della promessa ad Abramo. Il Magnificat e il Benedictus vi fanno un esplicito riferimento. 242 Gesù è presentato come « figlio di Abramo » (Mt 1,1). Essere figlia o figlio di Abramo (Lc 13,16; 19,9) costituisce una grande dignità. La comprensione della promessa differisce, tuttavia, da quella che ne dà il giudaismo. Già la predicazione di Giovanni Battista relativizza l’importanza del legame familiare con Abramo. Discendere da lui secondo la carne non è sufficiente, né perfino necessario (Mt 3,9; Lc 3,8). Gesù dichiara che molti pagani « siederanno a mensa con Abramo », « mentre i figli del regno saranno cacciati fuori » (Mt 8,11-12; Lc 13,28-29).

Ma è soprattutto l’apostolo Paolo che approfondisce questo tema. Ai Galati, preoccupati di entrare, grazie alla circoncisione, nella famiglia del patriarca al fine di avere diritto all’eredità promessa, Paolo dimostra che la circoncisione non è affatto necessaria, perché il fattore decisivo è la fede in Cristo. Per la fede si diventa figli di Abramo (Gal 3,7), perché Cristo è suo discendente privilegiato (3,16) e, per la fede, si è incorporati a Cristo e si diventa quindi « discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa » (3,29). È in questo modo — e non per la circoncisione — che i pagani possono ricevere la benedizione trasmessa per Abramo (3,8.14). In Gal 4,22-31, un’audace interpretazione tipologica porta alle stesse conclusioni.

Nella sua lettera ai Romani (4,1-25), Paolo ritorna sull’argomento in termini meno polemici. Egli mette lì in luce la fede di Abramo, fonte, secondo lui, della giustificazione e base della sua paternità, che si estende a tutti coloro che credono, siano essi di origine ebraica o pagana. Dio, infatti, aveva fatto una promessa ad Abramo: « Sarai padre di una moltitudine di popoli » (Gn 17,4); Paolo vede la realizzazione di questa promessa nell’adesione a Cristo di molti credenti di origine pagana (Rm 4,11.17-18). L’Apostolo distingue tra « i figli della carne » e « i figli della promessa » (Rm 9,8). Gli ebrei che aderiscono a Cristo sono al tempo stesso l’uno e l’altro. I credenti di origine pagana sono « figli della promessa », il che è più importante.

In questo modo Paolo conferma e accentua la portata universale della benedizione di Abramo e situa nell’ordine spirituale la vera posterità del patriarca.

b) La Terra promessa

56. Ogni gruppo umano desidera abitare un territorio in modo stabile. Altrimenti, ridotto alla condizione di straniero o di rifugiato, si trova, nella migliore delle ipotesi, tollerato o, nella peggiore, sfruttato o continuamente respinto. Israele è stato liberato dalla schiavitù dell’Egitto e ha ricevuto da Dio la promessa di una terra, la cui realizzazione richiederà del tempo e porrà molti problemi nel corso della storia. Per il popolo della Bibbia, anche dopo il ritorno dall’esilio a Babilonia, la terra rimane oggetto di speranza: « Quelli benedetti dal signore possederanno la terra » (Sal 37,22).

Nell’Antico Testamento

La Bibbia ebraica non conosce l’espressione « Terra promessa », perché non ha una parola per dire « promettere ». L’idea viene espressa col futuro del verbo « dare », o con l’uso del verbo « giurare »: « la terra che ha giurato di darti » (Es 13,5; 33,1; ecc.).

Nelle tradizioni relative ad Abramo, la promessa di una terra completa quella di una discendenza. 243 Si tratta della « terra di Canaan » (Gn 17,8). Dio suscita un capo, Mosè, per liberare Israele e condurlo nella Terra promessa. 244 Ma il popolo nel suo insieme manca di fede: dei fedeli iniziali, ben pochi sopravvivranno alla lunga traversata del deserto; sarà la giovane generazione a entrare nel paese (Nm 14,26-38). Mosè stesso muore senza potervi entrare (Dt 34,1-5). Sotto la guida di Giosuè, le tribù si insediano nel paese promesso.

Per la tradizione sacerdotale, il paese deve d’ora in poi restare senza macchia, perché vi abita Dio stesso (Nm 35,34). Il dono è quindi condizionato alla purezza morale 245 e al servizio al signore soltanto, con l’esclusione di tutti gli dei stranieri (Gs 24,14-24). D’altra parte, Dio solo è il proprietario del paese. Gli Israeliti vi abitano solo a titolo di « forestieri e inquilini », 246 come un tempo i patriarchi (Gn 23,4; Es 6,4).

Dopo il regno di Salomone, la terra dell’eredità si scinde in due regni. I profeti stigmatizzano l’idolatria e le ingiustizie sociali; annunciano il castigo: perdita della terra, che sarà conquistata da stranieri, ed esilio della popolazione. Ma lasciano sempre la porta aperta a un ritorno, a una nuova occupazione della Terra promessa, 247 non senza accentuare il ruolo centrale di Gerusalemme e del suo Tempio. 248 Più tardi la prospettiva si allarga a un futuro escatologico. Pur restando uno spazio geografico delimitato, la Terra promessa diventa un polo di attrazione per le nazioni. 249

Il tema della terra non deve far dimenticare il modo in cui il libro di Giosuè racconta l’ingresso nella Terra promessa. Molti testi 250 evocano l’atto di consacrazione a Dio dei frutti della vittoria, cioè l’anatema (herem). Questo atto implica, per impedire ogni contaminazione religiosa straniera, l’obbligo di distruggere i luoghi e gli oggetti di culto pagani (Dt 7,5), ma anche ogni essere vivente (20,16-18). Similmente, contro una città israelitica diventata idolatra, Dt 13,16-18 prescrive la messa a morte di tutti gli abitanti e la sua completa distruzione col fuoco.

Al tempo della composizione del Deuteronomio — così come del libro di Giosué — l’anatema era un postulato teorico, poiché in Giuda non c’erano più popolazioni non israelite. È quindi possibile che la prescrizione dell’anatema sia il risultato di una proiezione nel passato di preoccupazioni posteriori. Il Deuteronomio, infatti, si preoccupa di rafforzare l’identità religiosa di un popolo esposto al pericolo dei culti stranieri e dei matrimoni misti. 251

Per meglio comprendere questa menzione dell’anatema, bisognerà quindi tener conto di tre fattori di interpretazione, uno teologico, l’altro morale, e l’ultimo, piuttosto sociologico: il riconoscimento della Terra come dominio inalienabile del signore; la necessità di risparmiare al popolo ogni tentazione che poteva comprometterne la totale fedeltà a Dio; infine, la tentazione molto umana di mescolare alla religione le forme più aberranti di ricorso alla violenza.

Nel Nuovo Testamento

57. Il Nuovo Testamento sviluppa poco il tema della Terra promessa. La fuga di Gesù e dei suoi genitori in Egitto e il ritorno nella « terra d’Israele » (Mt 2,20-21) riproducono chiaramente l’itinerario dei padri; alla base del racconto c’è una tipologia teologica. Nel discorso di Stefano che ricorda la storia, il termine « promettere » o « promessa » è vicino a « terra » ed « eredità » (At 7,2-7). L’espressione « Terra promessa », inesistente nell’Antico Testamento, si incontra nel Nuovo (Eb 11,9) in un passo che fa, sì, memoria dell’esperienza storica di Abramo, ma per meglio sottolineare il suo carattere provvisorio, incompiuto, e il suo orientamento verso il futuro assoluto del mondo e della storia: per l’autore, la « terra » d’Israele ha il solo scopo di indirizzare verso una terra diversa, una « patria celeste ». 252 Una beatitudine effettua lo stesso tipo di passaggio dal significato geografico storico 253 a un significato più aperto: « i miti possederanno la terra » (Mt 5,5); « la terra » equivale lì a « Regno dei cieli » (5,3.10), in un orizzonte di escatologia al tempo stesso presente e futura.

Gli autori del Nuovo Testamento non fanno che spingere oltre un processo di approfondimento simbolico messo già in moto nell’Antico Testamento e nel giudaismo intertestamentario. Questo non deve, però, farci dimenticare che una terra concreta è stata promessa da Dio a Israele e ricevuta effettivamente in eredità; questo dono della terra era condizionato alla fedeltà all’alleanza (Lv 26; Dt 28).

c) La perennità e la salvezza finale d’Israele

Nell’Antico Testamento

58. Quale avvenire attende il popolo dell’alleanza? Nel corso della storia, esso si è posto costantemente questa domanda, in stretto legame con i temi del giudizio e della salvezza di Dio.

Già da prima dell’esilio, i profeti avevano rimesso in discussione la speranza ingenua in un « Giorno del signore » che avrebbe apportato automaticamente salvezza e vittoria sul nemico. Proprio al contrario, per annunciare la sorte funesta di un popolo dalla coscienza sociale e dalla fede gravemente mancanti, essi ricorrono all’immagine del Giorno del signore che è « tenebre e non luce », 254 ma non senza lasciare intravedere dei barlumi di speranza. 255

Il dramma dell’esilio provocato dalla rottura dell’alleanza ripresenta lo stesso interrogativo, nella sua massima drammaticità: Israele, lontano dalla sua terra, può ancora sperare la salvezza di Dio? C’è per esso un futuro? Ezechiele, prima, e il Secondo Isaia, poi, annunciano in nome di Dio un nuovo esodo, cioè un ritorno d’Israele nel suo paese, 256 un’esperienza di salvezza, che implica numerosi elementi: la riunificazione del popolo disperso (Ez 36,24) e la diretta responsabilità del Signore stesso su di esso, 257 un soffio di trasformazione interiore profonda, 258 la rinascita nazionale 259 e cultuale, 260 così come una valorizzazione delle scelte divine del passato, in particolare la scelta degli antenati Abramo e Giacobbe 261 e quella del re Davide (Ez 34,23-24).

Gli sviluppi profetici più recenti si inseriscono nella stessa linea. Alcuni oracoli solenni dichiarano che la stirpe d’Israele sussisterà sempre, 262 non cesserà mai di essere una nazione davanti al Signore e non sarà mai da lui ripudiata, nonostante tutto quello che ha fatto (Ger 31,35-37). Il Signore promette di ricostituire il suo popolo. 263 Le antiche promesse in favore d’Israele sono confermate. I profeti postesilici ne ampliano la portata in una prospettiva universalistica. 264

Riguardo alle prospettive future, bisogna sottolineare, come una sorta di contropartita, l’importanza di un tema particolare: quello del resto. In questo quadro teologico la perennità d’Israele è garantita, certo, ma all’interno di un gruppo ristretto che diventa, invece e al posto di tutto il popolo, portatore della speranza nazionale e della salvezza di Dio. 265 La comunità postesilica si considera un « resto scampato », in attesa della salvezza di Dio. 266

Nel Nuovo Testamento

59. Alla luce della risurrezione di Gesù cosa ne è d’Israele, il popolo eletto? Il perdono divino gli viene offerto subito (At 2,38), così come la salvezza per la fede nel Cristo risorto (13,38-39); molti ebrei lo accettano, 267 compreso « un gran numero di sacerdoti » (6,7), ma i capi si oppongono alla Chiesa nascente e, in ultima analisi, il popolo nel suo insieme non aderisce a Cristo. Questa situazione ha sempre suscitato un forte interrogativo sul compimento del disegno salvifico di Dio. Il Nuovo Testamento ne cerca la spiegazione nelle antiche profezie e constata che questa situazione è lì prefigurata, soprattutto in Is 6,9-10, citato molto spesso a questo proposito. 268 Paolo, in particolare, ne prova una viva sofferenza (Rm 9,1-3) e approfondisce il problema (Rm 9–11). I suoi « fratelli secondo la carne » (Rm 9,3) « hanno urtato contro la pietra d’inciampo » posta da Dio; invece di contare sulla fede, hanno contato sulle opere (9,32). Sono inciampati, ma non « per cadere » (11,11). Infatti « Dio non ha ripudiato il suo popolo » (11,2); ne è testimone l’esistenza di un « Resto », che crede in Cristo; Paolo stesso fa parte di questo Resto (11,1.4-6). Per l’Apostolo, l’esistenza di questo Resto garantisce la speranza della piena restaurazione d’Israele (11,12.15). Il venir meno del popolo eletto rientra in un piano paradossale di Dio: serve alla « salvezza dei pagani » (11,11). « L’indurimento di una parte d’Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato », grazie alla misericordia di Dio, che gli è stata promessa (11,25-26). Nel frattempo, Paolo mette in guardia i cristiani venuti dal paganesimo contro il pericolo di orgoglio e di ripiegamento su di sé che incombe su di essi, se dimenticano che sono solo dei rami selvatici innestati sull’olivo buono, Israele (11,17-24). Gli Israeliti restano « amati » da Dio e promessi a un avvenire luminoso, « perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili » (11,29). Questa è la dottrina molto positiva alla quale i cristiani devono costantemente ritornare.

d) Il Regno di Dio

60. Molti passi della Bibbia esprimono l’attesa di un mondo totalmente rinnovato con l’instaurazione di un regno ideale, di cui Dio prende e conserva tutta l’iniziativa. Tuttavia, i due Testamenti differiscono profondamente, non solo per l’importanza che l’uno o l’altro accorda a questo tema, ma soprattutto per la diversità degli accenti.

Nell’Antico Testamento

La concezione della regalità divina affonda le sue radici nelle culture dell’Oriente antico. La regalità di Dio sul suo popolo Israele appare nel Pentateuco 269 e soprattutto nel libro dei Giudici (Gdc 8,22-23) e nel primo libro di Samuele (1 Sam 8,7; 12,12). Dio è anche acclamato re di tutto l’universo, in particolare nei salmi del regno (Sal 93–99). Il signore si mostra come re al profeta Isaia verso il 740 a.C. (Is 6,3-5). Un profeta lo rivela come re universale, circondato da una corte celeste (1 Re 22,19-22).

Durante l’esilio i profeti concepiscono il regno di Dio come una realtà che agisce nel cuore stesso della storia movimentata del popolo eletto. 270 Lo stesso si constata in molti testi profetici più recenti. 271 Tuttavia il tema comincia già ad assumere una colorazione escatologica più accentuata, 272 che si manifesta nel giudizio sovrano che il Signore eserciterà sulle nazioni del mondo, nella sua residenza sulla collina di Sion (Is 2,1-4 = Mic 4,1-4). Il massimo dell’intensità escatologica sarà raggiunta nell’apocalittica, con l’emergenza di una figura misteriosa presentata « come figlio d’uomo », « che viene sulle nubi del cielo », al quale « fu dato potere, gloria e regno » su « tutti i popoli » (Dn 7,13-14). La strada è così aperta verso la rappresentazione di un regno trascendente, celeste, eterno, che il popolo dei santi dell’Altissimo è chiamato ad assumere (7,18.22.27).

È nel salterio che il tema del regno di Dio raggiunge il suo vertice. Sei salmi spiccano tra tutti, 273 cinque dei quali hanno in comune una stessa frase chiave: « Il signore regna », collocata o all’inizio o al centro. 274 Si nota una forte insistenza sulle dimensioni cosmica, etica e cultuale del regno. Nei salmi 47 e 96 viene accentuato l’universalismo: « Dio regna sulle nazioni ». 275 Il salmo 99 riserva un posto alle mediazioni umane, regale, sacerdotale e profetica (99,6-8). I salmi 96 e 98 aprono la porta a una concezione escatologica e universale del regno di Dio. D’altra parte, il salmo 114, salmo pasquale, celebra il signore come re, al tempo stesso d’Israele e dell’universo. Il regno di Dio viene evocato in molti altri salmi.

Nel Nuovo Testamento

61. Il tema del Regno di Dio, bene attestato nell’Antico Testamento, ma presente soprattutto nel salterio, diventa uno dei temi di gran lunga centrali nei vangeli sinottici, perché è alla base della predicazione profetica di Gesù, della sua missione messianica, della sua morte e della sua risurrezione. L’antica promessa trova ora la sua realizzazione, secondo una feconda tensione tra il già e il non-ancora. È vero che al tempo di Gesù la concezione veterotestamentaria di un « regno di Dio » imminente, terreno, politico, centrato su « Israele » e su « Gerusalemme » era ancora fortemente radicata (Lc 19,11), persino nei discepoli (Mt 20,21; At 1,6). Ma il Nuovo Testamento opera, nell’insieme, un capovolgimento radicale, già abbozzato nel giudaismo intertestamentario dove si faceva strada l’idea di un Regno celeste ed eterno (Giubilei XV, 32; XVI, 18).

Matteo usa il più delle volte l’espressione « regno dei cieli » (33 volte), un semitismo che permette di evitare di pronunciare il nome di Dio. A Gesù spetta la missione di « proclamare la buona novella del regno » insegnando, guarendo i malati 276 e scacciando i demoni (12,28). L’insegnamento di Gesù sulla « giustizia » necessaria per entrare nel regno (5,20) propone un ideale religioso e morale molto elevato (5,21-7,27). Gesù annuncia che il regno di Dio è vicino (3,2; 4,17), il che mette nel tempo presente una tensione escatologica. Il regno appartiene già da ora a quelli che sono « poveri in spirito » (5,3) e a coloro che sono « perseguitati per la giustizia » (5,10). Molte parabole mostrano il regno di Dio presente e operante nel mondo, come un seme che germoglia (13,31-32), il lievito attivo nella pasta (13,33). Per il suo ruolo nella Chiesa, Pietro riceverà « le chiavi del regno dei cieli » (16,19). Altre parabole esprimono l’aspetto di giudizio escatologico. 277 Il regno di Dio si realizza allora col regno del Figlio dell’uomo. 278 Un confronto tra Mt 18,9 e Mc 9,47 mostra che il Regno di Dio evoca l’accesso alla vera « vita », l’accesso, cioè, alla comunione che Dio realizza col suo popolo, nella giustizia e nella santità, in Gesù Cristo.

Marco e Luca presentano lo stesso insegnamento di Matteo, con sfumature proprie. Negli altri libri del Nuovo Testamento, il tema è meno presente; affiora comunque abbastanza spesso. 279 Senza usare l’espressione « il regno di Dio », 280 l’Apocalisse descrive il grande combattimento tra le forze del male che porta all’instaurazione di questo regno: « Il regno del mondo » appartiene ora « al Signore nostro e al suo Cristo », « egli regnerà nei secoli dei secoli » (Ap 11,15).

e) Il figlio e successore di Davide

Nell’Antico Testamento

62. In un certo numero di testi biblici, la speranza di un mondo migliore passa attraverso quella di un mediatore umano. Si attende il re ideale, che libererà dall’oppressione e farà regnare una giustizia perfetta (Sal 72). Questa attesa si è precisata a partire dall’oracolo di Natan che promette al re Davide che gli sarebbe succeduto uno dei suoi figli e che il suo regno sarebbe durato per sempre (2 Sam 7,11-16). Il senso immediato di questo oracolo non è messianico: non prometteva a Davide un successore privilegiato che avrebbe inaugurato il regno definitivo di Dio in un mondo rinnovato, ma semplicemente un successore immediato, che avrebbe a sua volta avuto dei successori. Ciascuno dei re discendenti di Davide era un « unto » del Signore, in ebraico m~šiah., perché la consacrazione dei re avveniva con una unzione d’olio, ma nessuno era il Messia. Altre profezie, suscitate dall’oracolo di Natan durante le crisi dei secoli successivi, promettevano anzitutto la permanenza della dinastia, come prova della fedeltà di Dio verso il suo popolo (Is 7,14), ma designavano anche, sempre di più, il ritratto di un re ideale, che avrebbe instaurato il regno di Dio. 281 Anche la delusione delle attese politiche contribuiva a far maturare una speranza più profonda. In questo senso venivano riletti gli antichi oracoli e i salmi regali (Sal 2; 45; 72; 110).

Il risultato di questa evoluzione appare negli scritti dell’epoca del secondo Tempio e nei manoscritti di Qumran. Questi esprimono un’attesa messianica in diverse forme: messianismo regale, sacerdotale, celeste. 282 D’altra canto, alcuni scritti giudaici combinano l’attesa di una salvezza terrena per Gerusalemme e quella di una salvezza eterna nell’aldilà, proponendo l’idea di un regno messianico terreno, provvisorio, che preluderebbe all’avvento del regno definitivo di Dio nella nuova creazione. 283 In seguito, la speranza messianica continua, certo, a far parte delle tradizioni del giudaismo, ma non appare in tutte le sue correnti come un tema centrale e polarizzante, né come una chiave unica.

