Oberski Jona, Anni d’infanzia, La cucina

Nel nuovo campo non incontrammo mai il papa. Appena arrivati lo avevano mandato da un’altra parte. Ma del nostro arrivo mi ricordavo a malapena, perché la pillola mi aveva lasciato tutto insonnolito.
La mamma e io dormivamo insieme nel letto più in alto, appena sotto il tetto inclinato della baracca. Qui i letti erano molto più vicini gli uni agli altri e molto più stretti che a Westerbork  . Ed erano quattro, uno sopra l’altro. Non avevamo lenzuola, perché la mamma aveva dato le nostre al papa. Disse: «Perché non ha ritrovato il suo fagotto e perché le lenzuola sono più necessarie a lui che a noi». Il mio burattino era andato perduto, e anche la mia copertina non c’era più. Ma una signora aveva un po’ di filo e la mamma mi fece l’orlo a una nuova pezzuola triangolare.
Era molto brutto non poter mai parlare con il papa, perché aspettavamo di sapere come lui riusciva a mandare avanti le pratiche per il nostro viaggio in Palestina. La sera la gente ne parlava, parlavano tutti insieme e dicevano che non si andava affatto in Palestina. Ma qualcuno disse: «Silenzio, ci sono dei bambini». Io feci finta di non aver sentito. Dopo un po’ non sentii più niente davvero. In questo campo mangiavo pochissimo. La mamma diceva che dovevo mangiare di più, altrimenti mi sarei ammalato. Ma io non avevo fame.
Un giorno, dopo il pranzo, la mamma mi portò nel posto dove stavano i pentoloni del cibo. Erano grossi pentoloni di ferro. C’erano molti bambini lì. La mamma disse che dovevo aiutarli a riportare le pentole in cucina. Le domandai se sarebbe venuta anche lei, ma lei rispose che non si poteva. Dovevo semplicemente afferrare uno dei pentoloni da un lato e aiutare a portarlo; gli altri lo reggevano dall’altra parte. Poi saremmo tornati indietro tutti insieme e lei sarebbe stata lì ad aspettarmi. Io non avevo nessuna voglia di farlo, perché bisognava traversare il recinto e fare tutta quella strada. E lì era pieno di soldati con i fucili. Forse non ci avrebbero più lasciati tornare indietro. Ma la mamma disse che lo dovevo fare, tutti i bambini dovevano a turno dare una mano a riportare i pentoloni e siccome io non lo avevo mai fatto finora, adesso toccava a me aiutare, per una volta. Cominciai a piangere e a dire che davvero non volevo. Ma la mamma mi carezzò la testa e disse che dovevo farlo per amor suo. Altrimenti gli altri si sarebbero arrabbiati con lei, se io non volevo aiutare. Dissi che l’avrei fatto il giorno dopo. Ma non si poteva. Dovevo farlo subito.
Il manico era troppo alto per me. I ragazzini più grandi portavano la pentola. Io non dovevo far altro che metterci sopra una mano. Dissi che in questo caso non c’era nessuna necessità che andassi con loro, ma la mamma disse che dovevo dimostrare che facevo del mio meglio.
La mamma mi fece un cenno di saluto e rise. Al cancello del recinto dovemmo aspettare un bel po’. poi aprirono. I soldati sollevavano il coperchio di ogni pentola e ci guardavano dentro. La nostra non aveva coperchio così potemmo passare subito. Dovevamo percorrere un pezzo di strada. Poi si arrivava alla baracca delle cucine. Lì faceva un caldo terribile. Sulla porta c’era un uomo che aveva addosso solo un paio di calzoni. Ci mostrò dove dovevamo deporre il pentolone. Disse anche che dovevamo far subito ben bene la pulizia delle pentole. Ci fu un gran baccano. I bambini facevano rumore con i coperchi. L’uomo domandò se c’erano altri bambini. Poi richiuse la porta. Alzò una mano e contò fino a tre. D’improvviso ci fu un gran silenzio. Tutti i bambini si chinarono sull’orlo dei pentoloni. Alcuni non toccavano più per terra con i piedi. Si vedevano solo le loro schiene curve e le gambe. Teste e braccia erano scomparse. Io avrei volentieri dato una mano a pulire, ma non sapevo che cosa fare. E l’uomo aveva molta premura. Mi misi accanto al nostro pentolone e cercai di guardare oltre l’orlo. I bambini che lo avevano portato se n’erano già andati. Ora stavano ripulendone un altro. L’uomo mi venne vicino. Aveva la barba nera e i baffi. Guardò nella pentola e poi guardò me. Aveva visto che io non avevo aiutato a pulire. Mi domandò se andava bene. Io feci cenno di sì, ma lui disse che io non arrivavo all’orlo. Mise una pentola più piccola rovesciata accanto al pentolone. «Mettiti lì sopra». Guardai oltre l’orlo. Sulla parete interna del pentolone c’erano ancora molti avanzi gialli di patate.