Nel Nuovo Testamento

63. Per le comunità cristiane del primo secolo, al contrario, la promessa di un messia figlio di Davide diventa una chiave di lettura primordiale ed essenziale. Se, nell’Antico Testamento e nella letteratura intertestamentaria, è ancora possibile parlare di escatologia senza messia nel quadro di un vasto movimento di attesa escatologica, nel Nuovo, invece, si riconosce chiaramente in Gesù di Nazaret il Messia promesso, l’atteso d’Israele (e di tutta l’umanità), quindi colui che, nella sua persona, realizza le promesse di Dio. Da qui la preoccupazione di sottolineare la sua ascendenza davidica 284 e anche la sua superiorità in rapporto all’antenato regale, poiché questi lo chiama suo « Signore » (Mc 12,35-37 e par.).

Nel Nuovo Testamento ricorre solo due volte il termine mašiah, traslitterato in greco messias e seguito dalla sua traduzione greca christos, che significa « unto ». 285 In Gv 1,41 il contesto orienta verso un messianismo regale (cf 1,49: « re d’Israele »); in 4,25 verso un messianismo profetico, conformemente alla credenza samaritana: « Egli ci annunzierà ogni cosa ». Qui Gesù si riconosce esplicitamente in questo titolo (4,26). Altrove, il Nuovo Testamento esprime l’idea di messia con il termine christos, ma talvolta anche con l’espressione « colui che viene ». 286 Il titolo christos è riservato a Gesù, fatta eccezione di alcuni testi che denunciano i falsi messia. 287 Con kyrios, « Signore », è il titolo più frequente per esprimere l’identità di Gesù. Esso riassume il suo mistero; è l’oggetto di un gran numero di confessioni di fede nel Nuovo Testamento. 288

Nei sinottici, il riconoscimento di Gesù come messia gioca un ruolo di primo piano, in particolare nella confessione di Pietro (Mc 8,27-29 e par.). Il divieto formale di rivelare il titolo non equivale affatto a una sua negazione, ma conferma piuttosto la novità radicale della sua comprensione, per contrasto con l’attesa politica troppo terra terra dei discepoli e delle folle (8,30). Si afferma l’idea di un passaggio obbligato attraverso la sofferenza e la morte. 289 Di fronte al sommo sacerdote durante il suo processo, Gesù si identifica chiaramente col messia secondo Mc 14,61-62: il dramma della passione fuga ogni dubbio sulla specificità e l’unicità del messianismo di Gesù, nella linea del Servo sofferente descritto da Isaia. L’evento pasquale apre la strada alla parusia, cioè alla venuta del « figlio dell’uomo sulle nubi del cielo » (Mc 13,26 e par.), come già l’apocalisse di Daniele ne aveva espresso in modo confuso la speranza (Dn 7,13-14).

Nel quarto vangelo, l’identità messianica di Gesù diventa oggetto di magnifiche professioni di fede, 290 ma anche di molte controversie con i Giudei. 291 Numerosi « segni » mirano a confermarla. Si tratta chiaramente di una regalità trascendente (18,36-37), senza paragone con le aspirazioni nazionalistiche e politiche allora in voga (6,15).

Secondo l’oracolo di Natan, il figlio successore di Davide sarà riconosciuto come figlio di Dio. 292 Il Nuovo Testamento proclama che Gesù è effettivamente « il Cristo, il Figlio di Dio » 293 e dà della sua filiazione divina una definizione trascendente: Gesù è una sola cosa con il Padre. 294

Il secondo volume di Luca, testimone privilegiato della fede postpasquale della Chiesa, fa coincidere la consacrazione regale (messianica) di Gesù con il momento della sua risurrezione (At 2,36). La dimostrazione della credibilità del titolo diventa un elemento essenziale della predicazione apostolica. 295 Nel corpus paolino, il nome « Cristo » sovrabbonda, utilizzato spesso come nome proprio, profondamente radicato nella teologia della croce (1 Cor 1,13; 2,2) e della glorificazione (2 Cor 4,4-5). Basandosi sul salmo 109(110), versetti 1 e 4, la lettera agli Ebrei dimostra che il Cristo è messia-sacerdote (5,5-6.10), oltre che messia-re (1,8; 8,1). Essa esprime la dimensione sacerdotale delle sofferenze di Cristo e della sua glorificazione. Secondo l’Apocalisse, la messianicità di Gesù si situa nella linea di Davide: Gesù possiede « la chiave di Davide » (Ap 3, 7), realizza il messianismo davidico del salmo 2;296 egli dichiara: « Io sono la radice e la stirpe di Davide » (Ap 22,16).

Secondo il Nuovo Testamento, Gesù realizza quindi nella sua persona, in modo particolare nel suo mistero pasquale, l’insieme delle promesse di salvezza legate alla venuta del Messia. È il figlio di Davide, sì, ma anche Servo sofferente, Figlio dell’uomo, e persino Figlio eterno di Dio. In lui la salvezza riveste una dimensione nuova. L’accento si sposta da una salvezza soprattutto terrena verso una salvezza trascendente, che va oltre le condizioni di un’esistenza temporale. Si rivolge perciò ad ogni persona, a tutta l’umanità. 297

Torna all’indice

C. Conclusione

64. I lettori cristiani sono convinti che la loro ermeneutica dell’Antico Testamento, molto diversa, certo, da quella del giudaismo, corrisponda tuttavia a una potenzialità di senso effettivamente presente nei testi. Come un « rivelatore » durante lo sviluppo di una pellicola fotografica, la persona di Gesù e gli eventi che la riguardano hanno fatto apparire nelle Scritture una pienezza di significato che prima non poteva essere percepita. Questa pienezza di significato stabilisce tra il Nuovo Testamento e l’Antico un triplice rapporto: di continuità, di discontinuità e di progressione.

1. Continuità

Il Nuovo Testamento, oltre a riconoscere l’autorità delle Scritture ebraiche e a cercare costantemente di dimostrare che gli eventi « nuovi » sono conformi a quanto era stato annunciato (cf cap. I), accetta pienamente tutti i grandi temi della teologia d’Israele, nel loro triplice riferimento al presente, al passato e al futuro.

Appare innanzitutto una prospettiva universale e sempre presente: Dio è uno; è lui che, con la sua parola e il suo soffio, ha creato e sostiene l’universo, ivi compreso l’essere umano, grande, nobile, nonostante le sue miserie.

Gli altri temi si sono sviluppati in seno a una storia particolare: Dio ha parlato, si è scelto un popolo, l’ha molte volte liberato e salvato, ha stabilito con esso un rapporto di alleanza, offrendosi egli stesso (grazia) e offrendo ad esso un cammino di fedeltà (Legge). La persona e l’opera di Cristo così come l’esistenza della Chiesa si situano nel prolungamento di questa storia.

Questa apre al popolo eletto orizzonti futuri meravigliosi: una posterità (promessa ad Abramo), un habitat (una terra), la perennità al di là delle crisi e delle prove (grazie alla fedeltà di Dio), l’avvento di un ordine politico ideale (il Regno di Dio, il messianismo). Fin dall’inizio è previsto per la benedizione di Abramo un’irradiazione universale: la salvezza offerta da Dio deve raggiungere le estremità della terra. In effetti Cristo Gesù offre la salvezza al mondo intero.

2. Discontinuità

Non si può tuttavia negare che il passaggio dall’uno all’altro Testamento comporta delle rotture. Queste non sopprimono la continuità, ma la presuppongono su ciò che è essenziale. Riguardano comunque interi settori della Legge: istituzioni, come il sacerdozio levitico e il tempio di Gerusalemme; forme di culto, come l’immolazione di animali; pratiche religiose e rituali, come la circoncisione, le regole sul puro e l’impuro, le prescrizioni alimentari; leggi imperfette, come quella sul divorzio; interpretazioni legali restrittive, riguardanti ad esempio il sabato. È chiaro che, da un certo punto di vista — quello del giudaismo — si tratta di elementi di grande importanza che vengono meno. Ma è altrettanto evidente che il radicale spostamento di accento realizzato nel Nuovo Testamento era avviato già nell’Antico Testamento e ne costituisce pertanto una lettura potenziale legittima.

3. Progressione

65. La discontinuità su alcuni punti è solo l’aspetto negativo di una realtà il cui aspetto positivo si chiama progressione. Il Nuovo Testamento attesta che Gesù, ben lontano dall’opporsi alle Scritture d’Israele, dall’esautorarle o dal revocarle, le porta a compimento, nella sua persona, nella sua missione, e in modo particolare nel suo mistero pasquale. A dire il vero, nessuno dei grandi temi della teologia dell’Antico Testamento sfugge alla nuova irradiazione della luce cristologica.

a) Dio. Il Nuovo Testamento mantiene fermamente la fede monoteistica d’Israele: Dio resta l’unico; 298 tuttavia, il Figlio partecipa di questo mistero, che d’ora in poi viene espresso solo in un simbolismo ternario, già preparato, ma alla lontana, nell’Antico Testamento. 299 Dio crea con la sua parola, certo (Gn 1); ma questa Parola preesiste « presso Dio » ed « è Dio » (Gv 1,1-5); dopo essersi espressa, nel corso della storia, per bocca di tutta una serie di portaparola autentici (Mosè e i profeti), essa s’incarna alla fine in Gesù di Nazaret. 300 Dio crea al tempo stesso « col soffio della sua bocca » (Sal 33,6). Questo soffio è « lo Spirito Santo », inviato da Gesù risorto e innalzato alla destra del Padre (At 2,33).

b) L’uomo. L’essere umano è creato grande, « a immagine di Dio » (Gn 1,26). Ma « l’icona più perfetta del Dio invisibile » è Cristo (Col 1,15). E noi siamo chiamati a diventare noi stessi immagine di Cristo, 301 cioè « creazione nuova ». 302 Dio ci libera, sì, dalle nostre povertà e dalle nostre miserie, ma attraverso la mediazione unica di Gesù Cristo, morto per i nostri peccati e risorto per la nostra vita. 303

c) Il popolo. Nel Nuovo Testamento l’elezione d’Israele, popolo dell’alleanza, resta una realtà irrevocabile: questo conserva intatte le sue prerogative (Rm 9,4) e il suo status prioritario, nella storia, in rapporto all’offerta della salvezza (At 13,23) e della Parola di Dio (13,46). Ma ad Israele Dio ha offerto un’« alleanza nuova » (Ger 31,31); questa è stata fondata nel sangue di Gesù. 304 La Chiesa si compone di Israeliti che hanno accettato questa nuova alleanza e di altri credenti che si sono uniti a loro. Popolo della nuova alleanza, la Chiesa è cosciente di esistere solo grazie alla sua adesione a Cristo Gesù, messia d’Israele, e grazie ai suoi legami con gli apostoli, tutti israeliti. Ben lontana quindi dal sostituirsi a Israele, 305 la Chiesa resta solidale con esso. Ai cristiani venuti dalle nazioni, l’apostolo Paolo dichiara che sono stati innestati sull’olivo buono che è Israele (Rm 11,16.17). Ciò detto, la Chiesa è consapevole che Cristo le dona un’apertura universale, conformemente alla vocazione di Abramo, la cui discendenza si amplia ora grazie a una filiazione fondata sulla fede in Cristo (Rm 4,11-12). Il Regno di Dio non è più legato al solo Israele ma aperto a tutti, compresi i pagani, con un posto speciale per i poveri e gli esclusi. 306 La speranza legata alla dinastia regale di Davide, anche se decaduta da ormai sei secoli, diventa una chiave di lettura essenziale della storia: essa si concentra ora in Gesù Cristo, un discendente umile e lontano. Infine, per quanto riguarda la terra d’Israele (compreso il suo Tempio e la sua Città santa), il Nuovo Testamento spinge molto più avanti quel processo di simbolizzazione già avviato nell’Antico Testamento e nel giudaismo intertestamentario.

Così dunque, per i cristiani, con l’avvento di Cristo e della Chiesa, il Dio della rivelazione pronuncia la sua ultima parola. « Dopo aver, a più riprese e in diversi modi, parlato un tempo ai padri nei profeti, Dio, nel periodo finale in cui ci troviamo, ci ha parlato in un Figlio » (Eb 1,1-2).

Torna all’indice

III.
GLI EBREI NEL NUOVO TESTAMENTO

66. Dopo aver esaminato i rapporti che gli scritti del Nuovo Testamento intrattengono con le Scritture del popolo ebraico, dobbiamo ora considerare i diversi giudizi espressi sugli ebrei nel Nuovo Testamento e, a tal fine, cominciare con l’osservare la diversità che si manifestava allora in seno allo stesso giudaismo.

A. Punti di vista diversi nel giudaismo postesilico

1. Gli ultimi secoli prima di Cristo

« Giudaismo » è un termine appropriato per indicare il periodo della storia israelitica che inizia nel 538 a.C. con la decisione persiana di permettere la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme. La religione del giudaismo fu, in molti modi, l’erede della religione preesilica nel regno di Giuda. Il Tempio fu ricostruito; i sacrifici erano offerti; gli inni e i salmi cantati; le feste di pellegrinaggio nuovamente celebrate. Il giudaismo assunse una colorazione religiosa particolare per la proclamazione della Legge da parte di Esdra (Ne 8,1-12) nell’epoca persiana. A poco a poco le sinagoghe divennero un fattore importante nell’esistenza ebraica. Il loro diverso atteggiamento nei riguardi del Tempio divise spesso gli ebrei fino al 70 d.C., come si può vedere nella dissidenza samaritana e nei manoscritti di Qumran. Divisioni basate sulle diverse interpretazioni della Legge esistettero dopo il 70 come prima.

La comunità samaritana costituiva un gruppo dissidente, rinnegato dagli altri (Sir 50,25-26). Essa si basava su una forma particolare del Pentateuco e aveva rifiutato il santuario e il sacerdozio di Gerusalemme. Il santuario dei samaritani era costruito sul monte Garizim (Gv 4,9.20). Avevano un loro sacerdozio.

La descrizione, fatta da Giuseppe Flavio, di tre « partiti » o scuole di pensiero, Farisei, Sadducei ed Esseni (Ant. 13.5.9; § 171), è una semplificazione e va interpretata con cautela. Si può essere sicuri che molti ebrei non appartenevano ad alcuno di questi tre gruppi. D’altra parte, le divergenze tra questi andavano al di là del punto di vista strettamente religioso.

L’origine dei Sadducei si situa probabilmente nel sacerdozio sadocita del Tempio. Come gruppo distinto sembrano apparire al tempo dei Maccabei, a causa dell’atteggiamento reticente di un’altra parte del sacerdozio nei confronti del potere asmoneo. Le difficoltà della loro esatta identificazione si manifestano quando si studia il periodo che si estende dalle lotte maccabaiche contro i Seleucidi a partire dal 167 fino all’intervento romano nel 63 a.C. I Sadducei si identificarono sempre di più con l’aristocrazia ellenizzata, che deteneva il potere; si suppone che avessero poco in comune con il popolo.

L’origine degli Esseni si situa, secondo alcuni autori, intorno al 200 a.C., nell’atmosfera delle attese apocalittiche ebraiche, ma la maggior parte la vedono in un’opposizione al cambiamento di situazione concernente il Tempio a partire dall’anno 152, data in cui fu nominato sommo sacerdote Gionata, fratello di Giuda Maccabeo. Si tratterebbe degli Assidei o « pii » che si erano uniti alla rivolta maccabaica (1 Mac 2,42) e che si erano poi sentiti traditi da Gionata e Simone, fratelli di Giuda Maccabeo, che avevano accettato di essere nominati sommi sacerdoti dai re seleucidi. Le nostre informazioni sugli Esseni si sono notevolmente arricchite con la scoperta, a partire dal 1947, di rotoli e frammenti di circa 800 manoscritti a Qumran, presso il mar Morto. Gran parte degli studiosi ritiene, infatti, che questi documenti provengano da un gruppo di Esseni stabilitisi in questo luogo. Lo storico Giuseppe offre, ne La guerra giudaica, 307 una lunga descrizione carica di ammirazione per la pietà e la vita comunitaria degli Esseni, che, per certi aspetti, assomigliano a un gruppo monastico. Disdegnando il Tempio retto da sacerdoti che essi giudicavano indegni, i Qumraniti formavano la comunità della nuova alleanza. Cercavano la perfezione grazie a un’osservanza estremamente rigida della Legge, interpretata per essi dal Maestro di giustizia. Attendevano un avvento messianico imminente, intervento di Dio per eliminare ogni iniquità e punire i nemici.

I Farisei non erano un movimento sacerdotale. Apparentemente, l’assunzione della dignità di sommo sacerdote da parte dei Maccabei non li preoccupava. Tuttavia, il loro stesso nome, che implica separazione, risulta probabilmente dal fatto che anch’essi, in definitiva, erano diventati molto critici verso gli Asmonei, discendenti dei Maccabei, e se ne erano dissociati, essendo il loro modo di governare diventato sempre più secolarizzato. Alla Legge scritta, i Farisei aggiungevano una seconda Legge di Mosè, orale. Le loro interpretazioni erano meno severe di quelle degli Esseni e più innovatrici di quelle dei Sadducei, che, con spirito conservatore, si attenevano alla Legge scritta. È così che a differenza dei Sadducei, i Farisei professavano una credenza nella risurrezione dei morti e negli angeli (At 23,8), credenze sorte nel corso del periodo postesilico.

Le relazioni tra i diversi gruppi erano di tanto in tanto estremamente tese, arrivando fino all’ostilità. È utile ricordarsi di questa ostilità per poter collocare nel suo contesto l’inimicizia che si riscontra nel Nuovo Testamento dal punto di vista religioso. Alcuni sommi sacerdoti si resero responsabili di molte violenze. Uno di essi, di cui si ignora il nome, cercò di mettere a morte, probabilmente verso la fine del II secolo a.C., il Maestro di giustizia di Qumran, durante la celebrazione di Kippur. Gli scritti di Qumran coprono di ingiurie la gerarchia sadducea di Gerusalemme, sacerdoti cattivi accusati di violare i comandamenti, e denigrano ugualmente i Farisei. Esaltando il Maestro di giustizia, essi qualificano un altro personaggio (un esseno?) come arrogante e menzognero, che perseguitava con la spada « tutti quelli che camminano verso la perfezione » (Documento di Damasco, ms. A, I, 20). Questi incidenti ebbero luogo prima del tempo di Erode il Grande e dei governatori romani in Giudea, quindi prima del tempo di Gesù.

2. Il primo terzo del I secolo d.C. in Palestina

67. Questo periodo è quello della vita di Gesù, iniziata tuttavia un po’ prima, essendo Gesù nato prima della morte di Erode il Grande avvenuta nell’anno 4 prima della nostra era. Alla morte di questi, l’imperatore Augusto divise il regno tra tre figli di Erode: Archelao (Mt 2,22), Erode Antipa (14,1; ecc.) e Filippo (16,13; Lc 3,1). Poiché il modo di governare di Archelao suscitava l’ostilità dei suoi sudditi, Augusto fece passare ben presto il suo territorio, la Giudea, sotto l’amministrazione romana.

Quale poteva essere la posizione di Gesù in rapporto ai tre « partiti » religiosi che abbiamo menzionato? Bisogna considerare tre questioni principali.

Al tempo della vita pubblica di Gesù qual era il gruppo religioso più importante? Giuseppe Flavio dice che i Farisei erano il partito principale, estremamente influente nelle città. 308 È forse questa la ragione per cui Gesù viene presentato in opposizione ad essi più che ad ogni altro gruppo, un indiretto omaggio alla loro importanza. A ciò si aggiunge che questa componente del giudaismo è sopravvissuta meglio delle altre ed il cristianesimo nascente ha dovuto confrontarsi soprattutto con essa.

Quali erano le posizioni dei Farisei? I vangeli presentano spesso i Farisei come dei legalisti ipocriti e senza cuore. Si è cercato di confutare questa presentazione sulla base di alcune posizioni rabbiniche attestate nella Mishna, che non sono né ipocrite né strettamente legaliste. L’argomento non è decisivo, perché una tendenza legalista si manifesta anche nella Mishna e, d’altra parte, si ignora in che misura le posizioni della Mishna, codificate verso l’anno 200, corrispondano a quelle dei Farisei del tempo di Gesù. Detto ciò, bisogna ammettere che, molto probabilmente, la presentazione dei Farisei nei vangeli è influenzata in parte dalle polemiche più tardive tra cristiani ed ebrei. Al tempo di Gesù, c’erano certamente dei Farisei che insegnavano un’etica degna di approvazione. Ma la testimonianza diretta di Paolo, un fariseo « accanito sostenitore delle tradizioni dei padri », mostra a quali eccessi poteva condurre lo zelo dei farisei: « perseguitavo fieramente la Chiesa di Dio ». 309

Gesù apparteneva a uno dei tre gruppi? Non c’è alcuna ragione di fare di lui un sadduceo. Non era sacerdote. La credenza negli angeli e nella risurrezione dei corpi così come le attese escatologiche che gli sono attribuite nei vangeli lo avvicinano molto di più alla teologia essena e farisaica. Ma il Nuovo Testamento non menziona mai gli Esseni e non ha alcun ricordo di un collegamento di Gesù con una comunità così specifica. Quanto ai Farisei, nominati spesso nei vangeli, la loro relazione con Gesù è regolarmente di opposizione, a causa del suo atteggiamento non conforme alle loro osservanze. 310

È quindi più probabile che Gesù non sia appartenuto ad alcuno dei partiti che esistevano allora in seno al giudaismo. Era semplicemente solidale con la maggior parte del popolo. Ricerche recenti hanno cercato di situarlo in diversi contesti del suo tempo: rabbi carismatici di Galilea, predicatori cinici itineranti o perfino zeloti rivoluzionari. Ma egli non si lascia racchiudere in nessuna di queste categorie.

Riguardo al rapporto di Gesù con i Gentili e il loro modo di pensare, ci si è ugualmente abbandonati a molte speculazioni, ma le informazioni a disposizione sono pochissime. In quest’epoca in Palestina, anche nelle regioni in cui la maggior parte della popolazione era ebraica, era forte l’influenza dell’ellenismo, ma non si faceva sentire dappertutto allo stesso modo. L’influenza esercitata su Gesù dalla cultura delle città ellenistiche come Tiberiade sulla riva del lago di Galilea e Sepforis (a 6 o 7 chilometri da Nazaret) resta molto problematica, perché i vangeli non danno alcuna indicazione di contatti di Gesù con queste città. Né abbiamo indizi che Gesù o i suoi più stretti discepoli parlassero greco in modo significativo. Nei vangeli sinottici, Gesù ha pochi contatti con i Gentili, ordina ai discepoli di non andare a predicare tra loro (Mt 10,5), vieta di imitare il loro modo di vivere (6,7.32). Alcune sue espressioni riflettono il sentimento ebraico di superiorità nei riguardi dei Gentili, 311 ma egli sa prendere le sue distanze di fronte a questi sentimenti e affermare, al contrario, la superiorità di molti Gentili (Mt 8,10-12).

Qual era il rapporto dei primi discepoli di Gesù con il contesto religioso ebraico? I Dodici e gli altri condividevano probabilmente la mentalità galilaica di Gesù, sebbene i dintorni del lago di Galilea dove abitavano siano stati più cosmopoliti di Nazaret. Il IV vangelo riferisce che Gesù attira alcuni discepoli di Giovanni Battista (Gv 1,35-41), che ha dei discepoli della Giudea (19,38) e che conquista un intero villaggio di Samaritani (4,39-42). È quindi possibile che il gruppo dei discepoli riflettesse il pluralismo allora esistente in Palestina.

3. Il secondo terzo del I secolo

68. Il primo periodo di diretta amministrazione romana della Giudea terminò nel 3940. Erode Agrippa I, amico dell’imperatore Caligola (37-41) e del nuovo imperatore, Claudio (41-54), diventò re su tutta la Palestina (41-44). Egli guadagnò il favore dei capi religiosi ebrei e si sforzò di apparire pio. In At 12 Luca gli attribuisce una persecuzione e la messa a morte di Giacomo, fratello di Giovanni e figlio di Zebedeo. Dopo la morte di Agrippa, di cui At 12,20-23 presenta un racconto drammatizzato, iniziò un altro periodo di governo romano.

Fu nel corso di questo secondo terzo del I secolo che i discepoli di Cristo risorto divennero molto numerosi e si organizzarono in « chiese » (« assemblee »). È verosimile che le strutture di alcuni gruppi ebraici abbiano esercitato un’influenza sulle strutture della Chiesa primitiva. Ci si può domandare se i « presbiteri » o gli « anziani » cristiani siano stati istituiti sul modello degli « anziani » delle sinagoghe e, d’altra parte, se gli « episcopi » (« sorveglianti ») cristiani siano stati stabiliti sul modello dei « sorveglianti » descritti a Qumran. La designazione del movimento cristiano come « la via » (hodos) riflette forse la spiritualità degli uomini di Qumran, partiti nel deserto per preparare la strada del Signore? Dal punto di vista teologico, si è creduto di trovare delle tracce dell’influenza di Qumran nel dualismo del IV vangelo, espresso in termini di luce e tenebre, verità e menzogna, nella lotta tra Gesù, luce del mondo, e il potere delle tenebre (Lc 22,53) e nella lotta tra lo Spirito della verità e il Principe di questo mondo (Gv 16,11). Ma la presenza di temi comuni non implica necessariamente una relazione di dipendenza.

I procuratori romani degli anni 44-66 furono uomini senza levatura, corrotti e disonesti. Il loro cattivo governo suscitò la comparsa dei « sicari » (terroristi armati di pugnale) e degli « zeloti » (impietosi fanatici della Legge) e provocò, alla fine, una grande rivolta ebraica contro i Romani. Per domare questa rivolta furono impiegati rilevanti forze armate romane e i migliori generali. Per i cristiani, un evento notevole fu la messa a morte di Giacomo, « fratello del Signore », nell’anno 62, in seguito a una decisione del Sinedrio convocato dal sommo sacerdote Ananus (Anna) II. Questo sommo sacerdote fu destituito dal procuratore Albino per aver agito illegalmente. Solo due anni più tardi, dopo il grande incendio che devastò Roma nel 64, l’imperatore Nerone (54-68) perseguitò i cristiani nella capitale. Secondo una tradizione molto antica, gli apostoli Pietro e Paolo furono martirizzati in tale occasione. Ne consegue che, parlando in modo approssimativo, l’ultimo terzo del I secolo può essere chiamato periodo post-apostolico.

4. L’ultimo terzo del I secolo

69. La rivolta ebraica nel 66-70 e la distruzione del Tempio di Gerusalemme provocarono un cambiamento nella dinamica dei raggruppamenti religiosi. I rivoluzionari (sicari, zeloti e altri) furono sterminati. L’insediamento di Qumran fu distrutto nel 68. La cessazione dei sacrifici nel Tempio indebolì la base del potere dei dirigenti sadducei, appartenenti alle famiglie sacerdotali. Non sappiamo in che misura il giudaismo rabbinico sia erede dei Farisei. Ciò che è certo è che, dopo il 70, alcuni maestri rabbini, « i saggi d’Israele », furono a poco a poco riconosciuti come guide del popolo. Quelli che erano radunati ad Jamnia (Yavneh), sulla costa palestinese, furono considerati dalle autorità romane i portaparola degli ebrei. Dal 90 al 110 circa, Gamaliele II, figlio e nipote di celebri interpreti della Legge, presiedeva l’assemblea di Jamnia. È possibile che gli scritti cristiani risalenti a questo periodo, quando parlano di giudaismo, siano stati influenzati, in modo crescente, dai rapporti con questo giudaismo rabbinico in via di formazione. In certi settori, il conflitto tra i dirigenti delle sinagoghe e i discepoli di Gesù era acuto. Lo si vede dalla menzione dell’espulsione dalla sinagoga inflitta a « chiunque avrebbe confessato che Gesù è il Cristo » (Gv 9, 22) e, come contropartita, dalla forte polemica antifarisaica di Mt 23 nonché dal riferimento, fatto dall’esterno, alle « loro sinagoghe », designate come luoghi in cui i discepoli di Gesù saranno flagellati (Mt 10, 17). Spesso viene menzionata la Birkat ha-minim, « benedizione » sinagogale (in realtà una maledizione) contro gli eretici. La sua datazione all’anno 85 è incerta e l’idea che si trattasse di un decreto ebraico universale contro i cristiani è quasi certamente un errore. Ma non si può seriamente mettere in dubbio che a partire da date diverse a secondo dei luoghi, le sinagoghe locali non abbiano più tollerato la presenza dei cristiani facendo loro subire vessazioni che potevano arrivare fino alla messa a morte (Gv 16, 2).312

Gradualmente, a partire dall’inizio del II secolo, una formula di « benedizione » che denunciava eretici o devianti di ogni tipo fu compresa come riferita anche ai cristiani e, molto più tardi, come riferita specialmente ad essi. Verso la fine del II secolo, le linee di demarcazione e di divisione tra ebrei che non credevano in Gesù e i cristiani erano dappertutto chiaramente tracciate. Ma testi come 1 Ts 2,14 e Rm 9–11 dimostrano che la divisione era già percepita chiaramente molto prima di questo tempo.

Torna all’indice

B. Gli ebrei nei vangeli e negli Atti degli apostoli

70. Sugli ebrei, i vangeli e gli Atti hanno una prospettiva fondamentale molto positiva, perché riconoscono il popolo ebraico come il popolo scelto da Dio per realizzare il suo disegno di salvezza. Questa scelta divina trova la sua più alta conferma nella persona di Gesù, figlio di madre ebrea, nato per essere il salvatore del suo popolo e che conduce a buon fine la sua missione annunciando al suo popolo la buona novella e realizzando un’opera di guarigione e di liberazione, che culmina nella sua passione e risurrezione. L’adesione a Gesù di un gran numero di ebrei, durante la sua vita pubblica e dopo la sua risurrezione, conferma questa prospettiva, e ugualmente la scelta da parte di Gesù di dodici ebrei per partecipare alla sua missione e continuare la sua opera.

Accolta positivamente all’inizio da molti ebrei, la Buona Novella si scontra con l’opposizione dei dirigenti, che sono alla fine seguiti dalla maggior parte del popolo. Ne risulta, tra le comunità ebraiche e le comunità cristiane, una situazione conflittuale, che ha evidentemente lasciato il suo segno nella redazione dei vangeli e degli Atti.

1. Vangelo secondo Matteo

I rapporti tra il primo vangelo e il mondo ebraico sono particolarmente stretti. Molti dettagli manifestano in esso una grande familiarità con le Scritture, le tradizioni e la mentalità dell’ambiente ebraico. Più di Marco e Luca, Matteo insiste sull’origine ebraica di Gesù; la sua genealogia presenta Gesù come « figlio di Davide, figlio di Abramo » (Mt 1,1) e non va oltre. Il significato del nome di Gesù viene sottolineato: il bimbo di Maria porterà questo nome, « perché salverà il suo popolo dai suoi peccati » (1,21). La missione di Gesù, durante la sua vita pubblica, si limita « alle pecore perdute della casa d’Israele » (15,24) ed egli fissa lo stesso limite alla prima missione dei Dodici (10,5-6). Più degli altri evangelisti, Matteo si preoccupa di notare spesso che gli eventi dell’esistenza di Gesù avvengono « perché si compia quanto era stato detto dai profeti » (2,23). Gesù stesso si preoccupa di precisare di non essere venuto per abolire la Legge, ma per darle compimento (5,17).

È tuttavia chiaro che le comunità cristiane hanno preso le loro distanze in rapporto alle comunità degli ebrei che non credono in Cristo Gesù. Dettaglio significativo: Matteo non dice che Gesù insegnava « nelle sinagoghe », ma dice: « nelle loro sinagoghe » (4,23; 9,35; 13,54), marcando così una separazione. Matteo mette in scena due dei tre partiti descritti dallo storico Giuseppe, i Farisei e i Sadducei, ma sempre in un contesto di opposizione a Gesù. Tale è anche il caso degli scribi, 313 spesso associati ai Farisei. Altro fatto significativo: le tre componenti del Sinedrio, « anziani, sommi sacerdoti e scribi », fanno la loro prima apparizione comune nel vangelo in occasione del primo annuncio della passione (16,21). Sono quindi anch’essi situati in un contesto di opposizione a Gesù, e di opposizione radicale.

Gesù si trova a fronteggiare l’opposizione degli scribi e dei farisei in molteplici occasioni e vi risponde, per ultimo, con una vigorosa controffensiva (23,2-7.13-36), in cui ricorre sei volte l’invettiva « scribi e farisei ipocriti ». Questa presentazione riflette in parte, certamente, la situazione della comunità di Matteo. Il contesto redazionale è quello di due gruppi che vivono in stretto contatto l’uno con l’altro: il gruppo degli ebrei cristiani, convinti di appartenere al giudaismo autentico, e quello degli ebrei che non credevano in Cristo Gesù ed erano considerati dai cristiani come infedeli alla loro vocazione ebraica per docilità a dei dirigenti ciechi e ipocriti.

Bisogna anzitutto notare che la polemica di Matteo non ha di mira i Giudei in generale. Questi vengono nominati solo nell’espressione « re dei Giudei », applicata a Gesù (2,2; 27,11.29.37), e in una frase dell’ultimo capitolo (28,15), di importanza molto secondaria. La polemica è quindi piuttosto interna tra due gruppi appartenenti entrambi al giudaismo. D’altro canto, essa ha di mira solo i dirigenti. Mentre nell’oracolo di Isaia viene biasimata tutta la vigna (Is 5,1-5), nella parabola di Matteo vengono accusati solo i vignaioli (Mt 21,33-41). Le invettive e le accuse lanciate contro gli scribi e i farisei sono analoghe a quelle che si trovano nei profeti e corrispondono al genere letterario dell’epoca, utilizzato sia in ambiente ebraico (ad esempio a Qumran) che in ambiente ellenistico. Sono del resto, come nei profeti, un aspetto dell’appello alla conversione. Lette nella comunità cristiana, esse mettono in guardia gli stessi cristiani contro atteggiamenti incompatibili con il vangelo (23,8-12).

Inoltre, la virulenza antifarisaica di Mt 23 è da vedere nel contesto del discorso apocalittico di Mt 24–25. Il linguaggio apocalittico è usato in tempo di persecuzione per rafforzare la capacità di resistenza della minoranza perseguitata e rinsaldare la sua speranza in un intervento divino liberatore. Visto in questa prospettiva, il vigore della polemica sorprende meno.

Bisogna tuttavia riconoscere che Matteo non restringe sempre la sua polemica alla classe dirigente. La diatriba di Mt 23 contro gli scribi e i farisei è seguita da un’apostrofe indirizzata a Gerusalemme. È tutta la città a essere accusata di « uccidere i profeti » e di « lapidare quelli che le sono inviati » (23,37) ed è alla città che viene annunciato il castigo (23,38). Del suo magnifico Tempio « non resterà pietra su pietra » (24,2). Si ritrova qui una situazione parallela a quella del tempo di Geremia (Ger 7; 26). Il profeta aveva annunciato la distruzione del Tempio e la rovina della città (26,6.11). Gerusalemme sarebbe diventata « una maledizione per tutte le nazioni della terra » (26,6), esattamente il contrario della benedizione promessa ad Abramo e alla sua discendenza (Gn 12,3; 22,18).

71. Al tempo della redazione del vangelo, la maggior parte del popolo ebraico aveva seguito i suoi dirigenti nel rifiuto di credere in Cristo Gesù. Gli ebrei cristiani non erano che una minoranza. L’evangelista prevedeva quindi che le minacce di Gesù si sarebbero realizzate. Queste non avevano di mira gli ebrei in quanto ebrei, ma in quanto solidali con i loro dirigenti indocili a Dio. Matteo esprime questa solidarietà nel suo racconto della passione, quando riferisce che su istigazione dei sommi sacerdoti e degli anziani, « le folle » pretesero da Pilato che Gesù fosse crocifisso (Mt 27,20-23). In risposta alla negazione di responsabilità espressa dal governatore romano, « tutto il popolo » lì presente si addossò la responsabilità della condanna a morte di Gesù (27,24-25). Da parte del popolo, questa presa di posizione manifestava certamente la convinzione che Gesù meritasse la morte, ma agli occhi dell’evangelista, una tale convinzione era ingiustificabile. Gesù avrebbe potuto far proprie le parole di Geremia: « Sappiate bene che se mi uccidete, attirerete sangue innocente su di voi, su questa città e sui suoi abitanti » (Ger 26,15). Nella prospettiva dell’Antico Testamento è inevitabile che le colpe dei capi provochino conseguenze disastrose per tutta la collettività. Se la redazione del vangelo fu completata dopo l’anno 70, l’evangelista sapeva che, come la predizione di Geremia, quella di Gesù si era realizzata. Ma in questa realizzazione egli non poteva vedere un punto finale, perché tutta la Scrittura attesta che, dopo la sanzione divina, Dio apre sempre prospettive positive. 314 Ed è effettivamente su una prospettiva positiva che si conclude il discorso di Mt 23. Verrà un giorno in cui Gerusalemme dirà: « Benedetto colui che viene nel nome del Signore » (23,39). La passione stessa di Gesù apre la prospettiva più positiva che ci potesse essere, perché, Gesù trasforma il suo « sangue innocente », versato in modo criminale, in un « sangue di alleanza », « versato per il perdono dei peccati » (26,28).

Come il grido del popolo nel racconto della passione (27,25), la conclusione della parabola dei vignaioli sembra mostrare che, all’epoca della composizione del vangelo, la maggior parte del popolo era rimasta solidale con i suoi capi nel loro rifiuto della fede in Gesù. Infatti, dopo aver predetto a costoro: « Il Regno di Dio vi sarà tolto », Gesù non aggiunge che il Regno sarà dato « ad altre autorità », ma dice che sarà dato « a una nazione, che lo farà fruttificare » (21,43). L’espressione « una nazione » si oppone implicitamente a « popolo d’Israele »; essa suggerisce, certo, che un gran numero dei suoi membri non sarà di origine ebraica. Ma la presenza di ebrei non è per questo esclusa, perché l’insieme del vangelo fa capire che questa « nazione » sarà costituita sotto l’autorità dei Dodici, in particolare di Pietro (16,18), e i Dodici sono ebrei. Con essi ed altri ebrei « molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori » (8,11-12). Questa apertura universalistica trova la sua conferma definitiva nel finale del vangelo, perché Gesù risorto ordina lì agli « undici discepoli » di andare ad ammaestrare « tutte le nazioni » (28,19). Ma questo finale conferma al tempo stesso la vocazione d’Israele, perché Gesù è un figlio d’Israele e in lui si compie la profezia di Daniele che riguarda il ruolo d’Israele nella storia. Le parole del risorto: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra » 315 precisano in che senso bisogna ora comprendere la visione universalistica di Daniele e degli altri profeti.

Conclusione. Il vangelo di Matteo, più degli altri sinottici, è un vangelo del compimento — Gesù non è venuto per abolire ma per portare a compimento — e insiste quindi sull’aspetto di continuità con l’Antico Testamento, fondamentale per la nozione di compimento. È questo aspetto che permette di stabilire dei legami fraterni tra cristiani ed ebrei. Ma, d’altra parte, il vangelo di Matteo riflette una situazione di tensione e persino di opposizione tra le due comunità. Gesù prevede che i suoi discepoli saranno flagellati nelle sinagoghe e perseguitati di città in città (23,34). Matteo si preoccupa perciò di difendere i cristiani. Essendo poi la situazione mutata radicalmente, la polemica di Matteo non deve più intervenire nei rapporti tra cristiani ed ebrei e l’aspetto di continuità può e deve prevalere. Lo stesso si deve dire della predizione della distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Questa distruzione è un evento del passato, che deve ora suscitare solo una profonda compassione. I cristiani devono assolutamente evitare di estenderne la responsabilità alle generazioni successive del popolo ebraico e devono aver cura di ricordarsi che dopo una sanzione divina Dio non manca mai di aprire nuove prospettive positive.

2. Vangelo di Marco

72. Il vangelo di Marco è un messaggio di salvezza senza alcuna precisazione circa i suoi destinatari. Il finale, aggiunto successivamente, lo destina in modo audace « a tutta la creazione », « in tutto il mondo » (16,15), il che corrisponde alla sua apertura universalistica. Sul popolo ebraico, Marco, egli stesso ebreo, non esprime un giudizio d’insieme. Il giudizio negativo del profeta Isaia (Is 29,13) viene applicato da Marco solo ai Farisei e agli scribi (Mc 7,5-7). Al di fuori del titolo « re dei Giudei », applicato cinque volte a Gesù nel racconto della passione, 316 il nome « Giudei » appare una sola volta nel vangelo, nel corso di una spiegazione sulle usanze ebraiche (7,3), inserita evidentemente per lettori non ebrei. Questa spiegazione si trova in un episodio in cui Gesù critica l’estremo attaccamento dei farisei alla « tradizione degli antichi », che fa loro trascurare « il comandamento di Dio » (7,8). Marco nomina « Israele » solo due volte, 317 e altrettanto « il popolo ». 318 Nomina, al contrario, molto spesso « la folla », composta naturalmente soprattutto da ebrei, e questa folla è molto favorevole a Gesù, 319 fatta eccezione dell’episodio della passione, dove i sommi sacerdoti la spingono a preferire a lui Barabba (15,11).