Dopo un po’ l’uomo disse che dovevamo andarcene. Quando tutti i bambini furono sulla porta domandò: «Era buono?». Tutti gridarono: «Siii». Io avevo tenuto per molto tempo la testa china dentro il pentolone e non mi ero accorto che lui avesse distribuito qualcosa di buono.
Tornammo indietro verso il recinto. I soldati ci indicavano con il dito teso. Per contarci, dissero i bambini. Lo fecero almeno cinque volte. Poi potemmo entrare. Io cercai con gli occhi la mamma, ma lei non c’era. Mi misi a piangere. Una ragazza grande mi portò da lei nella nostra baracca. La mamma domandò come era andata e io glielo raccontai. Le dissi che avevo sperato che quel signore non si sarebbe accorto che io non avevo pulito. Ma davvero dentro non ci arrivavo e lui non mi aveva dato niente per poter ripulire l’interno della pentola. E che agli altri bambini lui doveva aver dato qualcosa di buono, ma a me no. Voleva dire che si era accorto che non avevo fatto bene il mio lavoro.
Allora la mamma si mise a sgridarmi: «Ma come, non hai mangiato gli avanzi che c’erano dentro, non hai mangiato niente?». Risposi che il signore non aveva detto che dovevamo mangiare quello che era rimasto dentro, aveva solo detto che dovevamo ripulire. E che anche lei non mi aveva spiegato niente. Era molto arrabbiata. Per prima cosa con me e poi anche con il signore. Mi portò con sé dagli altri e io dovetti raccontare di nuovo tutto da principio e lei si mostrò molto arrabbiata con quelle persone. Una signora disse che dovevo aspettare una settimana, poi avrei potuto aiutare un’altra volta a portare il pentolone. Mi domandò se mi era piaciuto e io dissi di sì.
Ogni volta che dopo il pasto i pentoloni erano stati portati via, si udiva, dopo un po’ e fin dall’altra parte, un fortissimo «siii» proveniente dalla baracca delle cucine. Io stavo con gli altri bambini alla barriera di filo spinato, in ascolto. Quel suono lo avevo sentito già altre volte prima, ma non avevo mai saputo da dove venisse.
Una settimana dopo potei di nuovo andare con gli altri. Quando arrivai dentro, l’uomo mi guardò. «Vengo subito da te e ti aiuto» mi disse. «Sei già stato qui una volta, non è vero?». Quando la porta fu chiusa, venne da me. Mi sollevò in alto per mettermi dentro il pentolone. Domandai se però dopo veniva anche a tirarmi di nuovo fuori. «Sì, naturalmente». A quella pentola non c’erano altri bambini. «Comincia a mangiare alla svelta» mi disse. «Con cosa?» domandai. Lui raspò il cibo con le dita, lo raccolse nella mano e se lo mise in bocca. Io dissi che la mia mamma non mi permetteva di leccarmi le dita. «Ma io sì» fece lui e se ne andò. Io non sapevo che cosa fare. Gli altri bambini si leccavano le dita. Volevo cominciare anch’io a ripulire il pentolone con le dita, quando l’uomo tornò e mi portò un bel cucchiaio luccicante che pareva d’argento.
Il pentolone non era ancora completamente vuoto quando l’uomo tornò e disse che dovevamo andarcene. Io continuai a mangiare in gran fretta, ma lui mi sollevò e mi depose fuori dal pentolone, sul pavimento. Il cucchiaio lo potevo tenere, mi disse, ma dovevo fare attenzione a nasconderlo ben bene sotto i vestiti.
Questa volta trovai da solo la strada per tornare alla nostra baracca. La mamma fu molto contenta. Dissi che il signore della cucina doveva essere un mof 1 di quelli buoni, come quello di Amsterdam che l’aveva aiutata a portare la valigia. Lei rise e disse che quello non era affatto un mof, ma il signor L., che conoscevo anch’io, il papa di Marion, la figlia della signora L. La signora L. e Marion le conoscevo, ma che quello fosse il signor L. … Non gli somigliava affatto.

 


 

Note

1 Mof (plurale: moffen): forma spregiativa usata dagli olandesi per i tedeschi, specialmente in tempo di guerra, ma poi rimasta nel linguaggio colloquiale. Equivale al boche dei francesi e al kraut degli americani. (N.d.T.)

 


 

Jona Oberski, Anni d'infanzia
Jona Oberski, Anni d’infanzia

Jona Oberski
Anni d’infanzia
Un bambino nei lager
Traduzione di Amina Pandolfi
pp. 120, ISBN 88-85943-49-7
Ed Giuntina

Jona Oberski è nato ad Amsterdam nel 1938 e lavora attualmente in un istituto di fisica nucleare. In questa sua prima opera, già pubblicata in numerosi paesi, descrive la sua tragica esperienza di bambino ebreo deportato insieme i genitori in un campo di concentramento. Da questo libro è stato tratto il film di Roberto Faenza Jona che visse nella balena.

 

 

 

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