Lo sguardo critico di Marco verte sull’atteggiamento delle autorità religiose e politiche. Il giudizio riguarda essenzialmente la loro mancanza di apertura alla missione salvifica di Gesù: gli scribi accusano Gesù di bestemmia, quando esercita il suo potere di rimettere i peccati (2,7-10); non accettano che Gesù « mangi con i pubblicani e i peccatori » (2,15-16); lo dichiarano posseduto da un demonio (3,22). Gesù deve fronteggiare la loro opposizione e quella dei farisei. 320

Le autorità politiche sono chiamate in causa più di rado: Erode per la morte di Giovanni Battista (6,17-28) e per il suo « lievito » associato a quello dei Farisei (8,15); il Sinedrio ebraico, autorità politico-religiosa (14,55; 15,1), e Pilato (15,15) per il loro ruolo nella passione.

Nel racconto della passione, il secondo vangelo cerca di rispondere a due interrogativi: da chi è stato condannato Gesù e perché è stato messo a morte? Comincia col dare una risposta d’insieme, che colloca gli eventi nella luce divina: tutto è accaduto « perché si adempissero le Scritture » (14,49). Poi mostra il ruolo delle autorità ebraiche e quelle del governatore romano.

L’arresto di Gesù è stato effettuato per ordine dei tre componenti del Sinedrio, « sommi sacerdoti, scribi e anziani » (14,43), ed è il risultato di un lungo processo, iniziato in Mc 3,6, dove però i protagonisti sono diversi: lì sono i Farisei che si associano agli Erodiani per complottare contro Gesù. Fatto significativo: « gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi » appaiono insieme per la prima volta nel primo annuncio della passione (8,1). In 11,18, « i sommi sacerdoti e gli scribi » cercano il modo per far morire Gesù. Le tre categorie si ritrovano in 11,27 per sottomettere Gesù a un interrogatorio. Gesù racconta loro la parabola dei vignaioli omicidi; la loro reazione è che « cercano di catturarlo » (12,12). In 14,1 la loro intenzione è di catturarlo per « metterlo a morte ». Il tradimento di Giuda offre loro l’occasione propizia (14,10-11). L’arresto e la conseguente condanna a morte sono quindi responsabilità dell’allora classe dirigente della nazione ebraica. All’atteggiamento delle autorità, Marco oppone regolarmente quello della « folla » o del « popolo », favorevole a Gesù. A tre riprese, 321 l’evangelista nota che le autorità sono state frenate nel loro progetto omicida dal timore della reazione del popolo. Ciononostante, alla fine del processo davanti a Pilato, i sommi sacerdoti riescono a mettere la folla presente in uno stato di eccitazione e a farla decidere a favore di Barabba (15,11) e quindi contro Gesù (15,13). La decisione finale di Pilato, impotente nel calmare la folla, è quella di « assecondarla », il che, per Gesù, significa la crocifissione (15,15). Questa folla occasionale non può evidentemente essere confusa con il popolo ebraico di quel tempo e ancora meno con il popolo ebraico di tutti i tempi. Bisogna piuttosto dire che essa rappresentava il mondo peccatore (14,41), di cui facciamo tutti parte.

Colpevole di aver « condannato » Gesù, secondo Marco è il Sinedrio (10,33; 14,64). Di Pilato egli non dice che abbia espresso un giudizio di condanna contro Gesù, ma che, senza avere contro di lui alcun motivo di accusa (15,14), lo consegna perché sia messo a morte (15,15), il che rende Pilato ancora più colpevole. Il motivo della condanna del Sinedrio è che Gesù, nella sua risposta, affermativa e circostanziata, al sommo sacerdote che gli domandava se era « il Cristo, il Figlio del Benedetto », ha pronunziato una « bestemmia » (14,61-64). Marco indica così il punto di rottura più drammatico tra le autorità ebraiche e la persona di Cristo, punto che continua a essere il disaccordo più grave tra il giudaismo e il cristianesimo. Per i cristiani, la risposta di Gesù non è una bestemmia, ma la pura verità, che è stata manifestata tale dalla sua risurrezione. Agli occhi dell’insieme degli ebrei, i cristiani hanno il torto di affermare la filiazione divina di Cristo in un senso che offende gravemente Dio. Per quanto doloroso, questo disaccordo fondamentale non deve degenerare in ostilità reciproca, né far dimenticare l’esistenza di un ricco patrimonio comune, ivi compresa la fede nel Dio unico.

Conclusione.Sostenere che, secondo il vangelo di Marco, la responsabilità della morte di Gesù sia da attribuire al popolo ebraico, è frutto di un’erronea interpretazione di questo vangelo. Questo tipo di interpretazione, che ha avuto conseguenze disastrose nel corso della storia, non corrisponde affatto alla prospettiva del vangelo che, come abbiamo visto, oppone molte volte l’atteggiamento del popolo o della folla a quello delle autorità ostili a Gesù. Si dimentica, d’altra parte, che i discepoli di Gesù facevano ugualmente parte del popolo ebraico. Si tratta quindi di un abusivo trasferimento di responsabilità, di cui la storia umana è purtroppo ricca di esempi. 322

Conviene piuttosto ricordarsi che la passione di Gesù fa parte di un misterioso disegno di Dio, disegno di salvezza, perché Gesù è venuto « per servire e dare la propria vita in riscatto per molti » (10,45) ed ha fatto del suo sangue versato un « sangue di alleanza » (14,24).

3. Vangelo secondo Luca e Atti degli apostoli

73. Indirizzati all’« illustre Teofilo » allo scopo di completare la sua istruzione cristiana (Lc 1,3-4; At 1,1), il vangelo di Luca e il libro degli Atti sono scritti di grande apertura universalistica e, al tempo stesso, molto favorevoli a Israele.

I nomi: « Israele », « i Giudei », « il popolo »

L’attenzione riservata a « Israele » si manifesta subito positiva nel vangelo dell’infanzia, dove questo termine ricorre 7 volte. Nel resto del vangelo s’incontra solo altre 5 volte, in contesti più critici. Il nome « Giudei » appare cinque volte soltanto, di cui 3 nel titolo « re dei Giudei » attribuito a Gesù nel racconto della passione. Più significativo è l’uso del termine « popolo », che conta 36 ricorrenze nel vangelo (contro le due del vangelo di Marco) e vi appare regolarmente in una luce favorevole, anche alla fine del racconto della passione. 323

Negli Atti, la prospettiva di partenza resta positiva, perché gli apostoli annunciano la risurrezione di Cristo e il perdono dei peccati a « tutta la casa d’Israele » (2,36) e ottengono molte adesioni (2,41; 4,4). Il nome d’Israele ricorre 14 volte nella prima parte degli Atti (At 1,6–13,24) e una quindicesima volta alla fine (28,20). Con 48 ricorrenze, il termine « popolo » è molto più frequente; « il popolo », all’inizio molto favorevole alla comunità cristiana (2,47; 5,26), finisce col seguire poi l’esempio dei suoi dirigenti e col diventare ostile (12,4.11), fino a volere, in particolare, la morte di Paolo (21,30-31). Questi ci tiene ad affermare di non « aver fatto nulla contro il popolo » (28,17). La stessa evoluzione si riflette negli usi del temine « Giudei », estremamente frequente (79 ricorrenze). I Giudei del giorno di Pentecoste (2,5), ai quali Pietro si rivolge chiamandoli rispettosamente con questo nome (2,14), sono chiamati alla fede in Cristo risorto e vi aderiscono in gran numero. All’inizio, essi sono i destinatari esclusivi della Parola (11,19). Ma ben presto, soprattutto a partire dal martirio di Stefano, diventano persecutori. La messa a morte di Giacomo da parte di Erode Antipa è un’azione che dà loro soddisfazione (12,1-3) e la loro « attesa » è che la stessa sorte sia riservata a Pietro (12,11). Prima della sua conversione, Paolo era un persecutore accanito (8,3; cf Gal 1,13); poi, da persecutore, diventa perseguitato: già a Damasco, « i Giudei ordirono un complotto per ucciderlo » (9,23); e lo stesso accadrà a Gerusalemme (9,29). Paolo continua nondimeno ad annunciare il Cristo « nelle sinagoghe dei Giudei » (13,5; 14,1), portando alla fede « un gran numero di Giudei e Greci » (14,1), ma questo successo provoca le reazioni ostili dei « Giudei increduli » (14,2). Lo stesso fenomeno si ripete spesso, con molteplici varianti, fino all’arresto di Paolo a Gerusalemme provocato dai « Giudei della provincia d’Asia » (21,27). Ciò nonostante, Paolo proclama con fierezza: « Io sono Giudeo » (22,3). Subisce l’ostilità da parte dei Giudei, senza però essere loro ostile.

Il racconto evangelico

74. Il vangelo dell’infanzia crea un’atmosfera estremamente favorevole al popolo ebraico. Gli annunci di nascite straordinarie presentano « Israele » (1,68) o « Gerusalemme » (2,38) come beneficiari della salvezza, nel compimento di una economia radicata nella storia del popolo. Ne risulta: « grande gioia per tutto il popolo » (2,10), « redenzione » (1,68-69), « salvezza » (2,30-31), « gloria del tuo popolo Israele » (2,32). Questi lieti annunci sono ben accolti. Però si intravede, per il futuro, una reazione negativa al dono di Dio, perché Simeone predice a Maria che il suo figlio diventerà un « segno contestato » e prevede che « una caduta » precederà il « rialzamento » (o: la risurrezione) « di molti in Israele » (2,34). Egli apre in questo modo una prospettiva profonda, in cui il salvatore si trova alle prese con forze ostili. Un tocco di universalismo, che si ispira al Secondo Isaia (42,6; 49,6), unisce la « luce per la rivelazione alle nazioni » alla « gloria per il tuo popolo Israele » (2,32), il che è una chiara dimostrazione che universalismo non significa antigiudaismo.

Nel seguito del vangelo Luca inserisce altri tocchi di universalismo: prima a proposito della predicazione di Giovanni Battista (3,6; cf Is 40,5) e poi facendo risalire fino ad Adamo la genealogia di Gesù (3,38). Ma il primo episodio del ministero di Gesù, la sua predicazione a Nazaret (4,16-30), mostra subito che l’universalismo porrà dei problemi. Gesù invita i suoi concittadini a rinunciare a un atteggiamento possessivo in rapporto ai suoi doni di taumaturgo e ad accettare che anche degli stranieri beneficino di questi doni (4,23-27). La loro reazione di stizza è violenta: cacciata e tentato omicidio (4,28-29). Luca rende così chiaro in anticipo quella che sarà spesso la reazione dei Giudei al successo di Paolo presso i Gentili. I Giudei si oppongono in modo violento a una predicazione che livelli i loro privilegi di popolo eletto. 324 Invece di aprirsi all’universalismo del Secondo Isaia, essi seguono Baruc che consiglia loro di non cedere a degli stranieri i loro privilegi (Ba 4,3). Altri Giudei, però, resistono a questa tentazione e si mettono generosamente a servizio dell’evangelizzazione (At 18,24-26).

Luca riporta le tradizioni evangeliche che mostrano Gesù alla prese con l’opposizione degli scribi e dei Farisei (Lc 5,17–6,11). In 6,11 egli attenua tuttavia l’ostilità di questi avversari non attribuendo loro fin dall’inizio, come invece in Mc 3, 6, un’intenzione omicida. Il discorso polemico di Luca contro i Farisei (11,42-44), esteso poi ai « dottori della legge » (11,46-52), è nettamente più breve di quello di Mt 23,2-39. La parabola del buon samaritano è la risposta alla domanda di un dottore della legge, al quale viene insegnato l’universalismo della carità (Lc 10,29.36-37). Essa mette in cattiva luce un sacerdote ebreo e un levita, proponendo, al contrario, come modello un samaritano (cf anche 17,12-19). Le parabole della misericordia (15,4-32), indirizzate ai Farisei e agli scribi, sono ugualmente un incitamento all’apertura di cuore. La parabola del padre misericordioso (15,11-32), che invita il figlio maggiore ad aprire il suo cuore al prodigo, non suggerisce direttamente l’applicazione, che talvolta è stata fatta, alle relazioni tra ebrei e Gentili (il figlio maggiore rappresenterebbe gli ebrei osservanti, poco inclini ad accogliere i pagani, considerati peccatori). È possibile tuttavia ipotizzare che il contesto più ampio dell’opera di Luca lasci una possibilità a questa applicazione, a causa della sua insistenza sull’universalismo.

La parabola delle mine (19,11-27) contiene alcuni tratti particolari molto significativi. Mette in scena un pretendente al titolo di re che si scontra con l’ostilità dei suoi concittadini. Egli deve recarsi in un paese lontano per essere investito del potere regale; al ritorno, i suoi oppositori vengono messi a morte. Questa parabola, come quella dei vignaioli omicidi (20,9-19), costituisce, da parte di Gesù, un pressante avvertimento contro le conseguenze prevedibili di un rifiuto della sua persona. Altri passi del vangelo di Luca completano la prospettiva esprimendo tutto il dolore che Gesù prova al pensiero di queste tragiche conseguenze: piange sulla sorte di Gerusalemme (19,41-44) e si disinteressa del proprio dolore per preoccuparsi della sciagura delle donne e dei figli di questa città (23,28-31).

Il racconto della passione secondo Luca non è particolarmente severo con le autorità ebraiche. Quando Gesù compare davanti « al consiglio degli anziani del popolo, i sommi sacerdoti e gli scribi » (22,66-71), Luca risparmia a Gesù il confronto con il sommo sacerdote, l’accusa di bestemmia e la condanna, il che ha come conseguenza anche l’attenuazione della colpevolezza dei nemici di Gesù. Questi formulano, poi, davanti a Pilato delle accuse di ordine politico (23,2). Pilato per tre volte dichiara che Gesù è innocente (23,4.14.22); esprime tuttavia l’intenzione di « dargli una lezione » (23,16.22), di farlo cioè flagellare, e alla fine cede alla pressione crescente della moltitudine (23,23-25), che si compone dei « sommi sacerdoti, dei capi e del popolo » (23,13). Nel seguito del racconto l’atteggiamento dei « capi » resta ostile (23,35), mentre quello del popolo ridiventa favorevole a Gesù (23,27.35.48) — lo abbiamo già notato — come lo era stato durante la vita pubblica. Da parte sua, Gesù prega per i suoi carnefici, da lui generosamente scusati, « perché non sanno quello che fanno » (23,34).

Nel nome di Gesù risorto, « la conversione per il perdono dei peccati » deve « essere predicata a tutte le nazioni » (24,47). Questo universalismo non ha alcuna connotazione polemica, perché la frase precisa che tale predicazione deve « cominciare da Gerusalemme ». La prospettiva corrisponde alla visione di Simeone sulla salvezza messianica, preparata da Dio come « luce per la rivelazione alle genti e gloria del [suo] popolo Israele » (2,30-32).

L’eredità che il terzo vangelo trasmette al libro degli Atti è quindi sostanzialmente favorevole al popolo ebraico. Le forze del male hanno avuto la loro « ora ». « Sommi sacerdoti, capi della guardia del Tempio e anziani » sono stati loro strumenti (22,52-53). Ma non hanno prevalso. Il disegno di Dio si è realizzato conformemente alle Scritture (24,25-27.44-47) ed è un disegno misericordioso di salvezza per tutti.

Gli Atti degli apostoli

75. L’inizio degli Atti fa passare gli apostoli di Cristo da una prospettiva limitata, la ricostituzione del regno d’Israele (At 1,6), a una prospettiva universalistica di testimonianza da rendere « fino agli estremi confini della terra » (1,8). L’episodio della Pentecoste situa, abbastanza curiosamente, i Giudei in questa prospettiva universalistica, e in modo molto simpatico: « C’erano, residenti a Gerusalemme, Giudei osservanti di ogni nazione che è sotto il cielo » (2,5). Questi Giudei sono i primi destinatari della predicazione apostolica; essi simboleggiano, al tempo stesso, la destinazione universale del vangelo. Luca suggerisce così, ancora una volta, che giudaismo e universalismo, lungi dall’escludersi reciprocamente, sono fatti per andare insieme.

I discorsi kerygmatici o missionari annunciano il mistero di Gesù sottolineando il forte contrasto tra la crudeltà umana, che ha messo a morte Gesù, e l’intervento liberatore di Dio, che l’ha risuscitato. La colpa degli « Israeliti » è stata di aver « fatto morire l’autore della vita » (3,15). Questa colpa, che è principalmente dei « capi del popolo » (4,8-10) o del « Sinedrio » (5,27.30), viene richiamata solo per giustificare un appello alla conversione e alla fede. Pietro, del resto, attenua la colpevolezza, non solo degli « Israeliti », ma anche dei loro « capi », dicendo che si tratta di una colpa commessa « per ignoranza » (3,17). Una simile indulgenza è impressionante; essa corrisponde all’insegnamento e all’atteggiamento di Gesù (Lc 6,36-37; 23,34).

La predicazione cristiana, tuttavia, non tarda a suscitare l’opposizione delle autorità ebraiche. I Sadducei sono contrariati nel vedere gli apostoli « annunciare nella persona di Gesù la risurrezione dei morti » (At 4,2), alla quale non credono (Lc 20,27). Un fariseo tra i più influenti, Gamaliele, si schiera al contrario dalla parte degli apostoli, ritenendo possibile che la loro iniziativa « venga da Dio » (At 5,39). L’opposizione allora si attenua per un po’ di tempo. Ma riprende da parte di sinagoghe degli ellenisti, quando Stefano, anch’egli ellenista, opera « grandi prodigi e segni tra il popolo » (6,8-15). Alla fine del suo discorso davanti ai membri del Sinedrio, Stefano riprende contro di essi le invettive dei profeti (7,51). La conseguenza immediata è la sua lapidazione. Imitando Gesù, Stefano prega il Signore di « non imputare loro questo peccato » (7,60; cf Lc 23,34). « In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme » (At 8,1). « Saulo » vi prende parte con accanimento (8,3; 9,13).

Dopo la sua conversione e durante tutti i suoi viaggi missionari, sarà lui — come abbiamo visto — a subire la persecuzione da parte di quelli della sua stessa stirpe, provocata dal successo della sua predicazione universalistica. Questo è particolarmente evidente subito dopo il suo arresto a Gerusalemme. Quando prende la parola « in ebraico », « la moltitudine del popolo » (21,36) prima l’ascolta con calma (22,2), ma quando egli evoca il suo invio « alle nazioni », si eccita terribilmente contro di lui e chiede la sua morte (22,21-22).

Il finale degli Atti è sorprendente, ma ancora più significativo. Poco dopo il suo arrivo a Roma, Paolo « convocò i più in vista tra i Giudei » (28,17), iniziativa unica nel suo genere. Cerca di « convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla Legge e dai Profeti » (28,23). Il suo scopo è di ottenere non delle adesioni individuali, ma una decisione collettiva che impegni tutta la comunità ebraica. Non avendola ottenuta, riprende a loro riguardo le severe parole di Isaia sull’indurimento di « questo popolo » (28,25-27; Is 6,9-10) e annuncia, come contrasto, l’accoglienza docile che le nazioni riserveranno alla salvezza offerta da Dio (28,28). In questo finale, che suscita interminabili discussioni, Luca vuole a prima vista prendere atto del fatto innegabile che non c’è stata, in fin dei conti, un’adesione collettiva del popolo ebraico al vangelo di Cristo. Al tempo stesso, Luca vuole rispondere alla grave obiezione che se ne poteva trarre contro la fede cristiana, mostrando che questa situazione era stata prevista dalle Scritture.

Conclusione

Non c’è dubbio che nell’opera di Luca si esprime una profonda stima per la realtà ebraica, in quanto ha un ruolo di primo piano nel disegno divino di salvezza. Tuttavia nel corso del racconto si manifestano gravi tensioni. Luca attenua allora i toni polemici che si incontrano negli altri sinottici. Ma evidentemente non può — e non vuole — mascherare il fatto che Gesù si è scontrato con una radicale opposizione da parte della autorità del suo popolo e che in seguito la predicazione apostolica si è trovata in una situazione analoga. Se il fatto di riferire in modo sobrio le manifestazioni di questa innegabile opposizione ebraica costituisse un fattore di antigiudaismo, allora Luca potrebbe essere accusato di antigiudaismo. Ma è chiaro che questo modo di vedere le cose è da respingere. L’antigiudaismo consiste piuttosto nel maledire e nell’odiare i persecutori e tutti il popolo al quale essi appartengono. Ora, il messaggio del vangelo invita, al contrario, i cristiani a benedire quelli che li maledicono, a fare del bene a quelli che li odiano e a pregare per quelli che li maltrattano (Lc 6,27-28), secondo l’esempio di Gesù (23,34) e quello del primo martire cristiano (At 7,60). È questa è una delle lezioni fondamentali dell’opera di Luca. Bisogna purtroppo rammaricarsi che nel corso dei secoli successivi essa non sia stata seguita abbastanza fedelmente.

4. Vangelo di Giovanni

76. A proposito degli ebrei, il IV vangelo contiene l’affermazione più positiva in assoluto, ed è Gesù stesso a pronunciarla nel suo dialogo con la samaritana: « La salvezza viene dai Giudei » (Gv 4,22). 325 D’altra parte, alla parola del sommo sacerdote Caifa, che dichiarava: « meglio che muoia un solo uomo per il popolo », l’evangelista riconosce un valore di parola ispirata da Dio e sottolinea che « Gesù doveva morire per la nazione », precisando subito dopo che non era « per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi » (Gv 11,49-52). L’evangelista dimostra una profonda conoscenza del giudaismo, delle sue feste e delle sue Scritture. Il valore del patrimonio ebraico viene riconosciuto in modo inequivocabile: Abramo vide il giorno di Gesù e se ne rallegrò (8,56); la Legge è un dono, ricevuto per mezzo di Mosè (1,17); « la Scrittura non può essere abolita » (10,35); Gesù è colui « del quale hanno parlato Mosè nella Legge e i profeti » (1,45); è « Giudeo » (4,9) e « re d’Israele » (1,47) o « re dei Giudei » (19,19-22). Nessuna seria motivazione permette di dubitare che l’evangelista fosse ebreo e che il contesto fondamentale per la composizione del vangelo sia stata la relazione con il giudaismo.

Il termine « Giudei » ricorre 71 volte nel IV Vangelo, abitualmente al plurale, 3 volte al singolare (3,25; 4,9; 18,35). È applicato in particolare a Gesù (4,9). Il nome « Israelita » appare solo una volta ed è un titolo onorifico (1,47). Un certo numero di giudei si mostra ben disposto verso Gesù. È il caso di Nicodemo, un « capo dei Giudei » (3,1), che riconosce in Gesù un maestro venuto da Dio (3,2), lo difende davanti ai suoi colleghi Farisei (7,50-51) e si prende cura, dopo la sua morte in croce, della sua sepoltura (19,39). Alla fine, « molti dei capi » credettero in Gesù, ma non avevano il coraggio di dichiararsi suoi discepoli (12,42). L’evangelista riferisce abbastanza spesso che « molte » persone credettero in Gesù. 326 Il contesto mostra che si tratta di Giudei, eccetto in 4,39.41; l’evangelista talvolta lo precisa, ma raramente (8,31; 11,45; 12,11).

Il più delle volte, comunque, « i Giudei » sono ostili a Gesù. La loro opposizione si scatena in occasione della guarigione di un paralitico, effettuata di sabato (5,16); cresce dopo una dichiarazione in cui Gesù si fa « uguale a Dio », con la conseguenza che cercano di farlo morire (5,18). Più tardi, come il sommo sacerdote di Mt 26,65 e Mc 14,64 nel corso del processo di Gesù, lo accusano di « bestemmia » e cercano di infliggergli la colpa corrispondente: la lapidazione (10,31-33). È stato giustamente osservato che gran parte del IV vangelo anticipa il processo di Gesù, al quale è data la possibilità di fare la propria difesa e di accusare i suoi accusatori. Questi sono spesso chiamati « i Giudei », senza altra precisazione, il che ha come risultato di legare a questo nome un giudizio negativo. Ma non si tratta affatto di un antigiudaismo di principio, poiché — come abbiamo già ricordato — il vangelo riconosce che « la salvezza viene dai Giudei » (4,22). Questo modo di parlare riflette soltanto una situazione di netta separazione tra le comunità cristiane e quelle ebraiche.

L’accusa più grave espressa da Gesù contro « i Giudei » è quella di avere per padre il diavolo (8,44); bisogna notare che quest’accusa non è mossa contro i Giudei in quanto Giudei, ma al contrario in quanto essi non sono veri Giudei, poiché nutrono intenzioni omicide (8,37), ispirate dal diavolo, che è « omicida fin da principio » (8,44). Ad essere preso di mira era quindi solo un numero molto ristretto di Giudei contemporanei di Gesù; si tratta paradossalmente, di « Giudei che avevano creduto in lui » (8,31). Accusandoli aspramente, il IV vangelo metteva in guardia gli altri Giudei contro la tentazione di simili pensieri omicidi.

77. Si è cercato di eliminare la tensione che i testi del IV vangelo possono provocare tra cristiani ed ebrei nel mondo attuale, proponendo di tradurre « gli abitanti della Giudea », piuttosto che « i Giudei » o « gli Ebrei ». Il contrasto non sarebbe tra « gli ebrei » e i discepoli di Gesù, ma tra gli abitanti di quella regione, presentati come ostili a Gesù, e quelli della Galilea, presentati come accoglienti verso il loro profeta. Nel vangelo è certamente presente il disprezzo degli abitanti della Giudea per i galilei (7,52), ma l’evangelista non fissa una linea di demarcazione tra la fede e il suo rifiuto secondo un confine geografico e chiama hoi Ioudaioi i Giudei della Galilea che rifiutano l’insegnamento di Gesù (6,41.52).

Un’altra interpretazione dell’espressione « i Giudei » consiste nell’identificare « i Giudei » con « il mondo », basandosi su affermazioni che esprimono tra loro un legame (8,33) o un parallelismo. 327 Ma il mondo peccatore ha chiaramente un’estensione più ampia dell’insieme degli ebrei ostili a Gesù.

È stato osservato, d’altra parte, che in molti passi del vangelo che nominano « i Giudei » si tratta più precisamente delle autorità ebraiche (sommi sacerdoti, membri del Sinedrio) o talvolta dei Farisei. Un confronto tra 18,3 e 18,12 spinge in questo senso. Nel racconto della passione, Giovanni nomina più volte « i Giudei » là dove i vangeli sinottici parlano della autorità ebraiche. Ma questa osservazione vale solo per un numero limitato di testi e non è possibile introdurre nella traduzione del vangelo una simile precisazione senza mancare di fedeltà ai testi. Questi sono l’eco di una situazione di opposizione alle comunità cristiane, da parte non solo delle autorità ebraiche, ma della maggior parte dei Giudei, solidali con le loro autorità (cf At 28,22). Storicamente parlando si può pensare che solo una minoranza di Giudei contemporanei di Gesù fosse ostile a lui, che un piccolo gruppo porta la responsabilità di averlo consegnato all’autorità romana; un numero ancora più ristretto volle forse la sua morte, probabilmente per motivi di ordine religioso che a loro sembravano imprescindibili. 328 Ma questi pochi riuscirono a creare un consenso generale in favore di Barabba e contro Gesù, 329 il che permette all’evangelista di utilizzare un’espressione generalizzante, annunciatrice di un’evoluzione posteriore.

La separazione tra i discepoli di Gesù e « i Giudei » si manifesta talvolta nel vangelo con un’espulsione dalla sinagoga inflitta a dei Giudei che confessano la loro fede in Gesù. 330 È probabile che un simile trattamento fosse effettivamente applicato ai Giudei delle comunità giovannee, che gli altri Giudei consideravano ormai non più parte del popolo ebraico perché infedeli alla sua fede monoteistica (mentre, in realtà, non era così perché Gesù dice: « Io e il Padre siamo una cosa sola »: 10,30). Di conseguenza, diventa in qualche modo normale dire « i Giudei » per designare coloro che riservavano solo per sé questo nome, opponendosi alla fede cristiana.

78. Conclusione. Il ministero di Gesù aveva suscitato una crescente opposizione da parte della autorità ebraiche, che, alla fine, decisero di consegnare Gesù all’autorità romana perché fosse messo a morte. Ma egli si rivelò vivo, per dare la vera vita a tutti quelli che credono in lui. Il IV vangelo ricorda questi eventi, rileggendoli alla luce dell’esperienza delle comunità giovannee, che si scontravano con l’opposizione delle comunità ebraiche.

Le azioni e le dichiarazioni di Gesù mostravano che egli aveva con Dio una relazione filiale molto stretta, unica nel suo genere. La catechesi apostolica approfondì progressivamente la comprensione di questa relazione. Nelle comunità giovannee si insisteva fortemente sui rapporti tra il Figlio e il Padre e si affermava la divinità di Gesù, che è « il Cristo, il Figlio di Dio » (20,31) in un senso trascendente. Questa dottrina provocò l’opposizione dei capi delle sinagoghe, seguiti dall’insieme delle comunità ebraiche. I cristiani furono espulsi dalle sinagoghe (16,2) e, al tempo stesso, si trovarono esposti a vessazioni da parte delle autorità romane, perché non godevano più dei privilegi accordati agli ebrei.

La polemica si accentuò da entrambe le parti. Dagli ebrei Gesù fu accusato di essere un peccatore (9,24), un bestemmiatore (10,33) e un posseduto dal diavolo. 331 Quelli che credevano in lui furono considerati ignoranti e maledetti (7,49). Dai cristiani, gli ebrei furono accusati di disobbedienza alla parola di Dio (5,38), di resistenza all’amore di Dio (5,42), di ricerca di vanagloria (5,44).

Non potendo più partecipare alla vita cultuale degli ebrei, i cristiani presero meglio coscienza della pienezza che ricevevano dal Verbo fatto carne (1,16). Gesù risorto è fonte di acqua viva (7,37-38), luce del mondo (8,12), pane di vita (6,35), nuovo Tempio (2,19-22). Avendo amato i suoi fino alla fine (13,1), diede loro il suo nuovo comandamento d’amore (13,34). Bisogna fare di tutto perché si diffonda la fede in lui e, mediante la fede, la vita (20,31). Nel vangelo l’aspetto polemico è secondario. Ciò che è di fondamentale importanza è la rivelazione del « dono di Dio » (4,10; 3,16) offerto a tutti in Gesù Cristo, specialmente a coloro che l’« hanno trafitto » (19,37).

5. Conclusione

I vangeli mostrano che la realizzazione del disegno di Dio comportava necessariamente uno scontro con il male, che era necessario estirpare dal cuore umano. Questo fatto ha portato Gesù a scontrarsi con la classe dirigente del suo popolo, com’era già accaduto per gli antichi profeti. Già nell’Antico Testamento il popolo ebraico si presentava sotto due aspetti antitetici: da una parte, come un popolo chiamato a essere perfettamente unito a Dio; dall’altra, come un popolo peccatore. Questi due aspetti non potevano mancare di manifestarsi nel corso del ministero di Gesù. Al momento della passione, l’aspetto negativo era sembrato prevalere, anche nell’atteggiamento dei Dodici. Ma la risurrezione mostra che in realtà l’amore divino era risultato vittorioso e aveva ottenuto per tutti il perdono dei peccati e una vita nuova.

Torna all’indice

C. Gli ebrei nelle lettere di Paolo e in altri scritti del Nuovo Testamento

79. La testimonianza delle lettere paroline sarà considerata secondo i raggruppamenti comunemente accettati: prima le sette lettere la cui autenticità è generalmente riconosciuta (Rm, 1-2 Cor, Gal, Fil, 1 Ts, Flm), poi Efesini e Colossesi, infine le Pastorali (1-2 Tm, Tt). Saranno poi esaminate la lettera agli Ebrei, le lettere di Pietro, Giacomo e Giuda, e l’Apocalisse.

1. Gli ebrei nelle lettere di Paolo di non contestata autenticità

Personalmente Paolo continua a essere fiero della sua origine ebraica (Rm 11,1). Del tempo anteriore alla sua conversione egli afferma: « Facevo progressi nel giudaismo superando la maggior parte dei miei connazionali e dei miei coetanei per il mio accanito zelo per le tradizioni dei padri » (Gal 1,14). Diventato apostolo di Cristo, dice ancora, a proposito dei suoi rivali: « Sono ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! ». Sono stirpe di Abramo? Anch’io! (2 Cor 11,22). È anche capace però di relativizzare tutti questi vantaggi e di dire: « Tutte queste cose che erano per me un guadagno, le ho considerate una perdita a causa di Cristo » (Fil 3,7).

Egli continua tuttavia a pensare e a ragionare come un ebreo. Il suo pensiero resta chiaramente impregnato di idee ebraiche. Nei suoi scritti si trovano non soltanto, come abbiamo visto sopra, continui riferimenti all’Antico Testamento ma anche molte tracce di tradizioni giudaiche. Inoltre, Paolo utilizza spesso tecniche rabbiniche di esegesi e di argomentazione (cf I. D. 3, n. 14).

I legami di Paolo con il giudaismo si manifestano anche nel suo insegnamento morale. Nonostante la sua opposizione contro le pretese dei fautori della Legge, si serve egli stesso di un precetto della Legge, Lv 19,18 (« Amerai il prossimo tuo come te stesso »), per riassumere tutta la morale. 332 Questo modo di riassumere la Legge in un solo precetto è del resto tipicamente giudaico, come mostra un ben noto aneddoto, che mette in scena Rabbi Hillel e Rabbi Shammai, contemporanei di Gesù. 333

Qual era l’atteggiamento dell’apostolo nei riguardi degli ebrei? In linea di massima era un atteggiamento positivo. Li chiama: « miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne » (Rm 9,13). Convinto che il vangelo di Cristo è « potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima » (Rm 1,16), egli desiderava trasmettere loro la fede, non trascurando nulla a questo scopo; poteva affermare: « mi sono fatto Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei » (1 Cor 9,20) ed anche: « con coloro che sono sotto la Legge sono diventato come uno che è sotto la Legge — pur non essendo personalmente sotto la Legge — allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge » (1 Cor 9,20). Anche nel suo apostolato presso i Gentili cercava di essere indirettamente utile ai fratelli della sua stirpe, « nella speranza di salvare alcuni di essi » (Rm 11,14), contando in questo su un riflesso di emulazione (11,11.14): la vista della meravigliosa fecondità spirituale che la fede in Cristo Gesù dava ai pagani convertiti avrebbe suscitato negli ebrei il desiderio di non lasciarsi superare e li avrebbe spinti ad aprirsi a questa fede.

La resistenza opposta dalla maggior parte degli ebrei alla predicazione cristiana metteva nel cuore di Paolo « un grande dolore e una sofferenza continua » (Rm 9,2), il che manifesta chiaramente quale fosse la profondità del suo affetto per loro. Si dichiara disposto ad accettare per loro il più grande e il più impossibile dei sacrifici, quello di essere egli stesso « anatema », separato da Cristo (9,3). Il suo affetto e la sua sofferenza lo spingono a cercare una soluzione: in tre lunghi capitoli (Rm 9–11), approfondisce il problema, o piuttosto il mistero, della posizione d’Israele nel disegno di Dio, alla luce di Cristo e della Scrittura, e termina la sua riflessione soltanto quando può concludere: « allora tutto Israele sarà salvato » (Rm 11,26). Questi tre capitoli della lettera ai Romani costituiscono la riflessione più approfondita, in tutto il Nuovo Testamento, sulla situazione degli ebrei che non credono in Gesù. In essi Paolo esprime il suo pensiero nel modo più maturo.

La soluzione che propone è basata sulla Scrittura, che, in certi momenti, promette la salvezza solo a un « resto » d’Israele. 334 In questa tappa della storia della salvezza, c’è quindi solo un « resto » di Israeliti che credono in Cristo Gesù, ma questa situazione non è definitiva. Paolo osserva che, fin d’ora, la presenza del « resto » è una prova che Dio non ha « ripudiato il suo popolo » (11,1). Questo continua a essere « santo », cioè in stretta relazione con Dio. È santo perché proviene da una radice santa, i suoi antenati, e perché le sue « primizie » sono state santificate (11,16). Paolo non precisa se per « primizie » intenda gli antenati d’Israele o il « resto », santificato dalla fede e dal battesimo. Egli sfrutta poi la metafora agricola della pianta, parlando di alcuni rami tagliati e di innesto (11,17-24). Si comprende che quei rami tagliati sono gli Israeliti che hanno rifiutato Cristo Gesù e che le marze sono i Gentili diventati cristiani. A costoro — l’abbiamo già notato — Paolo predica la modestia: « Non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te » (11,18). Ai rami tagliati apre una prospettiva positiva: « Dio ha il potere di innestarli di nuovo » (11,23), e questo sarà anche più facile che nel caso dei Gentili, perché si tratta del « proprio olivo » (11,24). In fin dei conti, il disegno di Dio riguardo a Israele è interamente positivo: « il loro passo falso è stata la ricchezza del mondo », « che cosa non sarà la loro partecipazione totale alla salvezza? » (11,12). Un’alleanza di misericordia è assicurata loro da Dio (11,27.31).

80. Negli anni precedenti la composizione della lettera ai Romani, dovendo fronteggiare un’opposizione accanita da parte di molti suoi « consanguinei secondo la carne », Paolo aveva talvolta espresso vigorose reazioni di difesa. Sull’opposizione dei Giudei, egli scrive: « Dai Giudei cinque volte ho ricevuto i quaranta [colpi] meno uno » (cf Dt 25,3); subito dopo egli nota di aver dovuto far fronte a pericoli provenienti sia da parte dei fratelli della sua stirpe che da parte dei Gentili (2 Cor 11,24.26). Rievocando questi fatti dolorosi, Paolo non aggiunge alcun commento. Era pronto a « partecipare alle sofferenze di Cristo » (Fil 3,10). Ma ciò che provocava da parte sua un’accesa reazione erano gli ostacoli posti dai Giudei al suo apostolato presso i Gentili. Lo si vede in un passo della prima lettera ai Tessalonicesi (2,14-16). Questi versetti sono talmente contrari all’atteggiamento abituale di Paolo verso i Giudei che si è cercato di dimostrare che non erano suoi o di attenuarne il vigore. Ma l’unanimità dei manoscritti rende impossibile la loro esclusione e il tenore dell’insieme della frase non permette di restringere l’accusa ai soli abitanti della Giudea, com’è stato suggerito. Il versetto finale è perentorio: « L’ira è giunta su di loro, al colmo » (1 Ts 2,16). Questo versetto fa pensare alle predizioni di Geremia, 335 e alla frase di 2 Cr 26,16: « L’ira del Signore contro il suo popolo fu tale che non ci fu più rimedio ». Queste predizioni e questa frase annunciavano la catastrofe nazionale del 587 a.C.: assedio e presa di Gerusalemme, incendio del Tempio, deportazione. Paolo sembra prevedere una catastrofe nazionale di simili proporzioni. È opportuno osservare, a tale proposito, che gli eventi del 587 non erano stati un punto finale, perché il Signore aveva poi avuto pietà del suo popolo. Ne consegue che la terribile previsione di Paolo — previsione purtroppo avveratasi — non escludeva una riconciliazione posteriore.

In 1 Ts 2,14-16, a proposito delle sofferenze inflitte ai cristiani di Tessalonica da parte dei loro compatrioti, Paolo ricorda che le chiese della Giudea avevano subito la stessa sorte da parte dei Giudei e accusa allora costoro di una serie di misfatti: « hanno ucciso il Signore Gesù e i profeti, hanno perseguitato noi »; la frase passa poi dal passato al presente: « essi non piacciono a Dio e sono ostili a tutti gli uomini, ci impediscono di predicare ai Gentili perché possano essere salvati ». È evidente che agli occhi di Paolo quest’ultimo rimprovero è quello più importante e che è alla base dei due giudizi negativi che lo precedono. Siccome i Giudei ostacolano la predicazione cristiana rivolta ai Gentili, sono « ostili a tutti gli uomini », 336 e « non piacciono a Dio ». Opponendosi con ogni mezzo alla predicazione cristiana, i Giudei del tempo di Paolo si mostrano perciò solidali con i loro padri che hanno ucciso i profeti e con i loro fratelli che hanno chiesto la condanna a morte di Gesù. Le formule di Paolo hanno l’apparenza di essere globalizzanti e di attribuire la colpa della morte di Gesù a tutti gli ebrei senza distinzione; l’antigiudaismo le prende in questo senso. Ma, collocate nel loro contesto, esse riguardano esclusivamente coloro che si oppongono alla predicazione ai pagani e quindi alla salvezza di questi ultimi. Venendo meno questa opposizione, cessa anche l’accusa.

Un altro passo polemico si legge in Fil 3,2-3: « Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi dalla mutilazione (katatom); perché noi siamo la circoncisione (peritom) ». A chi si riferisce qui l’apostolo? Sono ingiunzioni troppo poco esplicite per poter essere interpretate con certezza, ma si può almeno escludere che riguardassero gli ebrei. Secondo un’opinione corrente, Paolo avrebbe di mira dei cristiani giudaizzanti, che volevano imporre l’obbligo della circoncisione ai cristiani provenienti dalle « nazioni ». Paolo applicherebbe ad essi, in modo aggressivo, un termine di disprezzo, « cani », metafora per l’impurità rituale che gli ebrei applicavano talvolta ai Gentili (Mt 15,26) e disprezzerebbe la circoncisione della carne, chiamandola ironicamente « mutilazione » (cf Gal 5,12) e opponendo ad essa una circoncisione spirituale, come faceva già il Deuteronomio, che parlava di circoncisione del cuore. 337 Il contesto sarebbe, in questo caso, quello della controversia relativa alle osservanze ebraiche all’interno delle chiese cristiane, come nella lettera ai Galati. Ma è forse meglio far riferimento, come per Ap 22,15, al contesto pagano in cui vivevano i Filippesi e pensare che Paolo attacchi qui delle usanze pagane: perversioni sessuali, azioni immorali, mutilazioni cultuali di culti orgiastici. 338

81. Riguardo alla discendenza di Abramo, Paolo fa una distinzione — l’abbiamo già visto — tra i « figli della promessa alla maniera di Isacco », che sono anche figli « secondo lo Spirito », e i figli « secondo la carne ». 339 Non basta essere « figli della carne » per essere « figli di Dio » (Rm 9,8). Perché la condizione essenziale è la propria adesione a colui che « Dio ha inviato […] perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal 4,4-5).

In un altro contesto, l’apostolo non fa questa distinzione, ma parla degli ebrei globalmente. Egli dichiara allora che essi hanno il privilegio di essere depositari della rivelazione divina (Rm 3,1-2). Questo privilegio, tuttavia, non li ha esentati dal dominio del peccato (3,9-19) e quindi dalla necessità di ottenere la giustificazione per la fede in Cristo e non per l’osservanza della Legge (3,20-22).

Quando considera la situazione degli ebrei che non hanno aderito a Cristo, Paolo ci tiene ad esprimere la profonda stima che ha per loro, enumerando i doni meravigliosi che hanno ricevuto da Dio: « Essi che sono Israeliti, che [hanno] l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, — che [hanno] i padri e dai quali [proviene], secondo la carne, Cristo, che è sopra ogni cosa, Dio benedetto in eterno, amen » (Rm 9,4-5). 340 Nonostante l’assenza di verbi, è difficile dubitare che Paolo voglia parlare di un possesso attuale (cf 11,29), anche se, nel suo pensiero, questo possesso non è sufficiente, perché rifiutano il dono di Dio più importante, il suo Figlio, che pure è nato da essi secondo la carne. Paolo attesta a loro riguardo che « hanno zelo per Dio », ma aggiunge: « non con piena conoscenza; ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio » (10,2-3). Ciò nonostante, Dio non li abbandona. Il suo disegno è di usare loro misericordia. « L’indurimento » che colpisce « una parte » d’Israele è solo una tappa provvisoria, che ha una sua utilità temporanea (11,25); essa sarà seguita dalla salvezza (11,26). Paolo riassume la situazione in una frase antitetica, seguita da un’affermazione positiva:

« Quanto al vangelo, [sono] nemici a causa vostra,
quanto alla elezione, [sono] amati a causa dei padri,
perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! »
(11,28-29).

Paolo vede la situazione con realismo. Tra i discepoli di Cristo e i Giudei che non credono in lui c’è una relazione di opposizione. Questi Giudei contestano la fede cristiana; non accettano che Gesù sia il loro messia (Cristo) e il Figlio di Dio. I cristiani non possono non contestare la posizione di questi Giudei. Ma a un livello più profondo di questa relazione di opposizione esiste fin d’ora una relazione d’amore, e questa è definitiva, mentre l’altra è solo provvisoria.

2. Gli ebrei nelle altre lettere

82. La lettera ai Colossesi contiene solo una volta il termine « giudeo », in una frase che afferma che, nell’uomo nuovo, « non c’è giudeo e greco » e che aggiunge subito un’espressione parallela: « circoncisione e prepuzio »; c’è soltanto « Cristo, tutto in tutti » (Col 3,11). Questa frase, che riprende l’insegnamento di Gal 3,28 e Rm 10,12, rifiuta ogni importanza al particolarismo ebraico a livello fondamentale della relazione con Cristo. Non vuole esprimere alcun giudizio sugli ebrei, non più che sui greci.

Il valore della circoncisione prima della venuta di Cristo viene affermato indirettamente, quando l’autore ricorda ai Colossesi che un tempo erano « morti a causa dei [loro] peccati e l’incirconcisione della [loro] carne » (2,13). Ma questo valore della circoncisione ebraica è stato eclissato dalla « circoncisione di Cristo », « circoncisione non fatta da mano d’uomo, che spoglia del corpo di carne » (2,11); si riconosce qui un’allusione alla partecipazione dei cristiani alla morte di Cristo mediante il battesimo (cf Rm 6,3-6). Ne consegue che gli ebrei che non credono in Cristo si trovano in una situazione religiosa insufficiente, ma questa conseguenza non è espressa.

Nella lettera agli Efesini, invece, non compare il termine « giudeo ». Vi si menziona solo una volta il « prepuzio » e la « circoncisione », in una frase che fa allusione al disprezzo che gli ebrei avevano per i pagani. Questi ultimi erano « chiamati “prepuzio” dalla sedicente “circoncisione” » (2,11). D’altra parte, conformemente all’insegnamento delle lettere ai Galati e ai Romani, l’autore, parlando a nome dei giudeo-cristiani, descrive la loro situazione di giudei prima della conversione in termini negativi: erano nel numero dei « figli della ribellione », in compagnia dei pagani (2,2-3), e avevano una condotta asservita « ai desideri della [loro] carne »; erano quindi « per natura figli d’ira, proprio come gli altri » (2,3). Tuttavia, un altro passo della lettera dà indirettamente un’immagine diversa della situazione degli ebrei, un’immagine questa volta positiva, quando descrive la triste sorte dei non ebrei, che erano « senza Cristo, privati del diritto di cittadinanza in Israele, estranei alle alleanze della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo » (2,12). I privilegi degli ebrei vengono così evocati ed enormemente apprezzati.

Il tema principale della lettera è proprio l’affermazione entusiasta che questi privilegi, portati al loro vertice con la venuta di Cristo, sono ora accessibili ai Gentili, « ammessi alla stessa eredità, membri dello stesso corpo, associati alla stessa promessa, in Cristo Gesù » (3,6). La crocifissione di Gesù è compresa come un evento che ha distrutto il muro di separazione stabilito dalla Legge tra Giudei e Gentili e che ha così abolito l’inimicizia (2,14). La prospettiva è quella di rapporti in perfetta armonia. Cristo è la pace tra gli uni e gli altri, in modo da creare a partire dai due un unico uomo nuovo e riconciliarli entrambi con Dio in un solo corpo (2,15-16). Il rifiuto opposto dalla maggior parte degli ebrei alla fede cristiana non viene evocato; si resta in un’atmosfera irenica.

Le Lettere pastorali, preoccupate dell’organizzazione interna delle comunità cristiane, non parlano mai degli ebrei. Vi si trova una sola allusione a « quelli della circoncisione » (Tt 1,10), ma si tratta di giudeo-cristiani appartenenti alla comunità. Essi sono criticati per essere, più degli altri membri della comunità, « insubordinati, chiacchieroni e seminatori di errori ». D’altra parte si suppone che la messa in guardia contro « genealogie senza fine », che si trova in 1 Tm 1,4 e Tt 3,9, faccia riferimento a speculazioni ebraiche sui personaggi dell’Antico Testamento, « miti ebraici » (Tt 1,14).

Anche la lettera agli Ebrei non nomina mai i « Giudei », né del resto gli « Ebrei »! Menziona una volta « i figli d’Israele », ma a proposito dell’Esodo (Eb 11,22), e due volte « il popolo di Dio ». 341 Parla dei sacerdoti ebrei chiamandoli « quelli che officiano il culto della Tenda » (13,10) e indica la distanza che li separa dal culto cristiano. Positivamente, ricorda i legami di Gesù con la « discendenza di Abramo » (2,16) e la tribù di Giuda (7,14). L’autore dimostra l’insufficienza delle istituzioni dell’Antico Testamento, soprattutto del culto sacrificale, ma sempre basandosi sullo stesso Antico Testamento, di cui riconosce pienamente il valore di rivelazione divina. A proposito degli Israeliti dei secoli precedenti, i giudizi dell’autore non sono unilaterali, ma corrispondono fedelmente a quelli dello stesso Antico Testamento; da una parte, citando e commentando Sal 95,7-11, ricorda la mancanza di fede della generazione dell’Esodo, 342 ma, dall’altra, abbozza un affresco stupendo degli esempi di fede dati, attraverso i secoli, da Abramo e dalla sua discendenza (11,8-38). Parlando della passione di Cristo, la lettera agli Ebrei non fa alcuna menzione della responsabilità delle autorità ebraiche, ma dice semplicemente che Gesù ha patito una forte opposizione « da parte dei peccatori ». 343

La stessa osservazione vale per la Prima lettera di Pietro, che evoca la passione di Cristo dicendo che « il Signore » è stato « rigettato dagli uomini » (1 Pt 1,4), senza altra precisazione. Questa lettera attribuisce ai cristiani i titoli gloriosi del popolo israelita, 344 ma senza alcun accento polemico. Non nomina mai gli ebrei. Lo stesso è per la lettera di Giacomo, la seconda lettera di Pietro e la lettera di Giuda. Queste lettere, pur essendo impregnate di tradizioni ebraiche, non trattano della questione dei rapporti tra la Chiesa cristiana e gli ebrei contemporanei.

3. Gli ebrei nell’Apocalisse

83. Il giudizio molto favorevole dell’Apocalisse nei riguardi degli ebrei si manifesta in tutto il libro, ma in particolare nella menzione dei 144.000 « servi del nostro Dio », segnati « sulla fronte » con il « sigillo del Dio vivente » (Ap 7,2-4), che provengono da tutte le tribù d’Israele, nominate una per una (caso unico nel Nuovo Testamento: Ap 7,5-8). L’Apocalisse ha il suo vertice nella descrizione della « nuova Gerusalemme » (Ap 21,2), che ha « dodici porte » sulle quali sono incisi dei nomi, « quelli delle dodici tribù d’Israele » (21,12), in parallelo con « i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello », incisi sui dodici basamenti della città (21,14).

In due frasi parallele (2,9 e 3,9) si menzionano dei « sedicenti Giudei »; l’autore respinge le loro pretese e li chiama « sinagoga di Satana ». In 2,9 questi « sedicenti Giudei » sono accusati di diffamare la comunità cristiana di Smirne. In 3,9 Cristo annuncia che essi saranno costretti a rendere omaggio ai cristiani di Filadelfia. Queste frasi suggeriscono che i cristiani rifiutano l’appellativo di « Giudei » agli Israeliti che li diffamano e che si mettono così dalla parte di Satana, « l’accusatore dei nostri fratelli » (Ap 12,10). In se stesso, quindi, il titolo di « Giudei » è valutato positivamente, come un titolo di nobiltà, che è negato a una sinagoga attivamente ostile ai cristiani.

Torna all’indice

IV.
CONCLUSIONI

A. Conclusione generale

84. La prima conclusione che si impone al termine di questa esposizione, necessariamente sommaria, è che il popolo ebraico e le sue sacre Scritture occupano nella Bibbia cristiana un posto di estrema importanza. Infatti, le sacre Scritture del popolo ebraico costituiscono una parte essenziale della Bibbia cristiana e sono presenti, in molti modi, nell’altra parte. Senza l’Antico Testamento, il Nuovo Testamento sarebbe un libro indecifrabile, una pianta privata delle sue radici e destinata a seccarsi.

Il Nuovo Testamento riconosce l’autorità divina delle sacre Scritture del popolo ebraico e si appoggia su questa autorità. Quando parla delle « Scritture » e fa riferimento a « quanto sta scritto », esso rimanda alle sacre Scritture del popolo ebraico. Afferma che queste Scritture dovevano necessariamente compiersi, poiché definiscono il disegno di Dio, che non può non realizzarsi, quali che siano gli ostacoli che incontra e le resistenze umane che vi si oppongono. Il Nuovo Testamento aggiunge che queste Scritture si sono effettivamente compiute nella vita di Gesù, nella sua passione e nella sua risurrezione, così come nella fondazione della Chiesa aperta a tutte le nazioni. Tutto questo lega strettamente i cristiani al popolo ebraico, perché il primo aspetto del compimento delle Scritture è quello della conformità e della continuità. Questo aspetto è fondamentale. Il compimento comporta anche, inevitabilmente, un aspetto di discontinuità su alcuni punti, perché, senza di questo, non ci sarebbe progresso. Questa discontinuità è fonte di disaccordi tra cristiani ed ebrei ed è inutile nasconderselo. Ma si è sbagliato, nel passato, a insistere unilateralmente su di essa, al punto da non tenere più conto della fondamentale continuità.

Questa continuità ha radici profonde e si manifesta a più livelli. Un rapporto simile lega Scrittura e Tradizione nel cristianesimo come nel giudaismo. Metodi esegetici giudaici sono utilizzati spesso nel Nuovo Testamento. Il canone cristiano dell’Antico Testamento deve la sua formazione alla situazione nelle Scritture del popolo ebraico nel I secolo. Per interpretare con precisione i testi del Nuovo Testamento, è spesso necessaria la conoscenza del giudaismo di quest’epoca.

85. Ma è soprattutto studiando i grandi temi dell’Antico Testamento e la loro continuità nel Nuovo che ci si rende conto dell’impressionante simbiosi che unisce le due parti della Bibbia cristiana e, al tempo stesso, della forza sorprendente dei legami spirituali che uniscono la Chiesa di Cristo al popolo ebraico. Nell’uno e nell’altro Testamento è lo stesso Dio che entra in relazione con gli uomini e li invita a vivere in comunione con lui; Dio unico e fonte di unità; Dio creatore, che continua a provvedere ai bisogni delle sue creature, soprattutto di quelle che sono intelligenti e libere, chiamate a riconoscere la verità e ad amare; Dio liberatore e soprattutto salvatore, perché gli essere umani, creati a sua immagine, sono caduti a causa delle loro colpe in una miserabile schiavitù.

Il disegno di Dio, essendo un progetto di relazioni interpersonali, si realizza nella storia. Non è possibile scoprirlo ricorrendo a deduzioni filosofiche sull’essere umano in generale. Esso si rivela attraverso iniziative divine imprevedibili e, in particolare, con una chiamata rivolta a una persona scelta tra tutte nella moltitudine umana, Abramo (Gn 12,1-3), e prendendo in mano la sorte di questa persona e della sua posterità, che diventa un popolo, il popolo d’Israele (Es 3,10). L’elezione d’Israele, tema centrale nell’Antico Testamento (Dt 7,6-8), resta fondamentale nel Nuovo Testamento. Ben lungi dal rimetterla in questione, la nascita di Gesù dà ad essa la più eclatante conferma. Gesù è « figlio di Davide, figlio di Abramo » (Mt 1,1). Viene a « salvare il suo popolo dai suoi peccati » (1,21). È il Messia promesso a Israele (Gv 1,41.45); è « la Parola » (Logos) venuta « tra i suoi » (Gv 1,11-14). La salvezza da lui apportata col suo mistero pasquale viene offerta in primo luogo agli Israeliti. 345 Come previsto dall’Antico Testamento, questa salvezza ha, d’altra parte, ripercussioni universali. 346 È offerta anche ai Gentili. Effettivamente essa è accolta da molti di loro, tanto che sono diventati la grande maggioranza dei discepoli di Cristo. Ma i cristiani provenienti dalle nazioni beneficiano della salvezza solo in quanto introdotti, con la loro fede nel Messia d’Israele, nella posterità di Abramo (Gal 3,7.29). Molti dei cristiani provenienti dalle « nazioni » non hanno abbastanza consapevolezza che erano, per natura, degli « olivastri » e che la loro fede in Cristo li ha innestati sull’olivo scelto da Dio (Rm 11,17-18).

L’elezione d’Israele si è concretizzata nell’alleanza del Sinai e le istituzioni ad essa collegate, soprattutto la Legge e il santuario. Il Nuovo Testamento si situa in un rapporto di continuità con questa alleanza e queste istituzioni. La nuova alleanza annunciata da Geremia e fondata nel sangue di Gesù ha portato a compimento il progetto di alleanza tra Dio e Israele, superando l’alleanza del Sinai con un nuovo dono del Signore che integra e amplifica il suo primo dono. Similmente, « la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù » (Rm 8,2), che è un dinamismo interiore, rimedia alla debolezza (8,3) della Legge del Sinai e rende i credenti capaci di vivere nell’amore generoso, che è « pienezza della Legge » (Rm 13,10). Quanto al santuario terreno, il Nuovo Testamento si esprime in termini preparati dall’Antico Testamento, relativizzando il valore di un edificio materiale come abitazione di Dio (At 7,48) e appellandosi a una concezione del rapporto con Dio in cui l’accento si sposta verso l’interiorità. Su questo punto, come su molti altri, si vede quindi che la continuità si basa sull’impulso profetico dell’Antico Testamento.

Nel passato, tra il popolo ebraico e la Chiesa di Cristo Gesù, la rottura è potuta sembrare talvolta completa, in certe epoche e in certi luoghi. Alla luce delle Scritture questo non sarebbe mai dovuto accadere, perché una rottura completa tra la Chiesa e la Sinagoga è in contraddizione con la sacra Scrittura.

Torna all’indice

B. Orientamenti pastorali

86. Il Concilio Vaticano II, raccomandando tra ebrei e cristiani, « la mutua conoscenza e stima », ha dichiarato che questa conoscenza e questa stima « si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo ». 347 È questo lo spirito che ha animato la redazione del presente documento, che spera di apportare un contributo positivo in questo senso e favorire anche nella Chiesa di Cristo l’amore verso gli ebrei, come auspicava il papa Paolo VI nel giorno della promulgazione del documento conciliare Nostra Aetate. 348

Con questo testo il Vaticano II ha gettato le fondamenta di una nuova comprensione delle nostre relazioni con gli ebrei dicendo che « secondo l’Apostolo (Paolo), gli ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono senza pentimento (Rm 11,29) ». 349

Giovanni Paolo II più volte ha preso l’iniziativa di sviluppare questa dichiarazione nel suo magistero. Nel corso della sua visita alla sinagoga di Magonza (1980), diceva: « L’incontro tra il popolo di Dio dell’Antica Alleanza, che non è stata mai abrogata da Dio (cf Rm 11,29), e quello della Nuova Alleanza, è al tempo stesso un dialogo interno alla nostra Chiesa, in qualche modo tra la prima e la seconda parte della sua Bibbia ». 350 Più tardi, rivolgendosi alle comunità ebraiche d’Italia durante la sua visita alla sinagoga di Roma (1986), dichiarava: « La Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’ebraismo “scrutando il suo proprio mistero” (cf Nostra Aetate, 4). La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma, in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori ». 351 Infine, durante un colloquio sulle radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano (1997), ha dichiarato: « Questo popolo è radunato e condotto da Dio, Creatore del cielo e della terra. La sua esistenza non è quindi un puro fatto di natura né di cultura… È un fatto soprannaturale. Questo popolo persevera verso e contro tutto perché è il popolo dell’Alleanza e perché, nonostante le infedeltà degli uomini, il Signore è fedele alla sua Alleanza ». 352 Questo magistero è stato come suggellato dalla visita di Giovanni Paolo II in Israele, nel corso della quale egli si è rivolto ai Rabbini Capi d’Israele in questi termini: « Noi (ebrei e cristiani) dobbiamo cooperare per edificare un futuro nel quale non vi sia più antigiudaismo fra i cristiani e anticristianesimo fra gli ebrei. Abbiamo molto in comune. Insieme possiamo fare molto per la pace, per la giustizia e per un mondo più fraterno e umano ». 353

Da parte dei cristiani, la condizione principale di un progresso in questo senso è di evitare qualsiasi lettura unilaterale dei testi biblici, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, e di sforzarsi, al contrario, di ben corrispondere al dinamismo d’insieme che li anima e che è precisamente un dinamismo di amore. Nell’Antico Testamento il progetto di Dio è un progetto di unione d’amore col suo popolo, amore paterno, amore coniugale, e, nonostante le infedeltà d’Israele, Dio non vi rinuncia mai, ma ne afferma la perpetuità (Is 54,8; Ger 31,3). Nel Nuovo Testamento l’amore di Dio supera i peggiori ostacoli; gli Israeliti, anche se non credono nel suo Figlio, inviato per essere il loro Messia salvatore, restano « amati » (Rm 11,29). Chi vuole essere unito a Dio è tenuto quindi ugualmente ad amarli.

87. La lettura parziale dei testi suscita spesso difficoltà per i rapporti con gli ebrei. L’Antico Testamento, l’abbiamo visto, non risparmia rimproveri agli Israeliti, e nemmeno condanne, mostrandosi molto esigente con loro. Invece di scagliare accuse, è più opportuno pensare che questi testi illustrano la parola del Signore Gesù: « A chi fu dato molto, molto sarà richiesto » (Lc 12,48) e che questa affermazione vale anche per noi cristiani. Alcuni racconti biblici presentano aspetti di slealtà o di crudeltà che sembrano ora moralmente inaccettabili, ma che è necessario comprendere nel loro contesto storico e letterario. È opportuno riconoscere l’aspetto di lento progresso storico della rivelazione: la pedagogia divina ha preso un gruppo umano là dove si trovava e l’ha condotto pazientemente verso un ideale di unione con Dio e di integrità morale, che la nostra società moderna è del resto ben lontana dall’aver raggiunto. Questa constatazione farà evitare due pericoli opposti: da una parte quello di attribuire una validità ancora attuale, per i cristiani, a prescrizioni antiche (ad es. rifiutando, per la preoccupazione di fedeltà alla Bibbia, ogni trasfusione di sangue), e, dall’altra, quello di rifiutare tutta la Bibbia col pretesto delle sue crudeltà. Quanto ai precetti rituali, come le norme sul puro e l’impuro, bisogna prendere coscienza della loro portata simbolica e antropologica e discernere la loro funzione al tempo stesso sociologica e religiosa.

Nel Nuovo Testamento i rimproveri rivolti agli ebrei non sono più frequenti né più virulenti delle accuse espresse contro di essi nella Legge e nei Profeti. Non devono quindi servire da base all’antigiudaismo. Un utilizzo a questo scopo è contrario all’orientamento d’insieme del Nuovo Testamento. Un vero antigiudaismo, cioè un atteggiamento di disprezzo, di ostilità e di persecuzione contro gli ebrei in quanto ebrei, non esiste in alcun testo del Nuovo Testamento ed è incompatibile con l’insegnamento che questo contiene. Ciò che esiste, sono dei rimproveri rivolti a certe categorie di ebrei per motivi religiosi e, d’altra parte, dei testi polemici miranti a difendere l’apostolato cristiano contro quegli ebrei che vi si opponevano.

Ma bisogna riconoscere che molti di questi passi si prestano a servire da pretesto all’antigiudaismo e che sono stati effettivamente utilizzati in questo senso. Per evitare deviazioni di questo tipo, bisogna osservare che i testi polemici del Nuovo Testamento, anche quelli che si esprimono in termini generalizzanti, restano sempre legati a un contesto storico concreto e non vogliono mai avere di mira gli ebrei di ogni tempo e di ogni luogo per il solo fatto che sono ebrei. La tendenza a parlare in termini generalizzanti, ad accentuare i lati negativi degli avversari, a passare sotto silenzio i loro lati positivi e a non prendere in considerazione le loro motivazioni e la loro eventuale buona fede, è una caratteristica del linguaggio polemico in tutta l’antichità, rilevabile anche all’interno del giudaismo e del cristianesimo primitivo nei riguardi dei dissidenti di ogni genere.

Essendo il Nuovo Testamento essenzialmente una proclamazione del compimento del disegno di Dio in Gesù Cristo, esso si trova in forte disaccordo con la grande maggioranza del popolo ebraico, che non crede a questo compimento. Il Nuovo Testamento esprime quindi al tempo stesso il suo legame con la rivelazione dell’Antico Testamento e il suo disaccordo con la Sinagoga. Questo disaccordo non può essere qualificato come « antigiudaismo », perché si tratta di un disaccordo al livello di credenza, fonte di controversie religiose tra due gruppi umani che, condividendo la stessa base di fede nell’Antico Testamento, si dividono poi sul modo di concepire lo sviluppo ulteriore di questa fede. Per quanto profondo possa essere, un tale dissenso non implica affatto ostilità reciproca. L’esempio di Paolo in Rm 9–11 dimostra che, al contrario, un atteggiamento di rispetto, di stima e di amore per il popolo ebraico è il solo atteggiamento veramente cristiano in questa situazione che fa misteriosamente parte del disegno, totalmente positivo, di Dio. Il dialogo resta possibile, poiché ebrei e cristiani posseggono un ricco patrimonio comune che li unisce, ed è fortemente auspicabile, per eliminare progressivamente, da una parte e dall’altra, pregiudizi e incomprensioni, per favorire una migliore conoscenza del patrimonio comune e per rafforzare i reciproci legami.

Torna all’indice
——————————————————————————–

NOTE

(1) Cf la presentazione di questa fase dell’itinerario spirituale di Agostino in P. Brown, Augustine of Hippo. A Biography, London 1967, 40-45.

(2) A. von Harnack, Marcion, 1920. Ristampa: Darmstadt 1985, p. XII e 217.

(3) Il passaggio decisivo nella valurazione dell’esegesi di Origene lo ha compiuto H. de Lubac con il suo libro: Histoire et Esprit. L’intelligence de l’Ecriture d’après Origène (Paris 1950). Successivamente vanno segnalati soprattutto i lavori di H. Crouzel (ad es. Origène 1985). Una buona panoramica dello stato della ricerca offre H.-J. Sieben nella sua introduzione ad Origenes. In Lucam homiliae (Freiburg 1991), 7-53. Una sintesi dei singoli lavori di H. de Lubac sul problema dell’interpretazione della Bibbia offre l’opera edita da J. Voderholzer: H. de Lubac, Typologie Allegorese Geistiger Sinn. Studien zur Geschichte der christlichen Schriftauslegung (Johannes Verlag, Freiburg 1999).

(4) Traduzione italiana di Carlo Valentino.

(5) Citiamo, ad esempio, angelos, « messaggero » o « angelo », ginoskein, « conoscere » o « avere relazioni con », diatheke, « testamento » o « patto », « alleanza », nomos, « legislazione » o « rivelazione », ethne, « nazioni » o « pagani ».

(6) Nel vangelo secondo Matteo, ad esempio, si contano 160 citazioni implicite e allusioni; 60 nel vangelo secondo Marco; 192 nel vangelo secondo Luca; 137 nel vangelo secondo Giovanni; 140 negli Atti; 72 nella lettera ai Romani, ecc.

(7) 38 citazioni in Matteo; 15 in Marco; 15 in Luca; 14 in Giovanni; 22 negli Atti; 47 in Romani e così via.

(8) Rm 10,8; Gal 3,16; Eb 8,8; 10,5.

(9) Soggetti sottintesi: la Scrittura (Rm 10,8; cf 10,11), il Signore (Gal 3,16: cf Gn 13,14-15; Eb 8,8: cf 8,8.9), il Cristo (Eb 10,5).

(10) Soggetti espressi: « la Scrittura » (Rm 9,17; Gal 4,30), « la Legge » (Rm 3,19; 7,7), « Mosè » (Mc 7,10; At 3,22; Rm 10,19), « Davide » (Mt 22,43; At 2,25; 4,25; Rm 4,6), « il profeta » (Mt 1,22; 2,15), « Isaia » (Mt 3,3; 4,14; ecc.; Gv 1,23; 12,39.41; Rm 10,16.20), « Geremia » (Mt 2,17), « lo Spirito Santo » (At 1,16; Eb 3,7; 10,15), « il Signore » (Eb 8,8.9.10 = Ger 31,31.32.33).

(11) Rm 9,15.17; 1 Tm 5,18.

(12) Mt 2,5; 4,10; 26,31; ecc.

(13) 1 Cor 9,8; Rm 6,19; Gal 3,15.

(14) Rm 15,4; cf 1 Cor 10,11.

(15) Mc 8,31; cf Mt 16,21; Lc 9,22; 17,25.

(16) Mt 1,22; 2,15; 2,23; Mt 4,14; 8,17; 12,17; 13,35; 21,4.

(17) Gv 12,38; 13,18; 15,25; 17,12; 19,24.28.36.

(18) Mc 14,49; cf Mt 26,56; Gv 19,28.

(19) Lc 24,27; cf 24,25.32.45-46.

(20) Passione: At 4,25-26; 8,32-35; 13,27-29; risurrezione: 2,25-35; 4,11; 13,32-35; Pentecoste: 2,16-21; apertura missionaria: 13,47; 15,18.

(21) Gal 3,6-14.24-25; 4,4-7; Rm 3,9-26; 6,14; 7,5-6.

(22) Secondo la concezione rabbinica, la Legge scritta era accompagnata da una Legge complementare, orale.

(23) L’origine e l’estensione del canone della Bibbia ebraica saranno trattate più avanti, in I.E., n. 16.

(24) Ez 47,1-12 seguito da Gl 2,18.27 e Zc 14,8-11.

(25) Eb 1,5-13; 2,6-9; 3,7–4,11; 7,1-28; 10,5-9; 12,5-11.26-29.

(26) Troviamo il qal wa-homer in Mt 6,30; 7,11; Gv 7,23; 10,34-36; Rm 5,15.17; 2 Cor 3,7-11; e la gezerah shawah in Mt 12,1-4; At 2,25-28; Rm 4,1-12; Gal 3,10-14.

(27) Cf Gal 3,19 (Paolo trae dalla mediazione degli angeli nella promulgazione della Legge un argomento per dimostrare l’inferiorità di quest’ultima); 4,21-31 (la menzione di Sara e Agar serve a mostrare che i Gentili che credono in Cristo sono « figli della promessa »); Rm 4,1-10 (la fede di Abramo, e non la sua circoncisione, gli ottengono la giustificazione); 10,6-8 (a Cristo viene applicato un versetto che parla di salita al cielo); 1 Cor 10,4 (Cristo è identificato con la roccia che accompagnava il popolo nel deserto); 15,45-47 (i due Adamo, di cui Cristo è il secondo e il più perfetto); 2 Cor 3,13-16 (al velo che copriva il volto di Mosè viene attribuito un significato simbolico).

(28) Cf Ef 4,8-9 (dove viene applicato a Cristo un testo sulla salita al cielo applicato tradizionalmente a Mosè); Eb 7,1-28 (sulla superiorità del sacerdozio secondo l’ordine di Melchisedek rispetto a quello dei sacerdoti leviti).

(29) 1QH 2,31-36; 5,12-16; 18,14-16.

(30) Gli ebrei annoverano 24 libri nella loro Bibbia, che essi chiamano Tanak, termine formato dalle iniziali di Tôrah, « Legge », Nebi’im, « profeti », e Ketubim, altri « scritti ». La cifra di 24 è spesso ridotta a 22, numero delle lettere dell’alfabeto ebraico. Nel canone cristiano, a questi 24 o 22 libri corrispondono 39 libri, detti « protocanonici ». La differenza si spiega col fatto che gli ebrei considerano come un solo libro molti scritti che sono invece distinti nel canone cristiano, ad esempio gli scritti dei dodici profeti « minori ».

(31) La Chiesa cattolica annovera 46 libri nel suo canone dell’Antico Testamento, 39 protocanonici e 7 deuterocanonici, così chiamati perché i primi furono accettati nel canone senza grande discussione o senza alcuna discussione, mentre i secondi (Siracide, Baruc, Tobia, Giuditta, Sapienza, 1 e 2 Maccabei e alcune parti di Ester e di Daniele) furono accettati definitivamente solo dopo vari secoli di esitazione (da parte di alcuni padri della Chiesa come pure di Girolamo); le Chiese della Riforma li chiamano « apocrifi ».

(32) Nel suo Contro Apione (1.8), scritto tra il 93 e il 95, Giuseppe Flavio è molto vicino all’idea di un canone delle Scritture, ma il suo vago riferimento a dei libri ai quali non è stato ancora dato un nome (designati più tardi come « Scritti ») fa pensare che nel giudaismo non si fosse ancora arrivati allo stadio di una collezione di libri nettamente definita.

(33) Quella che viene chiamata l’Assemblea di Jamnia aveva piuttosto la natura di una scuola o di un’accademia, installata ad Jamnia tra l’anno 75 e l’anno 117. Non abbiamo attestazioni di una decisione di stilare una lista di libri. C’è motivo di ritenere che il canone delle Scritture ebraiche non sia stato fissato in modo rigido prima della fine del II secolo. Le discussioni tra scuole sullo status di alcuni libri si sono protratte fino al III secolo.

(34) Se la Chiesa primitiva avesse ricevuto da Alessandria un canone chiuso o una lista chiusa, ci si aspetterebbe che i manoscritti dei Settanta ancora esistenti e le liste cristiane dei libri dell’Antico Testamento avessero entrambi un’estensione virtualmente identica a questo canone. Ma non è così. Le liste veterotestamentarie dei padri della Chiesa e dei primi concili non mostrano questo tipo di unanimità. Non furono gli ebrei di Alessandria a stabilire un canone esclusivo delle Scritture, ma la Chiesa, a partire dai Settanta.

(35) Questi libri comprendevano scritti composti originariamente in ebraico e tradotti in greco, ma anche scritti composti direttamente in greco.

(36) Cf Denzinger-Hünermann,Enchiridion symbolorum, 36a ed., Freiburg i.B., Basel, Roma, Vienna 1991, nn. 1334-1336,1501-1504.

(37) Sull’origine di questa espressione, si veda sopra, n. 2. Oggi in alcuni ambienti si tende a usare l’appellativo « Primo Testamento », per evitare la connotazione negativa che si potrebbe attribuire ad « Antico Testamento ». Ma « Antico Testamento » è un’espressione biblica e tradizionale che non ha in sé alcuna connotazione negativa: la Chiesa riconosce pienamente il valore dell’Antico Testamento.

(38) Cf I.D.: « Metodi esegetici giudaici usati nel Nuovo Testamento », nn. 12-15.

(39) Cf Rm 5,14; 1 Cor 10,6; Eb 9,24; 1 Pt 3,21.

(40) Tommaso d’Aquino,Summa theologica, I, q. 1, a. 10. ad 1um, cf anche Quodl. VII, 616m.

(41) Is 35,1-10; 40,1-5; 43,1-22; 48,12-21; 62.

(42) Cf sotto, II B.9 e C, nn. 54-65.

(43) « Non solum impletur, verum etiam transcenditur », Ambrogio Autpert, citato da H. de Lubac,Exégèse médiévale, II. 246.

(44) 2 Cor 5,17; Gal 6,15.

(45) Cf il documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, I.C.2: « Approccio mediante il ricorso alle tradizioni di interpretazione giudaiche ».

(46) Gn 12,1-3; 26,23-24; 46,2-4.

(47) Es 20,1; 24,3-8; 34,27-28; cf Nm 15,31.

(48) Os 12,14; Dt 18,15.18.

(49) Is 6,5-8; Ger 1,4-10; Ez 2,1-3,3.

(50) Is 55,11; Ger 20,9.

(51) Mt 21,11.46; Lc 7,16; 24,19; Gv 4,19; 6,14; 7,40; 9,17.

(52) Metteremo regolarmente la parola signore tutta in maiuscolo quando il testo ebraico ha il tetragramma non pronunciato YHWH, nome proprio del Dio d’Israele. Nella lettura gli ebrei lo sostituiscono con altre parole, soprattutto con ‘adonai, « Signore ».

(53) Dt 4,35.39; Is 45,6.14.

(54) 1 Cor 8,4; cf Gal 3,20; Gc 2,19.

(55) Sal 115,15; 121,2; 124,8; 134,3; 146,6.

(56) Is 42,5; 44,24; 45,11; 48,13.

(57) Pr 8,22-31; 14,31; 17,5; Gb 38; Sap 9,1-2.

(58) Sal 139,13-15; Gb 10,9-12.

(59) Gb 26,12-13; Sal 74,12-23; 89,10-15; Is 45,7-8; 51,9-11.

(60) Mt 6,25-26,cf Lc 12,22-32.

(61) Sap 9,1; cf Sal 33,6-9; Sir 42,15.

(62) Ap 22,5; cf Is 60,19.

(63) 2 Cor 5,17; cf Gal 6,15.

(64) Gn 5,1; Sap 2,23; Sir 17,3. La stessa idea si trova in Sal 8,5-7,ma espressa con altri termini.

(65) Questa disposizione viene completata dopo il diluvio, cf Gn 9,3-4.

(66) Gn 1,4.10.12.18.21.25.

(67) Gn 5,29; Is 14,3; Sal 127,2; Pr 5,10; 10,22; 14,23.

(68) Gn 3,19; cf 2,7; 3,23.

(69) Mt 4,25 e par.; 15,31-32.

(70) Mt 8,10; 15,28.

(71) Gal 3,26; 4,6; Rm 9,26.

(72) 2 Cor 4,4; cf Col 1,15.

(73) Mt 4,24 e par.; 8,16 e par.; 14,35 e par.; Gv 5,3.

(74) Mc 5,38; Lc 7,12-13; Gv 11,33-35.

(75) Mt 3,10 e par.; Lc 13,1-5; 17,26-30; 19,41-44; 23,29-31.

(76) Mt 3,2-12; Mc 1,2-6; Lc 3,2-9.

(77) Mc 7,21-23; cf Mt 15,19-20.

(78) Mt 10,17-23; Lc 21,12-17.

(79) Mt 12,14 e par.; Gv 5,18; Mc 11,18; Lc 19,47.

(80) Rm 3,10; cf Sal 14,3; Qo 7,20.

(81) 2 Cor 5,14; cf Rm 5,18.

(82) Rm 5,12; 1 Cor 15,56.

(83) Es 15,1-10.20-21; Sal 106,9-11; 114,1-5; 136,13-15.

(84) Dt 26,6-9; cf 6,21-23.

(85) Gdc 2,11-22; 3,9.15; 2 Re 13,5; Ne 9,27. Il titolo di Salvatore è dato a Dio in 2 Sam 22,3; Is 43,3; 45,15; 60,16 e in altri testi.

(86) Is 41,14; 43,14; 44,6.24; 47,4; 48,17; 49,7.26; 54,5.8.

(87) Is 60,10-12; 35,9-10.

(88) Sal 7,2; 22,21-22; 26,11; 31,16; 44,27; 118,25; 119,134.

(89) Sal 34,5; 66,19; 56,14; 71,23.

(90) 2 Mac 7,9.11.14.23.29.

(91) Lc 1,69.71.74.77

(92) Nei Settanta, lytrotes ricorre solo due volte; è un titolo dato a Dio: Sal 18(19),14; 77(78),35.

(93) Applicato a Dio, questo titolo si trova solo una volta nei vangeli (Lc 1,47) e mai negli Atti degli apostoli né nelle lettere autentiche di Paolo; applicato a Gesù, due volte nei vangeli (Lc 2,11; Gv 4,42), due volte negli Atti (At 5,31; 13,23) e una volta nelle lettere autentiche di Paolo (Fil 3,20).

(94) La prima lettera a Timoteo applica il titolo solo a Dio, 3 volte (1 Tm 1,1; 2,3; 4,10); la seconda solo a Cristo, una volta (2 Tm 1,10); la lettera a Tito lo applica tre volte a Dio (Tt 1,3; 2,10; 3,4) e tre volte a Cristo (Tt 1,4; 2,13; 3,6). La seconda lettera di Pietro l’applica solo a Cristo, accompagnato, eccetto la prima volta, dal titolo di Signore (2 Pt 1,1.11; 2,20; 3,2.18).

(95) Mc 5,23.28.34; 6,56.

(96) Mt 9,22 e par.; Mc 10,52; Lc 17,19; 18,42.

(97) Mt 8,25-26 e par.; 14,30-31.

(98) Mt 9,18-26 e par.; Lc 7,11-17; Gv 11,38-44.

(99) Mt 27,39-44 e par.; Lc 23,39.

(100) Mt 20,28; Mc 10,45.

(101) Gv 6,15; Lc 24,21; At 1,6.

(102) Rm 1,16; cf 10,9-13; 15,8-12.

(103) In ebraico segullah: Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,18; Sal 135,4; Ml 3,17.

(104) Lv 11,44-45; 19,2.

(105) Dt 12,5.11.14.18.21.26; 14,23-25; ecc.

(106) Sal 78,67-68; 1 Cr 28,4.

(107) 2 Sam 6,21; 1 Re 8,16; 1 Cr 28,4; 2 Cr 6,6; Sal 78,70.

(108) Is 41,8-9; 44,1-2.

(109) Is 41,8-9; 44,1-2.

(110) Is 41,8-9; 43,10; 44,1-2; 45,4; 49,3.

(111) Is 43,10.12; 44,8; 55,5.

(112) Mt 28,20; cf 1,23.

(113) Lc 19,48; 21,38.

(114) At 2,41.47; 4,4; 5,14.

(115) At 13,46; 18,6; 28,28. Nel vangelo di Luca, l’episodio della predicazione a Nazaret presenta già una struttura dello stesso genere di At 13,42-45 e 22,21-22: l’apertura universalistica di Gesù provoca l’ostilità dei suoi concittadini (Lc 4,23-30).

(116) At 28,26-27; Is 6,9-10.

(117) Sal 47,10; 86,9; Zc 14,16.

(118) Mt 8,11; Lc 13,29.

(119) Mc 16,15-16; cf Mt 28,18-20; Lc 24,47.

(120) 1 Pt 2,9; Is 43,21.

(121) 1 Pt 2,9; Es 19,6.

(122) 1 Pt 2,10; Os 2,25.

(123) Rm 11,1; 2 Cor 11,22; Gal 1,14; Fil 3,5.

(124) Discorso di Giovanni Paolo II nella sinagoga di Roma, il 13-4-1986: AAS 78 (1986) 1120.

(125) Dt 30,15-16.19; Gs 24,21-25.

(126) Es 19-24.32-34; specialmente 19,5; 24,7-8; 34,10.27-28.

(127) Es 32,11-13.31-32; 33,12-16; 34,9.

(128) Dt 4,13; cf 4,23; 9,9.11.15.

(129) Sal 89,4; 132,11; 2 Sam 23,5; Sal 89,29-30.35.

(130) 2 Sam 7,14 e par.; Sal 2,7; 89,28.

(131) Es 24,12; 31,18; ecc.

(132) Is 1,1-31; Ger 7,25-26; 11,7-8.

(133) Ez 36,26-27; cf 11,19-20; 16,60; 37,26.

(134) Documento di Damasco 6,19; 19,33-34.

(135) Ez 36,26-28; Gl 3,1-2.

(136) Gal 3,15-4,7; 4,21-28; Rm 6,14; 7,4-6.

(137) Gn 12,3; Gal 3,8.

(138) Gal 3,29; 2 Cor 1,20.

(139) Eb 8,7-13; Ger 38,31-34 LXX.

(140) Eb 9,15; cf 7,22; 12,24.

(141) Eb 7,18; 9,9; 10,1.4.11.

(142) Mt 1,1; 9,27; ecc. cf Lc 1,32; Rm 1,3.

(143) Dt 4,6-8; Sir 24,22-27; Bar 3,38–4,4.

(144) Mt 5,21-48; Mc 2,23-27.

(145) Decalogo Es 20,1-17; Dt 5,6-21; codice d’alleanza Es 20,22–23,19; raccolta di Es 34; legge deuteronomica Dt 12–28; codice di santità Lv 17–26; leggi sacerdotali Es 25–31; 35–40; Lv 1–7; 8–10; 11–16 ecc.

(146) Es 19–24; 32–34, cf Dt 5; 9–10.

(147) Gn 17; Es 12-13; 15,23-26; ecc.

(148) Es 20,19-21; Dt 5,23-31.

(149) Es 19,5-6; 24,10-11.

(150) Es 32–34; Es 20,2-6 e par.

(151) Ad esempio la legislazione sull’affrancamento degli schiavi: Es 21,2; Lv 25,10; Dt 15,12; cf Is 58,6; 61,1; Ger 34,8-17.

(152) Es 20,2; Dt 5,6.

(153) Rm 7,10; Gal 3,21-22.

(154) Rm 1,17; Gal 2,19-20.

(155) Lv 19,18; Gal 5,14; Rm 13,8-10.

(156) Rm 10,3; Fil 3,9.

(157) Gal 3,10 che cita Dt 27,26.

(158) Gal 3,11; Ab 2,4.

(159) Gal 5,6; cf 5,13; 6,9-10.

(160) Eb 2,2; 7,5.28; 8,4; 9,19.22; 10,8.28.

(161) Lv 19,18; Gc 2,8; 4,11.

(162) Es 32,11-13.30-32; ecc.

(163) Sichem: Gn 12,6-7; Betel: 12,8; Mambre: 18,1-15; Bersabea: 26,23-25.

(164) Il sabato: Gn 2,1-3; Es 20,8-11; l’anno sabbatico: Lv 25,2-7.20-22; l’anno giubilare: 25,8-19; le feste: Es 23,14-17; Lv 23; Dt 16,1-17; il Giorno delle espiazioni: Lv 16; 23,27-32.

(165) Da notare che l’Antico Testamento non conosce tempi impuri.

(166) Gn 28,16-18; Es 3,5; Gs 5,15.

(167) Es 23,11-12; Lv 25,6-7.

(168) Lv 4-5; 16; 17,10-12; Is 6,5-7; ecc.

(169) Es 25,8-9; Dt 4,7.32-34.

(170) Ger 11,19-20; 12,1-4; 15,15-18; ecc. Più tardi, 2 Mac 15,14 presenterà Geremia nell’aldilà come « l’amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo ».

(171) Is 12,1-6; 25,1-5; 26,7-19; 37,16-20; 38,9-20; 42,10-12; 63,7–64,11; Gio 2,3-10; Na 1,2-8; Ab 3,1-19.

(172) Am 4,13; 5,8-9; 9,5-6.

(173) Is 1,10-17; Os 6,6; Am 5,21-25; Ger 7,21-22.

(174) Is 1,15; 59,3.

(175) Gb 7,1-21; 9,25-31; 10,1-22; 13,20-14,22; ecc.

(176) Lm 1,9-11.20-22; 2,20; 3,41-45.55-66; 5,19-22.

(177) Pr 15,8.29; 28,9.

(178) Pr 30,7-9: Dn 2,20-23; 4,31-32.34; 9,4-19 (cf vv. 20.23). E più di frequente negli scritti deuterocanonici.

(179) 2 Re 22–23.

(180) Gn 14,18-20; 2 Sam 7; 24; Sal 132.

(181) Es 25,10-22; Lv 16,12-15. (E Rm 3,25; Eb 9,5).

(182) Mic 3,12; Ger 26,18; ecc.

(183) 1 Re 8,27; cf Is 66,1.

(184) Ez 10,3-22; 11,22-24.

(185) 1 Re 8,44.48; Zc 1,17.

(186) Sal 48; 87; 122.

(187) Is 60,19-20.

(188) Is 54,1-8; 62,2-5.

(189) Is 65,17-25; 66,20-23.

(190) Is 2,2-4; Mic 4,1-4.

(191) Mt 28,19; Mc 16,16; Lc 22,19; Gv 6,53-56; 1 Cor 11,24-25.

(192) Mt 11,25; Lc 10,21; Mt 14,19 e par.; 15,36 e par.; Gv 11,41; Mt 26, 26-27 e par.

(193) Mt 26,30; Mc 14,26.

(194) Mt 27,46; Mc 15,34.

(195) Cf Mt 9,22 e par.; 9,29; 15,28; Mc 10,52; Lc 18,42.

(196) Mt 6,5-15; Lc 18,9-14.

(197) Lc 11,5-8; 18,1-8.

(198) Mt 6,9-13; Lc 11,2-4.

(199) Fil 2,6-11; Col 11,15-20; 1 Tm 3,16. L’inno di Ef 1,3-14 glorifica il Padre per l’opera compiuta « in Cristo ».

(200) 2 Cor 1,3-4; Ef 1,3.

(201) Gv 4,23; Rm 8,15.26.

(202) Mt 26,26-28 e par.; Gv 6,51-58; 1 Cor 10,16-17; 11,17-34.

(203) Mc 16,16; Mt 28,19-20.

(204) Cf sopra, nota 169 e Sal 40,7-9 citato e commentato in Eb 10,5-10; Sal 50,13-14; 51,18-19.

(205) Eb 9,8-10; 10,1.11.

(206) Eb 5,7-10; 9,11-15; 10,10.14.

(207) Gv 7,14.28.; Mc 12,35; Lc 19,47; 20,1; 21,37; Mt 26,55 e par.

(208) Gv 4,20-24; At 7,48-49 (a proposito del tempio di Salomone, citando Is 66,1-2); At 17,24 (a proposito dei templi pagani).

(209) Gv 2,19; cf Mt 26,61 e par.

(210) Ap 3,12; 7,15; 11,1-2.19; 14,15.17; 15,5.8; 16,1.17; 21,22.

(211) Mt 20,17-19 e par.; 21,1-10 e par.; Lc 9,31.51; 13,33.

(212) Lc 19,41-44. Cf Mt 23,37-39; Lc 13,34-35; 21,20-24.

(213) Es 15,24; 16,2; 17,3; ecc.

(214) L’episodio del vitello d’oro è il primo episodio narrativo dopo la conclusione dell’alleanza. I capitoli intermedi (Es 25–31) sono testi legislativi.

(215) Es 33,3.5; 34,9; Dt 9,6.13; 31,27; Ba 2,30.

(216) Nm 13,31–14,4; Dt 1,20-21.26-28.

(217) 2 Re 21,15; Ger 7,25-26.

(218) Is 58,1; cf Os 8,1; Mic 3,8.

(219) Am 2,6-7; 4,1; 8,4-6.

(220) Rigetto d’Israele in Os 1,4-6.8-9; Am 8,1-2; di Giuda in Is 6,10-13; Ger 6,30; 7,29.

(221) Mic 3,11-12; Ger 7,14-15.

(222) Ger 7,9; 9,1-8.

(223) Ger 3,1-13; 5,7-9.

(224) Esd 9,6-7.10.13.15; Ne 1,6-7; 9,16-37; Ba 1,15-22; Dn 3,26-45 LXX; 9,5-11.

(225) Os 11,8-9; Ger 31,20.

(226) Os 2,21-22; Ger 31,31-34; Ez 36,24-28.

(227) Lc 19,43-44; Mt 24,2.15-18 e par.

(228) At 3,17; cf Lc 23,34.

(229) At 2,41; 4,4.

(230) Gal 5,21; Ef 5,5; Eb 10,26-31.

(231) 1 Cor 4,8; 5,1-5; 6,1-8; 11,17-22; 2 Cor 12,20-21; Gal 1,6; 4,9; 5,4.7.

(232) 1,24.26.28; cf Sal 81,13.

(233) 1 Cor 1,10-13; 3,1-4.

(234) 1 Cor 5,1-5; cf anche 1 Tm 1,19-20.

(235) 1 Tm 1,19-20; 2 Tm 2,17-18.

(236) Ap 2,7.11.17.29; ecc.

(237) Ap 2,5.16.22; 3,3.19.

(238) Gn 13,16; 15,5; 17,5-6.

(239) Gn 15,4; 17,19; 21,12.

(240) Is 61,9; 65,23; 66,22.

(241) Ne 9,2: cf 10,31; 13,3; Esd 9–10.

(242) Lc 1,55.73; cf anche Eb 11,11-12.

(243) Gn 12,7; 13,15; 15,4-7.18-21; 17,6-8; 28,13-14; 35,11-12.

(244) Es 3,7-8; 6,2-8; Dt 12,9-10.

(245) Lv 18,24-28; Dt 28,15-68.

(246) Lv 25,23; Sal 39,13; 1 Cr 29,15.

(247) Am 9,11-15; Mic 5,6-7; Ger 12,15; Ez 36,24-28.

(248) Si veda sopra, II.B.7, nn. 48 e 51.

(249) Is 2,1-4; Mic 4,1-4; Zc 14; Tb 13.

(250) Gs 6,21; 7,1.11; 8,26; 11,11-12.

(251) Dt 7,3-6; 20,18; cf Esd 9,1-4; Ne 13,23-29.

(252) Eb 11,9-16; si veda anche 3,1.11-4,11.

(253) Es 23,30; Sal 37,11.

(254) Am 5,18-20; 8,9; Sof 1,15.

(255) Os 11,8-11; Am 5,15; Sof 2,3.

(256) Ez 20,33-38; Is 43,1-21; 51,9-11; 52,4-12.

(257) Ez 34,1-31; Is 40,11; 59,20.

(258) Is 44,3; Ez 36,24-28.

(259) Ez 37,1-14.

(260) Ez 43,1-12; 47,1-12.

(261) Is 41,8-10; 44,1-2.

(262) Is 66,22; Ger 33,25-26.

(263) Is 27,12-13; Ger 30,18-22; ecc.

(264) Is 66,18-21; Zc 14,16.

(265) Is 11,11-16; Ger 31,7; Mic 2,12-13; 4,6-7; 5,6-7; Sof 3,12-13; Zc 8,6-8; ecc.

(266) Esd 9,13-15; Ne 1,2-3.

(267) At 2,41; 4,4; 5,14.

(268) Mt 13,14-15 e par.; Gv 12,40; At 28,26-27; Rm 11,8.

(269) Es 15,18; Nm 23,21; Dt 33,5.

(270) Is 41,21; 43,15; 52,7; Ez 20,33.

(271) Is 33,22; Mic 2,13; Sof 3,15; Ml 1,14.

(272) Is 24,23; Mic 4,7-8; Zc 14,6-9.16-17.

(273) Sal 47; 93; 96–99.

(274) All’inizio nei salmi 93; 97; 99; al centro nei salmi 47 e 96.

(275) Sal 47,9; cf 96,10.

(276) Mt 4,17.23; 9,35.

(277) Mt 13,47-50; 22,1-13; cf 24,1-13.

(278) Mt 16,28; 25,31.34.

(279) Gv 3,3.5; At 1,3; 8,12; ecc.; Rm 14,17; 1 Cor 4,20; ecc.

(280) Ap 12,10 ha « il regno del nostro Dio ».

(281) Is 9,1-6; 11,1-9; Ger 23,5-6; Ez 34,23-24; Mic 5,1-5; Zc 3,8; 9, 9-10.

(282) 1QS 9,9-11; 1QSa 2,11-12; CD 12,23; 19,10; 20,1.

(283) 1 1 Hen 93,3-10; 2 Ba 29-30.39-40.72-74; 4 Esd 7,26-36; 12,31-34; Apoc Abr 31,1-2.

(284) Mt 1,1-17; 2,1-6; Lc 1,32-33; 2,11.

(285) Gv 1,41; 4,25.

(286) Mt 11,3; Lc 7,19; Gv 11,27.

(287) Mt 24,5.23-24; Mc 13,21-22.

(288) Mt 16,16 e par.; Gv 11,27; 20,31; At 2,36; 9,22; 17,3; 18,5.28; 1 Gv 5,1.

(289) Mc 8,31-33; Lc 24,26.

(290) Gv 3,28; 11,27; 20,31.

(291) Gv 7,25-31.40-44; 9,22; 10,24; 12,34-35.

(292) 2 Sam 7,14; cf Sal 2,7.

(293) Mt 16,16; Mc 14,61-62 e par.; Gv 10,36; 11,27; 20,31; Rm 1,3-4.

(294) Gv 10,30 (cf 10,24); cf 1,18.

(295) At 9,22; 18,5.28.

(296) Ap 2,26-27; 11,18; 12,5; 19,15.19.

(297) Mc 16,15-16; Gv 4,42.

(298) Mc 12,29; 1 Cor 8,4; Ef 4,6; 1 Tm 2,5.

(299) Sal 33,6; Pr 8,22-31; Sir 24,1-23; ecc.

(300) Gv 1,14-18; Eb 1,1-4.

(301) Rm 8,29; 2 Cor 3,18.

(302) 2 Cor 5,17; Gal 6,15.

(303) Rm 4,25; Fil 3,20-21; 1 Tm 2,5-6; Eb 9,15.

(304) Lc 22,20; 1 Cor 11,25.

(305) Mai il Nuovo Testamento chiama la Chiesa « il nuovo Israele ». In Gal 6,14 « l’Israele di Dio » designa molto probabilmente i Giudei che credono in Cristo Gesù.

(306) Lc 14,12-24; 1 Cor 1,26-29; Gc 2,5.

(307) Guerra 2.8.2-13; § 119-161.

(308) Guerra 2.8.14; § 162; Antichità 18.13; § 14.

(309) Gal 1,13-14; Fil 3,5-6; cf At 8,3; 9,1-2; 22,3-5; 26,10-11.

(310) Mt 9,11.14 e par.; 12,2.14 e par.; 12,24; 15,1-2 e par.; 15,12; 16,6 e par.; 22,15 e par.

(311) Mt 5,47; 15,26 e par.

(312) Nel II s., il racconto del martirio di Policarpo testimonia dell’« abituale » ardore degli ebrei di Smirne nel cooperare per la messa a morte dei cristiani (Martyrium S. Polycarpi », XIII,1).

(313) Questa osservazione vale per il plurale, non per il singolare di 8,19 e 13,52.

(314) Is 8,23–9,6; Ger 31–32; Ez 36,16-38.

(315) Mt 28,18; cf Dn 7,14.18.27.

(316) Mc 15,2.9.12.18.26.

(317) Mc 12,29; 15,32.

(318) Mc 7,6; 14,2.

(319) Mc 11,18; 12,12; 14,2.

(320) Si veda anche Mc 8,11-12.15; 10,2-12; 11,27-33.

(321) Mc 11,18; 12,12; 14,2.

(322) È una tendenza che continua a manifestarsi: la responsabilità dei nazisti è stata estesa a tutti i tedeschi, quella di alcune lobby occidentali a tutti gli europei, quella di alcuni stranieri a tutti gli « extracomunitari ».

(323) Luca nota che « una gran folla di popolo » seguiva Gesù (23,27); ne facevano parte molte donne « che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui » (ibid.). Dopo la crocifissione, « il popolo stava lì a contemplare » (23,35); questa contemplazione lo preparava alla conversione: alla fine, « tutte le folle che erano state presenti a questa contemplazione, avendo contemplato quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto » (23,48).

(324) At 13,44-45.50; 14,2-6; 17,4-7.13; 18,5-6.

(325) Si veda sopra II.B.3.b, n. 32.

(326) Gv 2,23; 4,39.41; 7,31; 8,30-31; 10,42; 11,45; 12,11.42.

(327) Gv 1,10.11; 15,18.25.

(328) Gv 5,18; 10,33; 19,7.

(329) Gv 18,38-40; 19,14-15.

(330) Gv 9,22; 12,42; 16,2.

(331) Gv 7,20; 8,48.51; 10,20.

(332) Gal 5,14; Rm 13,9.

(333) Cf Talmud di Babilonia, Trattato Shabbat 31a.

(334) Rm 9,27-29 cita Is 10,22-23; Os 2,1 LXX; Rm 11,4-5 cita 1 Re 19,18.

(335) Ger 7,16.20; 11,11.14; 15,1.

(336) Il rifiuto dell’idolatria e il disprezzo per il paganesimo da parte degli ebrei suscitavano contro di essi una forte ostilità; erano accusati di essere un popolo a parte (Est 3,8), « in conflitto su tutti i punti con tutti gli uomini » (Est 3,13e LXX) e di nutrire « odio contro tutti gli altri (uomini) » (Tacito, Storia, 5.5). Il punto di vista di Paolo è diverso.

(337) Dt 10,16; cf Ger 4,4; Rm 2,29.

(338) Cf 1 Cor 6,9-11; Ef 4,17-19. In Dt 23,19 « cane » designa una prostituta; in Grecia, la cagna era simbolo di impudicizia. Per le mutilazioni cultuali, cf Lv 21,5; 1 Re 18,28; Is 15,2; Os 7,14.

(339) Gal 4,28-29; Rm 9,8.

(340) In greco per « che [hanno] » si ha due volte un semplice genitivo, che esprime possesso (letteralmente: « dei quali [sono] »); per « dai quali [proviene] » si ha un genitivo introdotto dalla preposizione ex, che esprime l’origine.

(341) Eb 4,9; 11,25; cf 10,30 « suo popolo ».

(342) Nm 14,1-35; Eb 3,7–4,11.

(343) Eb 12,3; cf Lc 24,7.

(344) 1 Pt 2,9; Es 19,6; Is 43,21.

(345) At 3,26; Rm 1,16.

(346) Sal 98,2-4; Is 49,6.

(347) Dichiarazione Nostra Aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, n. 4.

(348) Paolo VI,omelia del 28 ottobre 1965: « ut erga eos reverentia e amor adhibeatur spesque in iis collocetur » (« che si abbia verso di loro rispetto e amore e si ponga speranza in loro »).

(349) AAS 58 (1966) 740.

(350) Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III, 2 (1980) 1274.

(351) Insegnamenti di Giovanni Paolo II, IX, 1 (1986) 1027.

(352) Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XX, 2 (1997) 725.

(353) L’Osservatore Romano, 24 marzo 2000.

*****

Fonte: http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_20020212_popolo-ebraico_it.html